Home Servizi culturali Raccontami una storia 2018 Racconto di Roberto Giorgetti

Racconto di Roberto Giorgetti

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Racconto di Roberto Giorgetti

C’è voluta una rincorsa fin dal fondo del parcheggio per sfondare la vetrata principale e proseguire la corsa, fra la gente ipnotizzata dalle vetrine festose e scintillanti, fino all’area centrale circondata da un maestoso complesso di ascensori di cristallo e scale mobili.
C’è voluta la rincorsa nella corsia principale e tanto coraggio per vedere i cristalli infrangersi e volare come coriandoli luccicanti; vedere corpi di gente ignara volare e ricadere rompendosi come bambole, lordando di sangue gli addobbi di Natale.
C’è voluto davvero tanto coraggio per uccidere. Di più per morire, se quello fosse stato il destino.
Ci sarebbe voluto coraggio anche per vivere in miseria una vita da migrante ma, quell’uomo e i suoi soldi, avrebbero risolto il problema. Un piano semplice, quasi da non richiede intelligenza. E forse non si è trattato nemmeno di coraggio ma soltanto di denaro.

Dipingere tempeste emotive, pur nella piena consapevolezza di non essere Van Gogh, è la sua massima aspirazione. Da qualche giorno però, Lui è impegnato al ritratto in primo piano di un volto sereno, contrasto acuto con il groviglio di sensazioni impigliato nel sifone dei suoi sentimenti. Sullo sfondo la grande ruota panoramica di un immenso luna park d’inizio Novecento.
La donna, entrata nella bottega a metà pomeriggio, lo distoglie solo il tempo necessario per dirle “Buonasera”, ma gli basta a cogliere tutte le sfumature che un artista, perennemente in cerca di ispirazioni e soggetti, non può permettersi di lasciarsi sfuggire: eccessivamente biondi i capelli; eccessivamente rosso il vestito ed eccessivamente rotonde le sgraziate grazie femminili, troppo ricalcate dalla stoffa elastica dell’abito. La donna risponde al saluto sfoggiando un sorriso a grandangolo, con denti da fumatrice incallita e troppi passaggi di rossetto in tinta col vestito. Da dietro occhiali d’arredo scruta attentamente il pittore prima di concentrarsi, uno ad uno, sui quadri esposti. Poi, conclusa la fase delle eliminatorie, inizia a fare domande sui significati, sulle ispirazioni, sulle scelte dei colori e dei toni e anche sulle cornici. La cliente gli si rivolge come se Lui le fosse molto più giovane; in realtà se anche lo è, lo è solo di pochissimo. La cosa non lo disturba più di tanto o, meglio, se ne frega. Lui ha solo bisogno di venderle un quadro e voglia di rimettersi a dipingere. Alla fine la donna sceglie un “grido disperato”, trattenuto a malapena da una cornice leggerissima di legno scuro. È l’ultimo quadro che Lui, potesse permetterselo, vorrebbe vendere. Ma non può! Le dice il prezzo e la donna non batte ciglio.

L’oceanico centro commerciale, fra i più grandi e rinomati del Centro Italia, fu inaugurato con grandi cerimoniali esattamente venti anni fa, facendo coincidere l’apertura al pubblico con il periodo dello shopping natalizio. L’idea e la realizzazione furono opera dell’Altro, all’epoca un rampante giovanotto modaiolo, amante della bella vita e pieno di sé, oltre che dei soldi di famiglia e di tutto quello che serve per incantare le donne di ogni età: faccia tosta compresa. Oggi, oltre ad essere il marito di Lei, è un signore di mezz’età fra i più in vista e apparentemente ricchi di tutta la provincia.
L’iniziativa ebbe un successo clamoroso fin da prima che il grande suq in stile occidentale aprisse i battenti. Singoli commercianti, franchising delle firme più rinomate, catene della grande distribuzione e della ristorazione si contesero i tanti spazi commerciali disponibili e, pur di starci dentro, sottoscrissero contratti di locazione con cifre da capogiro. D’altronde, la filiera economica locale, stava veleggiando col vento in poppa e poteva permettersi di strafare senza troppi scrupoli, favorita com’era dal’’orda di manodopera a basso costo giunta dall’Est asiatico alla quale il settore manifatturiero, e non solo quello, imparò velocemente a farvi ricorso e a sfruttare.
Presto però, gli est-asiatici, estasiati dai benesseri occidentali, impararono e fecero loro l’arte del saper fare e anche quella del commerciare in proprio le cose prodotte. A farne le spese è toccato al mercato tradizionale e l’Altro, per evitare che le vetrine vacue rivelassero le difficoltà del carrozzone, si è dovuto adeguare riducendo progressivamente i canoni d’affitto fin sotto la copertura dei costi.
Già dai primi giorni di dicembre la Direzione del centro commerciale, per favorire i grossi flussi di clienti previsti, ha fatto rimuovere le grosse fioriere di calcestruzzo poste davanti all’ingresso principale della galleria. A richiamarli, insieme alle faraoniche campagne pubblicitarie e ai bagliori degli addobbi, hanno contribuito le strepitose campagne promozionali e le offerte speciali che, i singoli esercenti, hanno promosso dopo una lunga trattativa con l’Altro e in cambio di un’ulteriore e sostanziale riduzione sulle locazioni.

