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Volare ad alta quota (Salvatore Grieco)

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Volare ad alta quota (Salvatore Grieco)

Le lunghe giornate estive per gli abitanti di Grifoni, comune della provincia di Caserta,
scorrevano arroventate e pigre tanto da gravare ancora di più le già incurvate spalle della gran
massa di contadini impegnati nella faticosa raccolta del tabacco. La famiglia Torvale era una
di loro e sebbene tutti i componenti fossero impegnati nella coltivazione della terra, a Emma,
la loro ragazza che proprio quell’anno si era diplomata al Liceo Scientifico “N. Cortese” di
Maddaloni, avevano consentito di dedicarsi allo studio nonché a mantenere pulita e in ordine
la casa.
Marito e moglie nella loro dura esistenza non avevano avuto mai neppure un brevissimo
periodo di vacanza e il loro unico pretesto per fermarsi qualche giorno capitava solo in occasione
della festa patronale. Festa grande per tutti e in modo particolare per loro che, staccandosi
totalmente dal lavoro, s’immergevano anima e corpo nei tradizionali allestimenti della
solennità.
Il sole picchiava forte e anche quell’anno, senza grandi stravolgimenti, i grifonesi erano
giunti a festeggiare nei modi dovuti la vigilia di ferragosto.
Per rendere degno omaggio alla prodigiosa statua della Madonna anche i signori Torvale,
come da decenni si tramandavano, stavano portando avanti alla grande i loro preparativi.
La generosa famiglia, più spinta dall’usanza che dal reale sentimento religioso, da generazioni
era assidua protagonista nel mantenere viva la mariana devozione. La parentela era unita
e molto larga e perciò allo stesso modo della precedente manifestazione religiosa, puntualmente,
anche quell’anno s’era ritrovata a vivere il pomeriggio col cuore in agitazione per le
tante cose che avevano in programma e che ancora erano in corso d’ultimazione. L’indomani
si celebrava la solennità dell’Assunta, patrona di Grifoni e per il capofamiglia era una questione
d’onore presentare i doni promessi al passaggio del carro votivo e allora bisognava
mettercela tutta per portare a compimento ogni lavoro, anche quello meno importante.
Era un giorno solenne grandioso molto sentito non soltanto da tutta la gente della prosperosa
cittadina campana, ma anche dalla popolazione della Valle di Suessola e in gran parte di
quella della vicina Valle caudina. A mezzogiorno in punto dell’attesa festività i numerosi devoti,
pervenuti da ogni rione e anche da zone più distanti, erano soliti accogliere l’arrivo dei
carri votivi, riunendosi in gran pompa sul sagrato della Basilica.
Alla masseria Torvale genitori e nonni erano occupatissimi ad armeggiare con i fornelli,
quando al calar del sole, per la fantastica e gioiosa Emma l’allegria della gioventù giunse, in
maniera assurda e spietata, alla sua ultima fermata.
La giovane, interessata solo alle imperanti futilità della sua generazione, era avulsa alla
tradizione e in nessuna maniera aveva voluto prendere parte alla faticosa preparazione di taralli
e svariati altri dolci tipici. La disgrazia le capitò, mentre era nell’accogliente sala da
pranzo e stava gioiosamente lasciando scorrere il tempo trastullandosi in compagnia
dell’inseparabile amica Serena. La diciannovenne era seduta sulla sedia e stava scimmiottando
in maniera scomposta una compagna di classe allorché la repentina e violenta roteazione
delle braccia le produsse una banale caduta all’indietro.
Non trovò appiglio.
La malasorte volle che finendo distesa sulla schiena, battesse con la nuca sullo spigolo del
poggiapiedi di marmo antistante il focolare.
Rimase immobile. Serrò gli occhi senza emettere neppure un gemito.
Pareva morta.
Serena, colta dallo sgomento, emise un raggelante urlo.
