Home Servizi culturali Raccontami una storia 2018 Verrà la morte, diario di un malato terminale (Jessica Giusti)

Verrà la morte, diario di un malato terminale (Jessica Giusti)

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Verrà la morte, diario di un malato terminale (Jessica Giusti)

Questo soffitto è così bianco…ma le tende colorate fanno sì che l’atmosfera non sia così male. Le tapparelle della finestra si possono aprire. Io le faccio aprire appena sorge il sole, almeno uno spiraglio di luce, uno sgorgo di sole possono entrare qua dentro. Ogni tanto mi giro e guardo fuori. Il paesaggio non è dei migliori: un praticello verde, verde chiaro, una siepe di spine e su, su in alto, un bosco di alberi sempreverde costeggiano il colletto. È bello la mattina, quando quel piccolo prato verde si cosparge di brinata è così sembra il ghiaccio un po sfatto di una pista di pattinaggio. Aaah le piste di pattinaggio…piacciono tanto a mia nipote. Io non ho mai creduto che riuscisse a farlo visto la sua corporatura, ma di inverno cercava sempre il posto più vicino dove andare. Questo inverno invece no. Questo inverno lo sta passando qui, accanto a me. Come le mie due sorelle. Stanno tutte qua, a turno, accanto a me. Non sono mai stato di tante parole .. e quindi mentre loro mi parlano io continuo a guardare quel piccolo prato, sognando di poter uscire a fare una camminata.
«Giorgio come va stamani?» una voce noiosa mi sussurra sempre la stessa, identica, frase. E a me tocca sempre rispondere la stessa, identica, noiosa risposta: «Bene». Io sto sempre bene. Non mi vedete? Sto benone! Ho 62 anni, un cervello che ancora funziona,posso muovermi, la mia famiglia è qua con me, santo cielo, sto benone! Vorrei solo tornare a casa. Casa mia si trova in un piccolo paesello vicino Castelnuovo. Ha un nome un po’ bizzarro: Antisciana. Bizzarro quanto le persone che lo abitano. Persone che io, non ho mai sopportato. Ma non prendiamoci in giro,io non sopporto quasi nessuno. Molte volte non riesco a sopportare nemmeno me! E anche gli altri non è che mi sopportino molto. Con il carattere che ho anche i miei amici hanno iniziato a starmi alla larga. Ma che voglio pretendere, me la sono cercata. Forse con questo carattere ci sono nato. O forse mi si è formato nel corso della vita. Non lo so, ma una cosa è certa: potevo vivere meglio e far vivere meglio gli altri. La vita non è stata benevola con me. Io, mio fratello e le mie sorelle abbiamo passato l’adolescenza prendendoci cura di nostro padre. La sua morte ha sconvolto tutti, soprattutto mia madre che poi è caduta in depressione e non si è più ripresa. Per non parlare di mio fratello, che aveva appena scoperto di avere un “brutto male”, come dicono qua. Beh, quel brutto male, che aveva avuto anche mio padre, ha finito per sconvolgere l’intera famiglia. Abbiamo combattuto, ma soprattutto HA combattuto contro esso per ben 14 anni. Al suo ritorno mio fratello Giampiero ha preferito non dire niente. Ricordo che la mattina lo vedevo vestirsi lasciandosi sotto il pigiama, per non farsi vedere dimagrito. E invece dimagriva, eccome se dimagriva! Dopo 14 anni non voleva più combattere. Io lo vedevo cambiato, lo vedevo diverso. Lui voleva vivere e invece quella malattia che lo aveva lasciato 14 anni senza poter parlare o mangiare normalmente, se lo stava portando via. E lui si stava arrendendo. Io non ho mai sopportato vedere prima papà e poi lui esser mangiati, sbranati da una cazzo di malattia che, pur avendola curata, rispuntatava fuori come funghi ad ottobre. Solo che i funghi sono buoni. Come possono le persone affrontare una vita del genere? Come si può esser scarniti da una malattia? Non l’ho mai capito. E con il passare degli anni mi ritrovavo ad essere sempre più chiuso e incazzato col mondo. Finché un bel giorno, dopo due operazioni alle gambe tra cui una andata male, mi ritrovo licenziato dal lavoro. Con la liquidazione che avevo potevo aiutare l’intera famiglia. E invece optai per usarli su l’unica cosa che poteva farmi stare meglio: l’alcool.
