Home Servizi culturali Raccontami una storia 2018 La casa bassa ovvero una storia inutile (Rosanna Malaspina)

La casa bassa ovvero una storia inutile (Rosanna Malaspina)

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La casa bassa ovvero una storia inutile (Rosanna Malaspina)

La piccola casa bassa è avvolta nel silenzio. Il sole ha appena iniziato a farsi strada nel nero della notte striandolo con timide velature biancastre. E’ inverno e uno scirocco feroce flagella la costa.
Carmen si sveglia. Le palpebre gonfie si schiudono a fatica, tentano di resistere, indugiano… c’è un lieve odore di fumo nella camera da letto.
Poi il rombo di un aereo in decollo e gli occhi di Carmen si spalancano. Faticano a mettere a fuoco il bianco indistinto della parete che le si para davanti.

La casa in cui Carmen andò a vivere da giovane sposa era a un solo piano. Quando era sorto, in un tempo non troppo lontano, il piccolo basso era circondato da bergamotti e gelsomini, adesso resisteva precario tra grandi capannoni e la pista dell’aeroporto. Per questo lei e Cosimo avevano potuto affittarlo a poco. Due stanze in tutto con un piccolo cortile sul retro, una stretta spianata affacciata su un campo scosceso in cui boccheggiavano, scossi dai fragori degli aeromobili, un mandorlo striminzito e un ulivo. Tutt’intorno cemento e lamiere ma, di fronte, la distesa del mare occhieggiava sul finire dello Stretto suggerendo miti di glorie lontane. Carmen non aveva osato sperare di meglio, lei che veniva da Spirito Santo, un quartiere così denso da soffocare.
Con Cosimo avevano visitato la casa poco prima del matrimonio, quando ormai non speravano più di trovare qualcosa che potessero permettersi. Carmen girava e girava per le uniche due stanze come un’ubriaca: «Mino, Minooo! Che bello, Minoo!» cinguettava.
Carmen era una ragazza semplice. Non era riuscita neanche a finire la scuola: la trovava noiosa e difficile e inutile. E già a sedici anni era convinta che Cosimo fosse l’uomo della sua vita, lo riconosceva nei protagonisti delle fiction o delle sit com con cui si inebetiva tutto il giorno, quando viveva ancora in casa della madre. Altrove sarebbe stata cannabis, ecstasy, coca ma a lei bastavano una dichiarazione d’amore, un ricongiungimento tra coniugi separati, un lungo bacio e finanche le risate finte di un pubblico immaginario per colmarle il cuore. Languore, commozione, lacrime, erano il pane con cui si nutriva disertando la scuola e attaccandosi alla TV sin dal primo mattino. La madre era sempre al lavoro. Colf, badante, becchina, infermiera, faticava giorno e notte ma non guadagnava abbastanza per permettere alla figlia la scuola di estetista che la ragazza avrebbe voluto frequentare. Così, nelle pause della TV, Carmen andava nel vicino negozio di parrucchiere Hair e non solo e lì si lasciava andare alla sua passione tra unghie finte, gel ricostruttivo, radiofrequenza, ossigenoterapia, ecc.

Alla fine Carmen si alza, ha voglia di caffè. Le sembra di sentirne l’odore nell’aria insieme a quella strana puzza di bruciato. «Mino ha fatto il caffè!» pensa contenta. Appena fuori dal letto è punta dal freddo dell’inverno: «Oddio! Non abbiamo acceso il riscaldamento ieri sera!» Poi ricorda che è stato Cosimo a impedirle di farlo perché non ci sono soldi, perché lei non lavora, perché i creditori si sono mangiati quel poco di eredità della madre. Carmen trema. Gelo. Gelo nelle ossa, gelo nella casa, gelo sulle labbra e negli occhi.