Le valigie non bastano e Lei ha preso dalla cantina un altro paio di scatoloni. È faticoso e le lacrime non le facilitano certamente il compito. Non è lucida; non abbastanza lucida da decidere bene che cosa fare ma risoluta a farla, qualunque cosa stia facendo.
Tutto ha iniziato a prendere forma nella sua mente la sera precedente quando, al telegiornale, come in un gioco della Playstation, riproponevano all’infinito le immagini terribili dell’attacco e degli attentatori.
La telefonata misteriosa di suo marito durante la sera del giorno prima che tutta la città si catapultasse nel clima buio di questi giorni, è stato un campanello d’allarme non recepito. La voglia di concedersi una notte di sesso e d’amore con l’amante del momento non le hanno fatto leggere il segnale d’allerta che avrebbe dovuto almeno incuriosirla. Sul momento ha colto solo l’aspetto positivo che, gli assillanti impegni del marito, le avrebbero permesso di passare la notte fuori casa.
«Come ho fatto a non capirlo prima?» si chiede adesso, mentre avverte fortissimo e delirante l’imminente bisogno di un riparo psicologico; ma anche di uno materiale in cui passare la notte.
«Perché dovrebbe rispondermi?» si chiede ancora, mentre lo schermo del telefono le si sfuoca dietro un velo di pianto e la voce di quel giovane pittore, passato dal suo letto con tante speranze e anello di una catena infinita di corpi caldi, le suona ancora come una melodia triste.
«Perché dovrebbe rispondermi, l’unico cuore che mi ha davvero amata e che ho cacciato in cambio di denaro?»

Lui avvolge il quadro nel cartone a nido d’ape e, mentalmente, fa il conto di quanti affitti arretrati coprirà con quei maledetti millecinquecento euro. La troppo bionda, occhi negli occhi, gli porge un rotolo di banconote e accompagna il gesto dicendo «Io ti do questi…»; lascia la frase in sospeso e se ne va, portandosi appresso il sorrisone da presentatrice Mediaset e il quadro stretto sotto al braccio.
Lui conta tre volte i dodici pezzi da cinquanta euro, prima di infilarli nella tasca dei pantaloni chiazzati di colori accesi. Spente tutte le luci, comprese quelle della vetrina così che i quadri esposti non si vedano da fuori, chiude lo studio-bottega con un paio d’ore di anticipo rispetto ai negozi. Abbassa il bandone a maglie larghe fino alla soglia… Poi lo rialza fino all’altezza del petto e lo abbassa di nuovo, sbattendolo con tutta la forza che ha nelle braccia. Il frastuono satura per qualche secondo il vicolo ma non lenisce lo sconforto da immeritata sconfitta e l’umiliazione da mendicante.
«L’artista», si dice a voce alta, «non serve a nessuno; l’artista è utile al resto del mondo come un lavavetri da semaforo lo è alla mobilità globale».
Nonostante desideri arrivare a casa prima che può, Lui sceglie un tragitto a raggio ampio che lo porta fuori dalle rotte dello struscio.
Il fattaccio del giorno precedente non ha distolto le persone dagli acquisti natalizi; le ha solo concentrate nelle vie più lussureggianti della città. La pesantezza dell’atmosfera è tangibile, non c’è dubbio, ma sulla faccia della gente si legge più sbigottimento che dolore e, soprattutto, la fretta di trovare l’ultimo regalo!
«Rivedere al ribasso gli addobbi», ha dichiarato il sindaco ai giornalisti, «abbatterebbe ancora di più il morale della cittadinanza, proprio quando abbiamo tutti bisogno di una grande forza d’animo».

