Le riforme costituzionali tra bar, avventori e bettole

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Le riforme costituzionali tra bar, avventori e bettole

La sinistra Pd, in tutte le sue, troppe, articolazioni, dopo che i suoi componenti non hanno partecipato al voto del gruppo parlamentare sulla riforma della legge elettorale, ha dichiarato che siamo alla vigilia della madre di tutte le battaglie. La linea del Piave è stata tracciata. Di fronte a tanta determinazione, Renzi sembrava essere disposto a negoziare, sui giornali era rimbalzata la notizia che il primo ministro, oltre che capo del partito fosse intenzionato a mettere sul piatto della mediazione la possibilità che il Senato potesse tornare ad essere elettivo. La notizia è durata poche ore, la mattina è uscita e sull’ora di pranzo era già stata smentita dallo stesso Renzi: «Non siamo mica a giocare a monopoli».
Siamo allo sberleffo, alla banalizzazione offensiva, che dà il segno di come siano trattate con superficialità cose che andrebbero maneggiate con estrema cura. Si tratta della riforma degli asseti istituzionali dello stato che devono garantire la democrazia di questo Paese. Invece si discutono con l’occhio rivolto ai sondaggi che misurano il consenso sulla base dell’umore.
Un parlamentare, fedelissimo del Presidente del Consiglio, in un momento di enfasi, durante un dibattito televisivo, per controbattere le obbiezioni del suo interlocutore, lo invitò a fare un giro nei bar per sentire cosa la gente pensasse. Lo disse con il tono di chi vuole mettere fine ad una discussione e affidò all’opinione espressa dagli avventori di un locale pubblico il giudizio definitivo, come nel Medio Evo, quando si considerava la prova di forza (ordalia) come il volere divino, la ragione o il torto. Questa è la cultura di chi vuole riformare la legge fondamentale dello Stato. Si va per bar e si ascoltano i giudizi degli avventori. Vi immaginate Croce, Togliatti, De Gasperi che vanno in giro per bettole e, tra una mescita e l’altra, si fanno un’opinione su come scrivere la Carta Fondamentale.
C’è una idea che si è fatta strada nei bar, nelle bettole, nella pancia del paese che ritiene che per far funzionare le cose, “è meglio se c’è uno a comandare”. Che lo si possa pensare nei bar è comprensibile, anche se non condivisibile. Ma assecondare la pancia non porta bene, si può intercettare del facile consenso, ma non si risolvono i problemi. Sul piatto non c’è una cosa banale, ma la legge elettorale, ossia come si trasformano in seggi i voti dei cittadini. Il governo minaccia la fiducia se l’opposizione interna al Pd non rientra dentro la logica della disciplina di partito. Per esigenze di semplificazione si può dire che la riforma prevede uno spostamento di poteri verso l’esecutivo, (ci vuole uno che comanda), a discapito degli organi di controllo che hanno il compito di impedire che il governare diventi comandare. Dal momento che l’equilibrio viene alterato, il rischio che ci sia uno che comanda è reale. Inoltre l’dea che ci voglia uno che comanda è piuttosto diffusa nelle proposte del Governo, di fatto è questo il segno distintivo dell’idea riformatrice. Anche nella scuola è lo stesso, ci vuole un preside che comanda, nella Rai ci vuole un amministratore delegato che comanda.
La sinistra Pd di fronte a questa arroganza dovrebbe smettere di essere l’alibi che Renzi usa per dichiararsi ancora un partito di centro sinistra. Se la loro opposizione interna non si esprime con un voto contrario devono sapere che non solo hanno contribuito a costruire una architettura istituzionale molto peggiore della precedente. Oggi non c’è in gioco il bene della ditta ma il futuro democratico del Paese. Se anche in questo caso i loro comportamenti non sono coerenti con le loro dichiarazioni diventa evidente quanto siano funzionali al disegno renziano. Perché con il loro atteggiamento contribuiscono a mantenere credibile quell’alibi che invece andrebbe smascherato, reso evidente anche a chi ancora si ostina a non voler vedere.

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