Acqua!

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Acqua!

A metà salita mi girai: Alberto era fermo trenta metri più in basso, piegato con le mani sulle ginocchia e ansante. Aveva poggiato le due taniche vuote da dieci litri per terra e stentava a riprendere fiato. Rimasi indeciso se tornare indietro per dargli un minimo di aiuto o restare ad aspettare che si riprendesse. La mia preoccupazione primaria, egoistica ma dettata dalla necessità, era per le taniche: valutai se potessi aggiungerle alle mie tre e no, decisi, non ce l’avrei mai fatta.

Quindi spronai mio fratello: «Avanti, manca poco, al ritorno sarà tutto in discesa.»

Pura verità, ma con in più il peso dell’acqua che ci avrebbe fatto cadere sui ciottoli sconnessi almeno una decina di volte.

Questo però non glielo dissi: era il primo accaparramento, per lui, ed era bene che apprendesse con l’esperienza come fosse dura la vita.

«Vai tu», gridò. «Io ti aspetto qui.»

Col cazzo!

I venti litri che a malapena sarebbe riuscito a trasportare erano indispensabili per la famiglia, quindi a costo di farlo andare avanti a calci nelle palle sarebbe arrivato alla sorgente.

Continuavo, come tutti, a usare quel nome per indicare il misero rivolo che sgorgava dalla roccia, un centinaio di metri più in alto.

Allungai lo sguardo oltre Alberto: un carica acqua professionista arrivava baldanzoso con le sue taniche da cinquanta, senza nessuna fatica apparente.

Mike Papa

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