Home Servizi culturali Raccontami una storia 2018 I tre Kevin (Francesca Santi)

I tre Kevin (Francesca Santi)

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I tre Kevin (Francesca Santi)

Meno di venti metri dalla colonna all’uscita di sicurezza: ce la posso fare.

Mi guardo attorno e non c’è nessuno; sono ancora tutti in classe, ma in meno di cinque minuti le porte si spalancheranno e la piena mi travolgerà: devo muovermi prima. Ci saranno anche i tre Kevin in mezzo alla folla e se mi beccano sono morto: meglio una ramanzina dalla mamma e dalla prof che farsi ammazzare, no? Dirò che mi sono sentito male in bagno e che avevo bisogno d’aria: è una bugia a fin di bene.

Un momento… il bagno! Devo passarci davanti e loro potrebbero essere lì a fumare: in fondo passano molto più tempo a bighellonare per la scuola che in classe.

Guardo l’orologio tondo appeso al muro sgallato: è scolorito e coronato di riccioli di polvere, ma funziona ancora; ho quattro minuti per decidere e poi loro saranno liberi, come me… a meno che non mi stiano già aspettando fuori.

Guardo il cellulare; forse se mando un messaggio a Misha, lui mi dirà se quei tre sono nei paraggi: lui è in 3C con loro, li conosce bene, ma è fatto di tutt’altra pasta; è solo un po’ brusco, ma mi vuole bene. Le nostre madri sono come sorelle: i vecchietti che assistono sono dirimpettai, per questo iniziano e finiscono la giornata insieme da più di dieci anni.

Misha mi difenderebbe se loro provassero a mettermi all’angolo in sua presenza – ne sono sicuro – ma lui non è mai nei paraggi quando serve.

Un’altra occhiata all’orologio: tre minuti. Il tempo è agli sgoccioli. Cammino rasente il muro come un ladro che cerca di evitare le telecamere perché i tre Kevin hanno occhi dappertutto e io so che se farò un passo falso loro mi acciufferanno.

Sono forti i tre Kevin, sono come quel mostro con tante teste che puoi uccidere solo se tagli quella giusta, anzi, sono peggio, perché loro un punto debole non ce l’hanno: sono alti una ventina di centimetri più di me, sono forti – fanno judo – biondi come il dio col martello; non sono parenti, ma è come se lo fossero… Le loro madri sembrano le loro sorelle più grandi: li hanno avuti tutti e tre lo stesso anno e in un modo o nell’altro sono rimaste da sole con i bambini. Li hanno chiamati così perché tutte avevano una cotta per un cantante di un gruppo che non esiste più: i Back Boys o qualcosa del genere.

La mattina i tre Kevin si mettono davanti all’ingresso e fermano tre bambini a caso per farsi pagare il pedaggio: vogliono soldi, soprattutto, ma si accontentano anche di altre cose. Un cappellino, magari, un orologio o un vecchio walkman, come quello che porto sempre con me. Ero io stamani uno dei prescelti. Mi hanno svuotato le tasche dei jeans, frugato in quelle del giubbotto e poi, a turno, mi hanno strofinato con forza le nocche delle dita sulla testa. Ancora mi brucia. Il Kevin con la frangia più lunga ha indicato il mio mangianastri, dicendo che quello poteva andar bene e che magari al negozio dell’usato ci avrebbero fatto qualche soldo. Ma io ho scosso forte il capo e sono sgusciato dentro. Il Kevin con gli incisivi scheggiati mi ha afferrato per il cappuccio, ma la prof d’inglese è passata in quell’istante e gli ha scoccato un’occhiataccia, così ha dovuto lasciarmi.

Ci vediamo a merenda – ha detto il Kevin con l’occhio strabico.

Ma io non sono mica scemo! Poco prima dell’intervallo ho chiesto al prof di italiano se poteva consigliarmi dei libri da leggere per migliorare il mio modo di esprimermi e lui si è offerto di accompagnarmi in biblioteca a sceglierli.

I Kevin andavano su e giù per il corridoio, inquieti come tigri che non si sono mai rassegnate a essere finite in gabbia; si incrociavano e ci seguivano, cercando di non farsi notare dal bidello e ogni volta che mi giravo a guardarli loro mi facevano dei gestacci, quasi sempre sincronizzati.

Due minuti ancora: devo accelerare il passo, l’uscita è vicina e… sbam!

La porta del bagno mi colpisce in piena naso. Barcollo all’indietro, cado supino e i tre Kevin sono subito sopra di me: prima mi guardano sghignazzando, poi quello con l’occhio storto si fruga nel naso brufoloso, ne estrae un orrore verdastro e me lo mostra, mentre quello con la frangia lunga mi tiene aperta la bocca. L’altro rovista nel mio zaino e ne tira fuori il walkman, alza il braccio e lo agita in aria prima di gettarlo a terra e calpestarlo.

Lo scricchiolio lo spezza e mi spezza anche il cuore. Non m’importa nemmeno più di inghiottire la caccola di quella carogna, mi basta che non mi vedano piangere, invece, due grosse lacrime mi scendono dall’angolo dell’occhio e mi rigano le guance.

Piange – esclama uno dei Kevin quasi in falsetto.

È la volta che si dà una lavata a quel musetto nero – dice un altro.

Ma il terzo – quello della caccola – non parla; forse ha imparato a volare perché per prima cosa vedo i suoi piedi che si sollevano da terra, poi capisco… Misha lo ha sollevato per la maglia – hanno tutti e tre i nomi di università importanti stampati sopra le felpe, ma dubito che ci andranno mai – e poi lo scaglia contro il distributore delle bibite. Gli altri lo attaccano in due e per un attimo hanno la meglio, ma poi la campanella suona, le porte si aprono e il prof di matematica è il primo a uscire dall’aula; i Kevin recuperano il membro ferito del loro terzetto e si defilano nel loro rifugio consueto: il bagno.

Il prof nota qualcosa di strano, ma l’orda di studenti si immette nel corridoio impedendogli di vederci. Misha mi tira su con un braccio, mentre con l’altro raccoglie ciò che resta del walkman.

I miei compagni ci travolgono e passano senza quasi accorgersi di noi: probabilmente mi avrebbero calpestato se fossi rimasto a terra.

Le grida, le battute e le chiacchiere riempiono la scuola, ma il silenzio torna dopo pochi istanti e Misha mi chiede: “Davvero hai rischiato di farti massacrare per questo, Naazir?”

Io abbasso gli occhi. “È l’ultimo regalo di mio padre: doveva raggiungermi, ma il viaggio è andato storto… c’era un messaggio registrato per me lì sopra.”

E cosa dice?”

E chi lo sa? La mamma ha detto che me lo tradurrà quando sarò più grande.”

Non capisci la tua lingua?”

La mia lingua è l’italiano. Nemmeno sapevo parlare quando sono partito.”

Misha sorride ed estrae trionfante la cassetta intonsa.

Potrai ancora ascoltarlo, anche se forse ti dirà la stessa cosa che mi ha detto il mio, quando mi ha salutato alla stazione.”

E cioè?”

Alla fine del tuo viaggio, sarai a casa: non permettere a nessuno di convincerti che non è così.”

Francesca Santi

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