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La rattristante situazione s’impossessò fulminea di quel tempo gioioso, facendo precipitare
i signori Torvale nella completa disperazione. La casa immediatamente si riempì di gente curiosa
accorsa da tutto il vicinato.
La dolorosa scia del sinistro suono emesso dalla sirena posta sul mezzo di soccorso che si
allontanava segnò per i Torvale la fine della mariana solennità di mezz’agosto.
Il ferino riverbero di ciò che d’improvviso aveva sconvolto la loro esistenza, gli era apparso
insormontabile. All’istante aveva loro squarciato l’arresa corteccia: aveva fatto ribollire il
vermiglio sangue, raggelando la già stordita mente.
La situazione clinica della giovane era disperata.
I medici del Pronto Soccorso si prodigarono senza risparmio per evitare che il quadro clinico
complessivo precipitasse in maniera irrimediabile. Agli specialisti, accorsi prontamente
dalle Unità Ospedaliere del nosocomio casertano, furono necessarie circa due ore per stabilizzare
gli essenziali parametri vitali. La ragazza non rispondeva alle sollecitazioni e così, informati
i parenti, il responsabile decise di internarla per sottoporla a specifici esami strumentali,
compresa la TAC alla testa. Il secco colpo dato sulla durissima soglietta di granito indusse il
Neurologo a presentire che, oltre a farle perdere i sensi, avesse prodotto a Emma anche una
gravissima lesione al lobo occipitale.
L’irrimediabile trauma la bollò per il resto dei suoi giorni.
Emma, dalle diciannove di quel quattordici agosto e sino a notte fonda, fu sottoposta a
un’infinità d’esami clinici. Disgraziatamente per lei, tutti furono positivamente combacianti
con quanto, sin dal primo momento, era stato intuito dai Luminari accorsi al suo capezzale.
L’attento esame dei numerosi dati pervenutigli, indusse il Primario dell’Unità di Neurologia
presso l’Ospedale Civile del capoluogo a diagnosticarle una permanente Agnosia visiva.
Alla fine del triduo celebrativo della patronale festa d’agosto noi tutti del Circolo Cittadino
fummo raggiunti dalla brutta notizia. Sapevamo dell’incidente domestico, ma non sospettavamo
la terribile gravità e perciò, conoscendo il buon nome del casato, restammo tristemente
sconcertati.
I trattamenti farmacologici somministrati dai dottori che si occupavano di lei, lentamente
condussero Emma di nuovo alla realtà. Da sveglia la sua reazione alla terapia fu sorprendente
tantoché ben preso ricominciò a deambulare con le proprie forze. Rientrò a casa dopo circa
venti giorni di ricovero ospedaliero e quello rappresentò per tutti noi un buon segno, tuttavia
la famiglia sapeva quale travaglio l’attendeva nei giorni avvenire.
Alle labbra della ragazza non affiorò più il gioioso sorriso e anzi, per quanto il padre Luigi
riuscì a dirci, lentamente iniziò a manifestare numerosi e pericolosi limiti fisici. Cominciò insomma
a comportarsi come se fosse stata colta da improvvisa cecità. Divenne l’osservata speciale
dei genitori e ogni sua stravaganza nel loro già toccato sentimento, con tutta la sua spietatezza,
prendeva sempre più consistenza, la tremenda affermazione del Neurologo. Alla loro
ragazza, ancora non del tutto consapevole del perenne danno cerebrale subito, il poderoso bagliore
che bruciava l’anima rendendola sempre più buia, per ogni giorno che sorgeva, cominciò
a incatenarle lo spento sguardo.
A inizio del nuovo anno, sulla testa del già prostrato amico Luigi cadde una nuova, pesante
tegola. Nella casa Torvale, come se non fosse già sufficiente la terribile traversia, calò la tenebra
assoluta: erano trascorsi appena cinque mesi dalla disgrazia.