Quindi fu il matrimonio negli ultimi giorni di un aprile benigno e colmo di fiori.
Dapprima la madre aveva cercato di convincerla ad aspettare, sedici anni sono troppo pochi anche a quelle latitudini culturali. Ma poi aveva ceduto, per inerzia, lassismo, inettitudine. Dopo tutto Cosimo non le dispiaceva, aveva un discreto impiego in un’autofficina, era sempre lustro e ben vestito e la trattava con la familiarità affettuosa del genero.
Non aveva esitato, quindi, a indebitarsi fino alle mutande per regalare alla figlia la gioia che a lei era stata negata: abito bianco, fiori d’arancio, rose in chiesa, due mesi di caparra per la casa bassa, ortensie e gerani sul cemento del cortile, tendine alle finestre e una nuova luccicante cucina.

Carmen si scuote, cerca di vincere il freddo saltellando nella stanza e strofinandosi con vigore braccia e gambe. Il sangue ricomincia a circolare. Si avvicina allo specchio, si vede pallida come quando ha l’influenza. Allora ricorda gli insegnamenti di Hair e non solo. Prende il rossetto sul comò e si tinge le labbra di rosso. Una donna deve sempre essere pronta… ricorda. Labbra gelate, su cui il rossetto si raggruma.

Furono davvero felici quei primi anni. Due stanze bastavano e avanzavano. Che importava che i vestiti stessero negli scatoloni! Anzi era un gioco. Carmen e Cosimo ridevano fino a soffocare ogni volta che per caso pescavano l’indumento giusto. E poi, c’era l’amaca. Cosimo l’aveva installata nel soggiorno, fissandola a due ganci che aveva trovato nel soffitto, proprio di fronte alla finestra. Dopo l’amore, lui la prendeva in braccio e la depositava sull’amaca dondolandola piano. Insieme si imbevevano di malinconia guardando il mandorlo spoglio nel cielo d’inverno o ornato da teneri virgulti in primavera. Rami scuri e contorti, belli come l’amore che li nutriva.

Carmen esce dalla camera da letto con le labbra impiastricciate di rosso e i capelli scomposti.
Va in bagno, il bagnetto piccolo ma lussuoso che Carmine ha costruito per lei. La stufetta è accesa, lo specchio è appannato per il calore. Voglio restare qui, per scaldarmi un po’ pensa, ma il freddo non si scioglie, non se ne va. Apre la doccia e battendo i denti si infila sotto l’acqua calda sperando di scongelarsi.
«Perché non accendi il riscaldamento, Carmen? Perché prendi tempo?»

Finalmente, come Carmen da sempre sognava, Cosimo la prese tra le braccia e le fece varcare la soglia. I veli dell’abito nuziale furono acciaccati e calpestati.
Piano piano la casa bassa divenne quel nido d’amore cui aveva dedicato ogni speranza. Mentre lei si affaccendava nella sua modernissima cucina confezionando parmigiane e cuocendo il ragù per una mattinata intera, Cosimo trasformava il cortile. Vi aveva costruito un bel forno a legna e aveva messo su un piccolo pergolato di vite americana. Al di sotto avevano allestito tavolo e sedie per offrire agli amici pizze e pane caldo. Serate deliziose, col venticello fresco d’estate o col nuovo tepore della primavera. La musica della radio suonava allegra e il vino forte di Pellaro accendeva la compagnia.

Carmen esce dal bagno e va in cucina. Non si è riscaldata e Cosimo non ha fatto il caffè.
La bella cucina della madre è lì come lei l’ha lasciata la sera prima, il gattò di patate spappolato a terra, i piatti rotti e una bottiglia di vino aperta e in bilico sul lavandino.
Carmen riempie la caffettiera e la mette sul gas. Aspetta, seduta al tavolo di marmo, con le palpebre che sbattono forsennate contro il suo volere.