Alcool, che brutta parola. Sa di qualcosa di nocivo, qualcosa quasi di..assurdo. Un assurdo che piano piano diventa dipendenza. Grazie all’alcool non pensavo. I brutti ricordi svanivano in una o più bottiglie di vino. Svanivano in quella cerchia di amici del bar che mi ero creato. In quella cerchia di amici che portavo fuori a cena una volta a settimana e, sia chiaro, offrivo a tutti io. Finalmente ero qualcuno. Finalmente ero apprezzato da qualcuno. Tranne che dalla mia famiglia. Mia nipote era piccola. Tentavo di tornare a casa senza farmi vedere ubriaco, ma fallivo. Molte volte alzavo le mani anche su mia madre,ormai devastata dal dolore di aver perso marito e figlio. Ma non smettevo. Non ci riuscivo o meglio, non volevo riuscirci. Era così bello avere il cervello completamente da un’altra parte. Era così bello vivere senza preoccupazioni. Vivere per bere, perché questa era diventata la mia vita. Una lunga corsa verso il bar che aveva la bottiglia di vino più buona e pregiata, così da sballarsi e soprattutto così da essere ancora più adulato dagli amici. Tutto questo per me era stupendo. Niente pensieri, niente preoccupazioni. A casa mi buttavo nel divano e dormivo sempre. Non alzavo un dito e mia sorella più piccola si incazzava e mi dava torto. Io, io..che facevo? Una bella bestemmia, un’alzata di voce, un “vaffanculo” piazzato bene ed era tutto apposto. Ero diventato intoccabile. Il “capo” di casa che aveva sempre ragione. Il “capo” di casa che qualunque cosa comandava era legge. Quel “capo” di casa che se fosse stato visto da un’altra ottica, si sarebbe percepito il suo animo distrutto. Un’animo avvilito, che nessuno poteva guarire, tranne una buona bottiglia di Chianti. Sì, una buona bottiglia che mi sono potuto permettere fino a che non sono finiti i soldi. Niente più soldi, niente piu alcool, niente piu cene, niente piu amici. Una volta finita la liquidazione, di quelle persone che consideravo amici nemmeno più l’ombra. Non più un messaggio, una chiamata, un aiuto. Niente. Spariti. Ingoiati dall’ombra penosa del lusso. Diventai così ancora più arrogante. Ancora più cattivo. Sempre più intoccabile. Mi avviai verso un tragitto che piano piano mi avrebbe condotto nelle tenebre. Trovai uno spiraglio di luce grazie ad un parente che trovo il modo di farmi assumere alla Misericordia di paese come stagista. Cinquecento euro di stipendio. Duecento li davo in casa per pagare le bollette. Gli altri mi ci affogavo in caffè corretti e sigarette. Quelle dannate sigarette! Un pacchetto al giorno non mi bastava. Almeno a uno e mezzo arrivavo. A che servisse non l’ho mai capito, ma la mia è stata la vita delle dipendenze, e allora decisi di dipendere da una cosa di carta lunga 20cm,piena di roba nociva,con un odore sgradevole. Fumavamo tutti in famiglia, ma io ero l’asso anche in questo. Pochi anni dopo affrontai la morte di mia mamma. Dopo un mese mia nipote trovo il cadavere di suo padre,ormai separato da anni con mia sorella, in casa. E quello fu il capolinea. Per tutti. Io smisi di parlare. Mi rivolgevo a tutti in modo sgarbato. Ero diventato un vero cafone, un villano.
Nel frattempo mia nipote era cresciuta. L’unica cosa positiva della mia vita era lei. Ho sempre straveduto per lei. E la vedevo crescere con un temperamento fantastico. Un carattere unico. E non era sicuramente al pari delle mie sorelle. Loro appena rispondevo come uno screanzato tacevano dandomi ragione. Ma lei no. Non mia nipote. Sarà per le troppe botte ricevute dalla vita, sarà perché era nell’adolescenza, ma il suo carattere era l’unico che riusciva a mettere a tacere il mio. E io, davanti a lei, non potevo che chinare la testa. È grazie a lei se ora mi ritrovo su questo letto, fissando continuamente quel prato ancora mezzo ghacciato,pensando alla mia misera vita. Fino a che, dopo essersi fidanzata, andò a vivere dal suo lui lavorando in un bar. Erano mesi che non la vedevo. Ed erano gli stessi mesi che stavo male. Il respiro si faceva sempre più corto. La tosse aumentava. Non riuscivo più a lavorare. Non riuscivo più a guidare la macchina. La mano destra tremava. La testa era dolorante e spesso avevo dei capogiri che mi facevano cadere a terra. Alzarsi dal divano era uno strazio. Il solo alzarsi dalla sedia era diventato impossibile. Non avevo forze. Ero sempre più indebolito. Le gambe erano dimagrite a dismisura. Sul volto una piccola fossetta sulle guance faceva capolino accanto al naso. Gli occhi mi bruciavano. Ero diventato mio fratello. L’unica cosa che davvero mi faceva paura era la sofferenza. Dopo aver visto mio fratello in quelle condizioni, tutta quella sofferenza, tutta quella lotta per sopravvivere..per poi cosa? Per morire? No. Avevo deciso che io non avrei mai sopportato di vivere così. Non avrei mai accettato una sopravvivenza attaccata a dei macchinari . Visto che la malattia ti sbrana in poco tempo, perché accanirsi? Perché voler guarire per forza soffrendo ancora di più? Io sapevo di essere già in stato avanzato. Decisi