La sconfortata Emma, dal giorno che il male cominciò a rifiutare i fulgenti raggi alle sue
cangianti iridi, prona e rassegnata, prese a rimembrare gli acerbi anni che per lei erano stati
intensi e pregni di sereni svaghi. Un po’ per volta allontanò da sé gli amici e le amiche e cedendo
l’animosa esistenza alla nefasta sorte, tra gelate lacrime si negò il diritto di risollevarsi
e di onorare con impegno nuovo la vita che le era stata donata. La triste successione degli e3
venti purtroppo fu l’ineluttabile inizio della tragedia per la signora Margherita e il mio amico
Luigi che affabilmente da noi del circolo e da tutti i conoscenti era soprannominato col patronimico
Giggino ‘O Ceraiuolo.
L’imperante depressione che, come soave sirena, stava rodendo l’intelletto di Emma, la induceva
a sconsolanti e insane considerazioni. L’udire dalle sue labbra quei gemiti, modulati
appena, pose una feroce angoscia nei cuori a lei cari. La mamma Margherita e il papà, che per
lei agognavano una nuova primavera, non avevano smesso neppure un istante di sperare nella
sua remissione certa. Giunsero al punto di abbandonare la campagna e ogni altra attività per
dedicarsi senza sosta a lei, alla sua salvezza.
Certi che la giovane Emma non meritava quel castigo, allo stesso modo dei genitori anche i
parenti e i suoi amici, con assennate azioni, le furono d’immancabile sostegno morale e
d’enorme incitamento. Lei invece, ignorando l’amore che la circondava, sul mortificante vivere
continuò a forgiare l’asciutta pelle rosa.
«Amore, per tua madre e per me, tu sei l’unica fonte di consolazione.» Esordì sconfortato il
padre Luigi, «il tuo comportamento e le tue parole ci fanno molto male. La tua vita è ancora
più bella se abbandoni il pessimismo e ascolti le nostre parole che diciamo solo per il tuo bene.
»
«Io sento la tua voce e quella della mamma, riconosco pure il vostro odore, ma non vedendovi
per me siete solo degli sconosciuti esseri informi e allora, che cosa volete da me?»
«Tesoro, noi siamo i tuoi genitori e ti amiamo più di prima! Dacci la forza e il coraggio di
poterti aiutare.»
«Io sono un essere inutile! Ti ripeto, me lo dici tu d’essere mio padre e quella donna che
sta laggiù mia madre, ma io non so chi siete veramente voi due.» Emma, alle accurate suppliche
del padre, pur vedendo il suo viso, rispose tenendosi ferma nella ormai sua abituale, fredda
espressione «dal tono della tua voce sono quasi sicura che lo sei, però… Mi piacete anche,
però non vi sento miei!»
«Amore… se per te significhiamo ancora qualcosa, perché ti ostini a non volerci ascoltare?
Tesoro, perché rifiuti l’aiuto che ti offriamo? In fondo in fondo ciò che ti suggeriamo è un lieve
cambiamento delle tue abituali giornate. I dottori e gli specialisti ci hanno assicurato che è
facile facile da fare e piano piano questo piccolissimo sacrificio ti farà diventare com’eri prima
dell’incidente. Noi staremo sempre accanto a te perciò ascoltaci e non ti spaventare.»
«Per te è semplice! Io non sono più io e non voglio più vivere. Non so più chi mi circonda,
chi mi accarezza e chi mi sberleffa, quali animali e quali piante mi stanno attorno. No! Io… io
non voglio più far parte di questo mondo. Prima o poi mi leverò di mezzo. Sì, vedrete… prima
o poi…»
All’amico Giggino e ai parenti che neppure per un istante avevano smesso di sostenerlo,
furono necessari ben diciotto mesi per sbloccare la rattrappita mente dell’inconsapevole e
sfortunata giovane.
Emma, dopo tutto quel tempo e seppure lentamente, decise d’accettare le loro dolci promesse
e mostrando di non trattenere oltre l’ardente desiderio di rivalsa sulla iella che l’aveva
indotta a vivere in maniera alternativa la sua esistenza, cominciò a penetrare l’invariato mondo.