E poi venne quel giorno.
Carmen era tornata a casa dalla spesa con le melanzane… voleva fare le polpette, un piatto ghiotto per la loro cena.
«Vado a prendere le sigarette e torno!» aveva detto lui. Erano le cinque.
Carmen aveva sbucciato le melanzane, le aveva messe sotto sale, poi le aveva strizzate per eliminarne l’amaro e le aveva messe a bollire. Nel frattempo aveva preparato una ciotola colma di pangrattato, parmigiano, aglio, prezzemolo… Vi avrebbe messo dentro le melanzane ben scolate, le uova e avrebbe mescolato fino a ottenere un impasto omogeneo, poi avrebbe dato alle polpette la forma di una sfera schiacciata e le avrebbe fritte, calde calde per quando Mino fosse tornato.
Ma il tempo passava, le sette e Mino non si vedeva, le otto e Mino non si vedeva. Le nove e il telefono non squillava. Carmen buttò nella spazzatura la pentola con le melanzane bollite. Si mise a letto fingendo di non curarsi dell’assenza di lui. Aspettava. Poi la notte si fece mattina e lei finalmente cedette ad un sonno scuro.
Si svegliò tardi quel giorno. Le dieci e tutto era come la notte prima: la pentola con le melanzane in bella mostra nella spazzatura e a giorno fatto.
Mino non c’era ancora.

Il tempo è immobile, il caffè non esce. Granelli minuscoli si fermano nella canna. Polvere di sabbia volteggia sulla pista dell’aeroporto. Il volo da Torino non può atterrare. Lo scirocco blocca tutto.
Carmen continua ad aspettare, seduta al tavolo di marmo, con le palpebre che sbattono forsennate contro il suo volere.

Mino non c’era ancora quando quella mattina arrivò la notizia.
Drin drin suonò finalmente il telefono e Carmen lo afferrò con furia, certa che finalmente fosse il suo Mino:
«Signora, mi spiace doverle comunicare che sua madre è deceduta stamattina alle cinque. L’aspettiamo al più presto in ospedale.»
Se n’era quasi dimenticata che la madre combatteva la sua ultima battaglia: tumore, chemio, emorragia.
«Mamma!»

«Mamma!» ripete ancora Carmen di fronte alla macchinetta ribelle. «Mamma solo adesso mi accorgo che non ci sei. Finalmente Mino me lo permette. Finalmente ha smesso di essere geloso di te e io posso piangerti con tutte le lacrime che voglio». Lacrime salate si arrampicano sull’anima e costringono Carmen a singhiozzare. Poi tossisce per il fumo che piano piano si sta insinuando in cucina.

E quindi vennero le botte! Esplosioni di violenza selvaggia che Mino scaricava contro di lei.
«Ti ho visto che hai sorriso a Daniele. Vuoi andarci a letto?» «Che vuole ancora quella vecchia di tua madre? Perché è sempre qui a controllare?» «Smettila di limarti le unghie, puttana! Chi devi vedere?» E subito dopo pugni e calci la lasciavano a terra nello sconquasso del corpo e dell’io.
Quindi, senza motivo apparente, così come era montata, la furia si estingueva.
Tornava una pace affettuosa e traboccante di rimorsi. Da ambo le parti: «Uccellino mio, finalmente sei ritornato sul nostro ramo! Non vedrò più mia madre se lo vorrai!» E lui: «No, no, uccellina mia, io volo volo ma poi solo presso di te trovo pace e asilo.» E brividi d’amore illanguidivano il corpo di Carmen e si inerpicavano fino agli occhi che traboccavano lacrime dense di dedizione.
Quindi Carmen ricominciava a progettare il futuro. Sarebbe andata a parlare con don Flavio per quel lavoro di badante, sarebbe tornata da Hair e non solo, avrebbe messo da parte i soldi per la scuola di estetista, sarebbe andata a trovare la madre in ospedale con un cesto di primizie… avrebbe fatto…

