Il Pil e l’austerità di Berlinguer

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Il Pil e l’austerità di Berlinguer
Enrico Berlinguer

Gli ultimi decenni hanno evidenziato in modo sempre più chiaro come il nostro modello di sviluppo non sia sostenibile sul piano ecologico. Si stanno mettendo a rischio gli equilibri ambientali del pianeta e le sue capacità auto rigenerative. I cambiamenti climatici sono la prova più evidente che qualcosa si è già incrinato. Accademici, scienziati, ambientalisti e uomini comuni si stanno interrogando su cosa fare per evitare la catastrofe. Per eludere tutto questo si sono affacciate proposte di un diverso modello di sviluppo che tenga conto della sua sostenibilità ecologica. Le proposte di “crescita qualitativa” partono da una critica aspra nei confronti del Pil.
Il ragionamento muove dalla messa in discussione del Pil come indice di benessere. Il Pil è un indicatore quantitativo, somma tutte le transazioni monetarie registrate in un determinato paese e nulla dice sulla qualità di ciò che misura. Un indicatore sembra, a prima vista, un elemento marginale, poco importante, ma la scelta di come e che cosa misurare in realtà nasconde una volontà precisa che orienta lo sviluppo, gli investimenti, il costo del denaro, gli interessi che gli Stati pagano sui propri debiti pubblici.
Il Pil di fatto è il totem intorno al quale balla l’economia globale e gli economisti sono gli sciamani di questa nuovo dogma.
Delle auto ferme, in fila, in autostrada con relativo motore acceso, consumano carburante che è stato oggetto prima di estrazione, trasformazione, poi di commercio; comprato, venduto, ricomprato poi di nuovo venduto e tutto ciò fa crescere il Pil.

Enrico Berlinguer
Enrico Berlinguer
Se quegli stessi automobilisti facessero una scelta di semplice buon senso e spegnessero i loro motori, il Pil ne risentirebbe negativamente. Questo paradosso dimostra come la sola misurazione quantitativa non sia sufficiente per stabilire un indice di benessere, perché non dice nulla sull’uso che è fatto delle risorse consumate. Il danno che si crea, nei confronti dell’ambiente, è enormemente più alto del valore del lavoro che quel consumo insensato ha generato.
Le case in Germania sono realizzate secondo criteri che obbligano i costruttori a rispettare alcune norme; una tra queste stabilisce che per scaldare gli immobili non si possono usare più di 7 metri cubi di metano annuo per stanza. In Italia i metri cubi consumati per stanza, sono in media 22. Un semplice provvedimento di adeguamento, alle normative tedesche delle nostre abitazioni, avrebbe come conseguenza la riduzione dell’uso delle fonti energetiche, che implicherebbe una riduzione del Pil.
La scelta di un incentivo pubblico per adeguare le strutture delle nostre case, finalizzato alla riduzione di dispersione di energia consumata inutilmente, darebbe lavoro a migliaia di imprese non solo edili e a decine di migliaia di lavoratori.
Questo tipo di scelta non so quanto Pil farebbe recuperare, se tutto o in parte quanto perso nella riduzione di consumo di energia, ma sono certo che avrebbe un beneficio enorme sulla bilancia commerciale, sull’ambiente, e anche sul lavoro.
Va introdotto un criterio di valutazione qualitativo oltre che quantitativo, che misuri il buon uso fatto delle risorse. Le risorse sono limitate e abbiamo un dovere etico verso le generazioni che verranno: quello di preservare nel miglior modo possibile il pianeta che ci ospita. Dobbiamo pretendere che si ristabilisca il concetto di “bene” oltre a quello di merce. La merce è un bene nella misura in cui ha un valore d’uso che ne stabilisce l’utilità.
La merce in sé sganciata dal valore d’uso è un non senso, ma che sia il solo uso a stabilirne il valore è un obbrobrio. Il valore di un’arma sale in conseguenza della vicinanza di un evento bellico. Il concetto di valore d’uso va ricondotto ad una logica di bene comune. Non sempre la produzione di beni è un bene se sganciata dalla loro utilità sociale e di crescita generale.
Il buon lavoro è quello che insieme alla produzione di un bene produce benessere per la collettività e si pone il problema del bene comune come fine dell’ agire umano, sia in campo economico che sociale.
Questo non significa la riproposizione di una impostazione filosofica che attribuisce all’etica un primato che la colloca al di sopra della politica e dell’economia, al contrario oggi assistiamo al primato dell’economia come unica scienza in grado di realizzare le migliori condizioni possibili del benessere. Mai menzogna fu più evidente. I liberisti hanno magnificato le potenzialità di una economia liberata da vincoli, laccioli, un puledro senza morso lanciato al galoppo sulle praterie del mondo, senza steccati, confini, fili spinati. La realtà è sotto gli occhi di tutti: i ricchi sono sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri.
Il problema non è quello dell’affermazione di un primato di una disciplina rispetto all’altra, ma di recuperare un semplice principio di responsabilità, che deve ispirare le azioni e le scelte sia economiche che politico sociali.
La crescita qualitativa non è la recessione. Entrambe hanno a che fare con la diminuzione del Pil ma l’una è una scelta e l’altra è subita. Se una persona diminuisce l’assunzione di cibo, non è la stessa cosa se lo fa perché ha deciso di fare una dieta o perché non è in grado di provvedere ai propri bisogni nello stesso modo in cui lo era in precedenza. La crescita qualitativa è la scelta di mettersi a dieta, non è la mancanza di cibo.
La dieta la si fa per salute e in genere, se ben condotta, porta a miglioramenti generali per la persona. Scelte di sobrietà, rigore e austerità, che mettano al primo posto la qualità del produrre e del vivere, potrebbero essere – se non la chiave di volta – almeno un progetto per esistenze migliori. Mi sembra che questo concetto abbia molto in comune con l’intuizione di Enrico Berlinguer in merito alla proposta di un modello di sviluppo e di uno stile di vita che si fondasse sull’austerità. Dovremmo rileggere quelle pagine non per una ricostruzione storica del suo pensiero, ma per trarne una lezione politica e morale, oggi, ancora più attuale.

Manuele Marigolli

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