Come muore un partigiano – A settantuno anni dalla Liberazione di Prato

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Come muore un partigiano – A settantuno anni dalla Liberazione di Prato

La sera del 5 settembre 1944, i primi reparti della Quinta armata arrivavano alla periferia di Prato senza incontrare resistenza. Secondo Aldo Petri la prima auto americana entra da porta Santa Trinita alle 10 del mattino del 6 settembre e poi si dirige in piazza del Duomo, gli occupanti dell’auto rivolgono alcune domande sulla situazione della città a monsignor Piccardi che esce dal Duomo e va loro incontro. La città è sgombra di tedeschi e in parte occupata dai partigiani di pianura, agli ordini di Baldo (Tebaldo Cambi), che si sono acquartierati al cinema Borsi in San Fabiano fin dal 4 sera e che hanno trasformato l’albergo Stella d’Italia in mensa, il pomeriggio dello stesso 6 settembre si insedia in municipio la giunta comunale: la città formalmente è liberata.
I partigiani della Buricchi, che avrebbero dovuto esserci, stanno arrivando alla spicciolata, perché nel frattempo è accaduta una terribile tragedia. La stessa formazione è stata intercettata dai tedeschi a Pacchiana e costretta a combattere. La sparatoria durò fino all’alba del 6 settembre, fu uno scontro impari, per potenza di fuoco, organizzazione e addestramento al combattimento; ma anche i tedeschi ebbero perdite significative. Secondo Mario Martini, ebbero sei o sette morti, mentre Aldo Petri afferma che caddero in combattimento tredici partigiani, con sette feriti e quattordici dispersi, la maggioranza dei partigiani riuscì comunque a sganciarsi e a raggiungere il centro città. Ma il peggio doveva ancora avvenire.
Dopo la fine dello scontro, i tedeschi iniziarono a setacciare sistematicamente il territorio, catturando ventuno partigiani illesi, inoltre fecero raccogliere anche morti e feriti. Mani dietro la nuca i partigiani in grado di camminare furono condotti a Villa Nocchi, dove alloggiava il comando tedesco, precisamente il maggiore Karl Laqua, comandante del 1° battaglione del reggimento granatieri 755 della 334° divisione di fanteria della Wehrmacht.
Ebbe luogo un processo farsa che durò pochi minuti, al termine del quale un dipendente del Fabbricone, di nome Franz, che fungeva da interprete, comunicò in italiano che la pena comminata era la morte.
I condannati furono allineati lungo la Bardena, di fronte all’arco di via Maggio; i tedeschi prelevarono dalle proprie abitazioni tre cittadini, Alceste Marchi, Argillano Bailonni e un tale Caverni, perché assistessero all’esecuzione della sentenza. Successivamente il Bailonni ha lasciato la propria testimonianza dei fatti che fu pubblicata nell’opuscolo intitolato Come si muore per l’Italia libera.
A Figline furono dunque impiccati ventinove partigiani (alcuni furono fatti impiccare dagli stessi compagni), compresi morti e feriti, con totale spregio di qualsiasi sentimento di umanità. Bailonni ha testimoniato che a un giovane partigiano, Mario Tronci, cui si era spezzata la corda, non fu concessa la tradizionale grazia e lui stesso riannodò la corda e se la mise al collo urlando: “Guardate come muore un partigiano”.
Giuseppe Gregori

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