La quieta e ritrovata Emma, rivestita di nuova vitalità, riuscì a superare bene il primo scalino
e a porre dietro la schiena il masso più pesante di quel lunghissimo periodo di disgregazione
mentale.
Posta a fondamento la basilare pietra della rinascita, non smentendo la sua indole forte e
coraggiosa, in brevissimo tempo riabbracciò di nuovo la sua amica Serena e tutti gli amici di
scuola. Li ascoltava colma di meraviglia e pur non capendoli appieno o non serbando il ricor4
do dei loro trascorsi, lo stesso si ammise a loro col cuore colmo di nuova gioia. Continuò ad
accogliere, con rinnovato entusiasmo, gli inviti a non lasciarsi andare che tutti le rivolgevano
con amore e sebbene con fatica, iniziò a inseguire il nuovo sapere.
Con serenità intraprese vie a lei ignote e per quanto il danno irreversibile le concesse di incamerare
nella sua giovane, elastica e possente memoria cominciò ad assegnare il giusto colore
a ogni stinto suono.
Giggino che aveva recuperato in parte la speranza di rivedere il sorriso sulla bocca della figlia,
accogliendo a sua volta il mio sostegno e quello degli amici più vicini, riprese anche lui a
condurre un’esistenza quasi normale. Emma di par suo a metà inverno, pur rinunciando al
grande desiderio di continuare la scuola con gli studi universitari, finì con l’approvare il consiglio
dei genitori e s’iscrisse a un corso per l’apprendimento della scrittura e della lettura per
i non vedenti.
Era quello lo scalino più alto e più faticoso da salire.
Per lei che non si riteneva cieca e perciò sosteneva d’essere capace di leggere in modo
compiuto ogni scritto, non fu assolutamente semplice accettare di dover sfiorare con le dita i
caratteri in rilievo per assimilarne il giusto significato. I primi giorni d’apprendimento per lei
furono tragici, però l’incessante alitare che lo sprone della rivincita alimentava, carezzandoli
lieve, ogni momento donò ai suoi sovversivi occhi il sommo riverbero della generosità altrui
che lei, rallegrandosene, imparò ad amare.
La trasformata figlia del mio amico Luigi, nascondendo a se stessa le lacrime, superò quel
buio periodo in cui persino il suo cuore aveva smesso di sussultare e un po’ alla volta cominciò
a desiderare intensamente di scoprire i suoni e i colori del mondo. S’impose di lottare a
denti stretti e sovrastò persino gli immancabili attimi di sgomento sempre presenti, mentre
partecipava, con immensa gioia, agli incontri giovanili dove purtroppo talvolta le capitava di
cogliere anche il freddo dispregio di taluni coetanei insipienti.
Emma si era imposta di vivere aleggiando imperiosa sopra gli sciocchi e avendo imparato a
coesistere con quel genere di bassezze, tirava avanti per la sua strada mantenendo sempre il
sorriso sulle sue labbra. Aveva imparato a superare ogni ostacolo, infatti, per avvertire nel
petto il meraviglioso impulso a proseguire contenta il faticoso percorso intrapreso e di godere
così di tutto il bene che il tempo le poneva dinanzi, a lei bastava scoprire che ogni giorno al
mondo c’era più gente che l’amava, di quella che l’insultava.
Luigi Trovale in città era noto a una gran fetta di persone e perciò a Grifoni la voce della
prodigiosa ripresa psicofisica della sua operosa ragazza si era diffusa in poco tempo. La bella
notizia varcò il confine del suo quartiere suscitando, nell’animo di chi s’era comportato con
indifferenza, la più grande comprensione finendo con l’apprezzare la sua immensa forza di
volontà.