Lui spinge la porta con la spalla ed entra nel piccolo ingresso-soggiorno giusto in tempo per vedere spegnersi il display dello smartphone, abbandonato da chissà quanto su uno dei cuscini sparsi sul pavimento di mattoni irregolari e disconnessi. Che l’anta di legno del portoncino si incastri a forza nella pietra ruvida degli stipiti è una grande comodità. La carta con cui ha riempito la bocchetta impedisce alla serratura di scattare e gli concede il lusso di non doversi portare appresso la chiave, evitandogli il rischio di perderla e rimanere chiuso fuori in una città che, dopo tanti anni che la abita, continua a sentire straniera.
«Tanto da rubare non c’è nulla, ha sempre pensato. E ha ragione: tutti i suoi averi li ha appesi dalla parte opposta della città, nella bottega affacciata su una delle viuzze del Centro Storico più pittoresche e meno frequentate, non fosse per gli artisti stravaganti, abituali frequentatori dei baretti e delle buie osterie, e per gli stranieri che adorano riempire gli scalcinati alloggi trasformati in redditizi affittacamere. Lì si sente uno di loro e riesce a provare un senso di appartenenza che non gli è consueto.
Passa oltre incurante di tutto: ha il bisogno frenetico di una doccia calda che mitighi il freddo interiore. Se lo guardasse, quel cazzo di telefono, ora saprebbe che Lei lo sta cercando. Riconoscerebbe subito quel numero non memorizzato: a nulla sono valsi tutti i tentativi di dimenticarselo.
Per Lei, diciotto anni prima, si era trasferito nella città in cui, a pensarci bene, se una sera il portoncino di legno e smalto screpolato non si aprisse, avrebbe tanti conoscenti e nemmeno un amico tale da potergli chiedere ospitalità senza imbarazzo. Una città che Lui odia dal profondo dell’anima ma che non ha mai trovato il coraggio di lasciare, pur di non strappare il filo effimero e inesistente che lo lega a Lei: vivere gli stessi luoghi; calpestare le stesse strade; respirare lo stesso smog; pisciare nelle stesse fogne e coltivare testardamente la speranza di entrare in un negozio mentre Lei esce o salire su un autobus mentre Lei sta scendendo.

L’istantaneo stupore; lo strazio immediatamente successivo; il dilagare del panico che si è propagato a velocità fotonica fino a lambire ogni angolo periferico della struttura; la disperazione accasciante di migliaia di avventori e commessi, hanno coperto la fuga dei due attentatori, scappati a piedi dalla galleria un attimo prima della deflagrazione.
Per gli inquirenti ricostruire ogni fase dell’attentato è stato fin troppo facile, dal momento che l’intera azione terroristica si è svolta nell’inquadratura delle telecamere ad alta definizione del sistema di videosorveglianza a circuito chiuso.
Neanche risalire all’origine araba dei due attentatori è stato difficile. Uno di loro, nella foga, ha dimenticato il marsupio con i documenti nell’auto usata per scappare, rubata poche ore prima come il veicolo dell’assalto e ritrovata a qualche chilometro di distanza. Il confronto fra le generalità del documento e le immagini ha fugato ogni dubbio sull’identità del magrebino. Quasi certamente il complice è il connazionale con cui condivideva l’appartamento, poiché entrambi sono irreperibili e non si sono più presentati alla pizzeria dove lavoravano in nero. Adesso li cerca la polizia di mezza Europa.
Il resto lo hanno appurato le indagini scientifiche e gli artificieri. L’ariete a quattro ruote era imbottito di tutagex, un esplosivo solitamente usato nelle cave di pietra. A farlo brillare ci ha pensato un innesco radiocomandato, azionato dagli stessi terroristi appena fuori dalla galleria. Secondo gli investigatori l’attentato, di sicura matrice araba legata al fondamentalismo religioso, è stato studiato per fare grossi danni materiali ed ottenere un grosso risalto mediatico limitando, si fa per dire, i danni alle persone. Infatti, da un lato, la carica detonante non era “additivata” con corpi contundenti che l’esplosione avrebbe proiettato tutt’intorno, aumentando in maniera inimmaginabile il numero delle vittime. Dall’altro, a detta del comandante dei Vigili del Fuoco, il punto in cui gli attentatori hanno fermato l’auto-bomba, tutt’altro che casuale, ha consentito alla forza distruttiva di incanalarsi nei vani scala provocando gravi danni anche ai locali collocati al piano superiore.
Sui lastroni di marmo bianco che fanno da pavimento all’immenso corridoio commerciale sono rimasti i corpi dilaniati di diciassette persone. Oltre quattro ore ci sono volute ai paramedici, giunti da tutta la provincia, per soccorrere e trasferire in vari ospedali le centinaia di feriti colpiti, per lo più, dalle schegge di lamiera del veicolo completamente sventrato, dallo scoppio dei cristalli delle vetrine e dal crollo dei soffitti. Alcuni di loro stanno ancora lottando fra la vita e la morte; i più gravi hanno subito amputazioni o rischiano di perdere la vista. Altri ancora, i più vicini al luogo della deflagrazione, perderanno l’udito a causa dei danni ai timpani. Numerosi anche gli ustionati e chi, non riuscendo a trovare rapidamente una via di fuga, è rimasto intossicato dal fumo.
Fortunatamente, l’incendio che si è sprigionato immediatamente dopo, non ha avuto il tempo di fare grossi danni grazie all’attivazione automatica di un sofisticato sistema antincendio e al pronto intervento di numerose squadre di Vigili del Fuoco.
L’intera zona, presidiata dalle Forze dell’Ordine, è inavvicinabile. Le gigantesche torri faro del parcheggio sono però rimaste accese, così come le insegne e lo sfarzo di luminarie che adornano l’immenso edificio, compresa una mongolfiera luminosa ormeggiata sul tetto e visibile fino a chilometri di distanza.