Il caffè non esce. Carmen bagna la caldaia della macchinetta sotto un getto d’acqua fredda e la rimette sul fuoco. Fiamma e acqua strepitano per un po’. Poi tutto si sblocca: lo scirocco smette di soffiare, la sabbia si posa e l’aereo da Torino si appresta ad atterrare. Sembra entrare nelle case, romba e rigurgita come un mostro del cielo. Piano piano il rumore si attenua, stride sulla pista, si tace. Anche Carmen si acquieta e il borbottio del caffè che con forza prorompe fuori del camino la rassicura.
Se ne versa una tazza, ne versa un’altra per Mino e resta lì a guardarle fumare.
Resta lì a guardarle anche quando non fumano più.
Infine si alza, vuole andare in cortile, vuole vedere il mare una volta ancora.
Esce dalla cucina e si ferma sulla soglia. Ha paura. Aspetta. Aspetta che qualcosa succeda, che qualcuno la chiami al telefono, che qualcuno venga a bussare alla porta. Sa già che non avverrà ma comunque aspetta con un piede in cucina e un altro nel soggiorno, così, sospesa…
Poi, finalmente, si avvia.
Klascht! La pantofola destra incontra qualcosa di vischioso; klatsch, ripete la sinistra e Carmen si ferma. Si forza di non guardare in basso, lancia l’occhio lontano oltre l’amaca, sul mandorlo che ha osato fare qualche fiore, minuscolo, candido. Oltre il mandorlo Carmen cerca il mare, il conforto dei suoi colori, della sua spuma amica. Ma è costretta ad abbassare lo sguardo.
Mino giace sul pavimento. Un ammasso bruciacchiato di carne informe. Esala ancora fumo mentre il sangue intorno a lui è rattrappito e raggrumato come il rossetto sulle labbra di lei.
Adesso finalmente Carmen ricorda.

Stavano per andare a cena, il gattò di patate fumava sul tavolo e Mino aveva stappato una bottiglia di vino.
Poi l’aereo delle otto era decollato facendo vibrare ogni fibra della casa.
E lì Mino era esploso. Era irriconoscibile mentre urlava contro di lei, bave di schiuma gli si raggrumavano agli angoli della bocca. Occhi dilatati, braccia folli che si dimenavano nell’aria e la colpivano.
Erano nel soggiorno, la seconda stanza della casa bassa. Al centro un grosso tavolo, costruito da Mino stesso con traverse della ferrovia e placche di rame. Un tavolo bellissimo, pensava Carmen mentre l’accusa folle esplodeva: «Ti ho visto in macchina con lui! Dove andavi, puttana? Mi stai rendendo la vita impossibile!» Urlava e si avventava contro di lei.
«Era la vicina – provava a discolparsi Carmen – mi ha dato un passaggio la vicina, andava anche lei al cimitero!»
«Sei brava a inventare menzogne, puttana che non ti credo. Chi era? Con chi te ne andavi a ridere di me?»

Mi colpisce e io tento di sfuggirgli, mi servo del tavolo come baluardo. Gli giro intorno e lui intorno mi insegue. Continuo a girare mentre lui mi dice che non ho scampo, mi prenderà. Giostra folle intorno al tavolo. Come un topo braccato dal gatto, come una donna braccata dal suo uomo.

Poi Carmen trovò la pala, quella che usava Mino per cuocere le pizze, dapprima la brandì per difesa, sperando che di fronte a quell’arma lui si ravvedesse, tornasse in sé, si fermasse.
Invece la sua furia la travolse e lei prese a menare con la pala all’impazzata contro di lui: la testa, il volto, le braccia, il petto finché non fu a terra tra vomito e sangue.
Carmen si fermò a respirare. Ci provava ma l’ossigeno non arrivava ai polmoni.
Quando ritrovò il fiato il suo unico pensiero fu quello di cancellare quell’orrore che insozzava il suo soggiorno. Dapprima pensò di gettare Mino nella spazzatura e di lavare la stanza con candeggina; provò a muovere il cadavere ma la melma sanguinolenta in cui giaceva rendeva impossibile l’operazione. Riuscì a trascinarlo solo per qualche centimetro. Poi pensò di tagliarlo a pezzi ma il suo coltello da cucina riusciva ad infliggere solo ferite superficiali a quella massa orrenda. Infine si risolse a dar fuoco al cadavere. Lo cosparse di alcool e di diavolina e vi gettò sopra una palla di carta infuocata. Finalmente il cadavere di Mino arse di un fuoco purificatore.

Desolata pietà attraversa il suo cuore. Poi, sorreggendosi al tavolo di Mino, Carmen scavalca quello che resta di lui e per la prima volta, davvero, si affaccia sul mare.

 

Rosanna Malaspina

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