Neon (Rachele Salvini)

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Neon (Rachele Salvini)

Comunque quel segno di luce al neon, quello che, teoricamente, dovrebbe sfavillare in capo all’uomo della vita o in faccia al boss del lavoro dei tuoi sogni, non l’aveva ancora colpita. Ambra dubitava, anzi, che l’avrebbe effettivamente mai colpita. Ma questa, pensò camminando a passo sostenuto lungo il sentiero sterrato del Green Park, era la tipica ansia del ventenne che non ha ancora trovato il suo posto nel mondo.

Alcune sue amiche lo avevano visto, il segno. Una stava per sposarsi – le aveva mostrato un anello enorme pochi giorni prima – e Ambra si era chiesta se anche a lei sarebbe piaciuto, prima o poi, affrontare l’idea di essere legata ad una sola persona per il resto della vita. Probabilmente no.

E poi c’era quella che aveva dichiarato, nel bel mezzo di un aperitivo da cui Ambra si sarebbe aspettata al massimo qualche excursus sulla lunghezza dei peni dei rispettivi fidanzati, di voler fare la project manager di mostre d’arte contemporanea. Quella sequela di attributi così pericolosamente specifici l’aveva fatta sentire una cretina, quando aveva detto di voler fare solo la pittrice. La pittrice di cosa, esattamente? E dove? E perché? Intanto, una che voleva fare la pittrice doveva starsene zitta e farsi la sua ora e mezzo di metropolitana (più dieci minuti a piedi attraverso il Green Park) per arrivare a spremere tempere che costavano quanto un suo stipendio mensile su una tavolozza, aspettando che l’artista per cui faceva l’assistente si facesse viva – solitamente strafatta di anfetamine.

Attraversò il boschetto, cercando di ignorare gli assordanti clacson di Londra e gli asfodeli ormai bianchicci e smunti sotto il sole gelido. Era un sole color cenere, assolutamente incapace di dare un segno. A volte nei film succedeva: una stella, o, meno poeticamente, una freccia verde fosforescente, indicava che in quella persona, in quel momento, era racchiusa la svolta che avrebbe reso la sua vita – se non perfetta – quantomeno felice.

L’unica luce al neon che conoscesse, invece, era quella dei vagoni della metro che strisciavano tra i tunnel bui per sballottarla da un lavoro di merda a una casa di merda.

La borsa di tela scura le pendeva lungo il fianco e batteva contro il ginocchio sinistro ad ogni passo, come per ripeterle che stava camminando nella direzione sbagliata. Il prato era pigramente disseminato di sdraio a righe bianche e verdi. Un vecchio cartello indicava il prezzo: tre sterline per un’ora sulla sdraio.

Seduto su una, poco lontano da lei, se ne stava un uomo sulla quarantina. Un bambino era strascicato sul prato e si lanciava grosse manate di terra e fili d’erba addosso. Di fianco, una valigia scura semiaperta da cui usciva la manica di una camicia azzurra.

Ambra guardò l’uomo negli occhi. Il bambino strillava una fastidiosa cantilena, ma lui non lo ascoltava, i gomiti appoggiati stancamente sulle ginocchia e il busto proteso in avanti. Lei lo fissò e sentì il suo sguardo scenderle lungo il seno fino alle gambe, seguendo la traiettoria del laccio della borsa.

Qualcosa le disse che il grosso segno al neon non fosse mai apparso neanche a lui.

O forse gli era pure apparso, ma per indicargli la scelta sbagliata.

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