È sera. Lui ha bisogno di tornare fuori; di andarsene fisicamente dal divano sformato, comprato con i vantaggi di una promozione permanente… E andarsene, andarsene psico-chimicamente dai pensieri arrotolati su se stessi, buoni solo a stringerlo a morsa come le spire di un boa costrittore.
Le persiane chiuse e le tende tirate non ce la fanno a tener fuori gli aloni di luci fisse, intermittenti e colorate di una città che, nonostante tutto, si ostina a sentirsi in festa. Fiochi ma molesti, gli aloni penetrano come spade di cefalea nelle quattro mura del suo riparo, disturbando e prolungando la stesura di un bilancio lungo tutti i suoi anni. Anche il display del telefono lampeggia nuovamente.
Due mondi, quello collettivo e quello suo privato, iniziarono a finire lo stesso giorno di alcuni anni addietro: la mattina, colpita da una folata di follia, una coppia di torri identiche e alte fino al cielo o su di lì, crollò su stessa come un supereroe con le ali fatte di paglia e di merda; la stessa sera, spintonato da un colpo di telefono, tutto il resto del mondo crollò addosso a Lui. Chiusa la comunicazione si sentì “messo fuori” con tante scuse e nemmeno una spiegazione; “fuori” come un piccolo abete, rinsecchito e asfissiato dal caldo artificiale dei termosifoni, poggiato a fianco dello stipite esterno il giorno dopo l’Epifania e vestito solo dei rimasugli di qualche addobbo a ricordo, come sale sulle ferite, di gioiosità infinite e finite. A seguire anni e anni di anticonformismo non sono valsi a nulla, buttati al vento e volati via nel tentativo, vano e inutile, di discostarsi dal passato. Da allora lo insegue la “domanda delle domande”: «Cos’ho sbagliato?»
Sedici anni e passa gli ci sono voluti per concludere, tirando le somme di quell’assurdo bilancio, che la risposta alla “domanda delle domande” era spudoratamente banale e racchiusa tutta in cinque semplici lettere: T-U-T-T-O!
L’idea che, i margini estremi del tempo impiegato per trarre la “conclusione delle conclusioni”, coincidano entrambi con un attentato riesce a farlo sorridere. Che è Lei a far lampeggiare il telefono rimasto sul cuscino invece continuerà a non saperlo.
Sceglie dei vestiti che lo facciano sentire a suo agio e, al tempo stesso, contribuiscano a fargli ritrovare un accenno di amor proprio. In strada l’insolenza dei fregi dello pseudo-benessere, stimolatori di una felicità forzata, è ancora più violenta. La mezza bottiglia di Pampero Aniversario bevuta prima di uscire gli è salita su fino alle tempie, dove ora gioca al piccolo percussionista pazzo amplificata dai flashback di un’estate di amore e di illusioni.

La sera prima dell’attentato, al tavolo di una isolata trattoria di campagna, Lei vorrebbe con tutta se stessa accettare la proposta di passare la notte con chi le siede di fronte. Ma non può. Adora quel modo non-insistente che l’uomo ha di insistere; piega la testa per guardarlo meglio e si convince che sì, anche se non fosse diventato lo scrittore conosciuto che è, avrebbe avuto tutto lo stesso fascino che ha.
È tardi e il cameriere fa capire che vorrebbe chiudere. Loro no, loro desiderano rimanere; desiderano prolungare all’infinito l’atmosfera di intimità.
Poi succede che l’Altro la chiama. Lo fa per dirle che la situazione scotta e passerà la notte in ufficio a organizzare il finimondo previsto per l’indomani. Lei aveva percepito che nei conti della cittadella commerciale qualcosa cominciava a non quadrare e, mentre strizza maliziosa l’occhio all’amante, la confortano le previsioni da grossi numeri lasciate intendere dal marito. Marcando il tono da già che ci sono, le raccomanda di stare alla larga dal Centro Commerciale il giorno successivo: Ci sarà un casino che non ti immagini le ribadisce. Lei avverte la stonatura del tono di non-gioiosità, ma non le dà peso: lo imputa alla stanchezza. Prima di salutarla, l’Altro le rinnova la raccomandazione scongiurandola di dirlo anche ai figli. Ma Lei coglie solo la logorroica insistenza e l’esagerata sopravvalutazione di una ressa da acquisti prenatalizi.

 

Roberto Giorgetti

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