Emma che sembrava una donna nuova, non si pianse più addosso e cominciò a compiacersi
anche del festoso scodinzolare dell’affezionato cane, suo inseparabile compagno di svago. Il
rigenerato sussulto del cuore donò mille sfumature alla sconosciuta visione che circondava la
sua nuova esistenza.
Per Margherita e Luigi insomma l’amata figlia ritornò a essere la splendida, serena e felice
Emma e sebbene i suoi occhi ribelli vedessero scuro e non chiaro, come per incanto la loro
casa riconquistò la piena armonia. La bella giovane talvolta, per colmare il cuore d’amore e
scacciare i pochi momenti di tristezza, uscendo all’aria aperta, s’accontentava di udire: il cinguettare
del passero, l’esultare di un bimbo, lo stormire del vento.
Emma Torvale, vincendo il male e ritenendosi molto fortunata di esistere in un corpo attraente,
ritrovò di nuovo la gioia di sperare che le accadesse di percepire ciò che di tangibile ac5
compagnava i suoi passi. Non fu affatto facile per lei accettare la realtà di una vita che di colpo
le aveva negato di godere appieno del dono visivo, aggravandolo con la mancata cognizione
spaziale di ciò che percepiva, ma da ultimo ci riuscì.
Non fu semplice imparare a leggere con le dita, ma grazie al metodo Braille giunse anche
per lei il giorno più felice della sua nuova vita. L’occasione di provare a se stessa e ai propri
concittadini che era ancora una ragazza sana e di festeggiare il gran risultato ottenuto dopo
l’immenso lavoro caparbiamente svolto, le fu donata dal Superiore degli Oblati, cui era affidata
la Basilica, proprio il giorno della festa patronale di Grifoni.
Erano trascorsi due anni dal tremendo episodio invalidante. Emma aveva faticato tanto per
porselo dietro le spalle e perciò in quei giorni nella sua testa avrebbe potuto avere ben poco da
festeggiare e invece… Invece non ci fu alcuna necessità di persuaderla perché lei, appellandosi
al coraggio che si liberò dal fondo del cuore, traboccante di piacere, accettò.
Il sacerdote, apprezzando la sua capacità e la dolcezza della sua voce, al momento della Liturgia
della Parola la invitò a leggere il secondo brano della Sacra Scrittura, durante la messa
solenne celebrata dal Vescovo di Acerra.
La Basilica dell’Assunta era gremita.
Emma si presentò dinanzi al Messale con le gambe che le tremavano dall’emozione. La
forte agitazione tuttavia, le passò non appena pronunciò le prime parole che la sua mente elaborava,
intanto che la mano destra sfiorava quei caratteri in rilievo.
In quei bei momenti la rasserenata Emma, che la limpidezza della luce ignorava, non nascose
la gioia d’essere tornata alla vita. La rinata giovane in quella sua prima uscita ufficiale
riuscì a porre in maniera definitiva dietro la schiena, quei profondi rifiuti che per mesi avevano
aggredito il suo cuore. Annunciò la Sacra Scrittura con la voce piena inondando di nuova
vita l’assemblea e l’applauso d’approvazione che spontaneamente accolse le sue ultime parole,
di nuova pace colorò l’anima del padre Luigi e di sua madre Margherita.
Prima di tale ribalta, quanto pianto avevano versato i genitori. Terminata la straordinaria
prova, senza più dolersi della sventura che li aveva colpiti, poterono ritenersi davvero soddisfatti
e non mancarono di pregare per i tanti che restavano ancora prigionieri della mestizia.
«Per una volta ancora mi piaceva avere quel tonfo al cuore» le affermò il padre esaltato
dall’orgoglio che gli acquietò la testa. Col cuore colmo di gioia, aggiunse: «Amore mio, con
questo tuo coraggioso intervento hai dimostrato che, per essere felici e volare a quota alta,
non serve vedere ed è per questo che tua madre e io siamo orgogliosi di averti messa al mondo
e di averti al nostro fianco.»

Salvatore Grieco

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