quindi di stare zitto. Di continuare così. Nonostante i tanti «Giorgio ma fatti vedere, lo vedi come sei dimagrito?». Ero convinto che niente potessi farmi cambiare idea. Tanto, diciamoci la verità, che avevo da perdere? Poi un giorno come tanti altri sentii aprire la porta. Apparve lei,mia nipote. Aveva portato su per qualche settimana il suo fidanzato. Un tipo in gamba, simpatico, oserei dire fatto apposta per lei. Appena mi vide mi dette un bacio sulla fronte, mi guardò un po’ e mi disse «io quelle fossette le conosco». Si riferiva a quelle sul volto. Le aveva uguali mio fratello e lei non se le era mai dimenticate. La stessa sera sputai in fazzoletto blu di pezza del catarro. Non era semplice catarro. Era rosso. Rosso sangue. Tentai di nasconderlo, ma non funzionò. Mia nipote lo vide. Non disse niente. Il giorno dopo tornò a casa con un’impegnativa del medico per andare a fare una lastra ai polmoni. Ricordo che si sedette accanto a me sul divano e mi disse «Non ho voglia che tu finisca come lo zio, se possiamo ancora far qualcosa facciamolo, te lo chiedo per favore ». Mi fissava negli occhi. Non mi mollava un attimo. Lei aveva già capito che avevo qualcosa. La mattina seguente partii senza dir nulla a nessuno. Con il cuore in gola e l’impegnativa alla mano andai a fare la lastra. Feci presto, tornai a casa e la detti a lei per leggerla. Non disse niente. Guardo sua zia, prese il telefono e chiamo il medico di famiglia per un appuntamento l’indomani. Mi portò lei alla visita. Il medico decise per un ricovero immediato «per fare accertamenti», disse. Avevo una paura inimmaginabile. Paura di ciò che poteva venir fuori. Paura che fosse troppo tardi. In fondo io volevo vivere ancora. Ma da lì capii tante cose. Dopo il ricovero fecero altri test. Ancora non mi hanno detto di preciso cosa ho. So per certo di avere una metastasi all’encefalo. Forse più di una, perché le mie mani continuano a tremare sempre più. Il sangue nello sputo mi fa capire che ormai non ho molto davanti a me. La mia vita è appesa ad una flebo di morfina e ad una di antibiotico per cercare di abbassare la febbre. Ho paura di morire. Dio quanto mi spaventa la morte! Mi spaventa ancor di più non aver dato niente alla mia famiglia. A mia nipote, alle mie due sorelle. Non ci parlavo più, mai un «ti voglio bene», di rado un sorriso, mai una parola di conforto. E invece loro stanno notte e giorno qua con me. Mia nipote quando va via qualche ora chiede sempre un bacino sulla guancia, e per fortuna ho ancora un po’ di forze per donarle questo. Che razza di vita sprecata. Che cazzo di dolore vederla sfumare così. Potevo dirlo prima? Potevo palesare il fatto di stare male? Avrei potuto combattere,mia nipote dice che coraggio ne ho da vendere. Fosse vero. Fosse così. Quanti rimorsi. Quanti rimpianti lasciati al vento di quel paesino della Garfagnana che tanto ho odiato ma che, ora come ora, rivedrei volentieri. La mia casa. La mia gatta. Oh quanto mi mancano! Mente penso tra me e me di questa miserrima vita un dolore mi strazia il petto. Un martello. Un fottuto martello mi picchia nei polmoni provocando tosse e sangue. Ma io non dico niente. Non posso far preoccupare maggiormente chi mi sta vicino. Mi tengo il dolore. Ho le flebo. Passerà. Alcuni giorni sto bene, altri sarebbe meglio non esistessero. La malattia è questa. La malattia è bastarda. Mi guardo i piedi. Vedo solo quelli, di gambe ne ho più poche. Solo uno scheletro rimane ormai di me. Ma cosa devo farci, me la sono cercata.
Oh, finalmente accendono la tv. Ormai passo il tempo guardando immagini. Il volume è quello che è e con i mesi un po’ sordo lo sono diventato. Poi con l’occhio destro non è che ci veda più tanto bene. Però mi tiene compagnia, anche se ne ho fin troppa dalla mattina alla sera. Ora quel piccolo prato è verde. Il ghiaccio se ne è andato. Significa che sono le nove,più o meno. Arriva colazione, ma con la febbre e la tosse da qualche giorno non ho più molta fame. Riesco ancora a ragionare e a capire che qualcosa devo buttare giù. Che vergogna doversi far imboccare! Ma le mie braccia non hanno più forza. Niente del mio corpo ha piu forza. Non mi resta che continuare a guardare quel prato, ora verde speranza, sperando di non soffrire ancora per molto.
Ora chiudo un po’ gli occhi. Smetto di pensare. Ho la testa che mi scoppia. Mi sembra di morire.
Oh la morte. Fa paura. Ma morire in fondo non è niente,
è non vivere che è spaventoso!

 

Jessica Giusti

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