Home Servizi culturali Raccontami una storia 2018 La buona rimanenza (Alessandro Bertolli)

La buona rimanenza (Alessandro Bertolli)

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La buona rimanenza (Alessandro Bertolli)

«Non c’è peggior cosa di quando non fai nulla e tutti ti credono colpevole…», dirà qualcuno.
«Oh, sì che c’è: quando tu fai qualcosa di buono davvero, però nessuno ci crede», dirà un altro.
«È perché non esistono le persone davvero buone; esistono soltanto delle persone che non sanno essere cattive», noterà un terzo.
Ma questo genere d’ignoranza, allora, è un’impagabile benedizione.

Morris aveva fretta. Ne aveva troppa: aveva fretta perché sapeva che in ogni momento qualcuno poteva arrivare a sorprenderlo. Le Guardie Civili, poi, non erano mai tenere con gli stranieri che facevano quelle cose ai bambini del posto.
Morris scavava al buio, nei pochi centimetri tra la recinzione e le tende: non gli bastavano né la paletta della jeep né il cric né le mani. Morris scavava con i gomiti con le spalle con le ginocchia e perfino con la bocca; sudava, tremava e non smetteva un attimo.
Doveva fuggire quella sera, in quell’ora, e non farsi più vedere. Le madri, sennò, sarebbero tornate alla carica per fargli notare quanto bello, quanto simpatico, quanto più bisognoso d’affetto fosse il proprio figlio rispetto a tutti gli altri: quel figlio che forse avevano scelto tra i tre, quattro o cinque che avevano, il migliore, quello che doveva avere un’opportunità, quello che rapacemente era stato supernutrito, supercurato, superaccudito per piacere a quelli come lui… anche se tutto andava fatto di nascosto, senza che si risapesse là in giro. Morris stava già per scivolare sotto il livello della recinzione, quando restò impigliato con la tracolla della macchina fotografica e si sentì strozzare.
La cartella con un’ottantina di fotografie già sviluppate nella minuscola camera oscura dell’accampamento gli premeva contro l’addome e Morris pensò a quanto stupido fosse stato non attendere il rientro per svilupparle: i negativi sarebbero entrati nel taschino della camicia; ma il fatto era che le madri non avrebbero creduto. Dovevano vederlo, dovevano essere sicure, sicurissime, dopo tanto impegno e tanti sacrifici che ciò che era stato loro promesso si fosse davvero realizzato, e poi trattenevano a riprova proprio il negativo con l’immagine dei piccoli.
Morris non riusciva più a muoversi: era troppo quel peso, e il pacco troppo voluminoso. Forse l’unica maniera era prenderne una manciata appena e lasciar lì tutte le altre foto, ma non riusciva a decidere sul momento. Decidersi. Decidere, sempre decidere, e in poco tempo, e per il meglio; Morris ricordò una sua partita di biliardo.
Dunque, ora la rosa era coperta dalla nera e la gialla stava in una posizione troppo defilata – tra la rossa e la blu – per poterla raggiungere senza compromettere una buona distribuzione della rimanenza. Morris aveva bisogno dell’alce1 per tentare un colpo di finezza estrema che indirizzasse la 2 verso la buca centrale in alto ma in maniera di non far correre troppo la battente perché non ne restassero pregiudicate le due palle successive. Studiò le geometrie di tiro indicando con la punta della stecca i diamanti di riferimento, grossi risi di madreperla che scandivano come stazioni la linea tesa della sponda lunga del biliardo; poi, mentre riceveva l’alce dalle mani dell’arbitro unico, osservò il proprio rivale, i suoi occhiali dalla montatura esilissima ma enorme e le lenti gialle, le mani lunghe e bianche che egli stava ripulendo dalle tracce blu del gessetto strofinandosi vigorosamente con uno straccetto giallo pieno di scritte: Morris non aveva ancora dichiarato il colpo, ma sapeva che con quello, il suo primo del tredicesimo set, si sarebbe decisa la vittoria del torneo, perché la rimanenza sul tappeto azzurro era già talmente buona – una volta risolta quell’iniziale difficoltà – che un giocatore anche soltanto modesto sarebbe arrivato fino alla 10 un colpo dopo l’altro, senza più incertezze… ma se avesse fallito quel primo tiro, sarebbe stato l’altro ad imbucarle una per una fino alla 10. A meno di commettere un fallo volontario e buttare all’aria tutto con un colpo di forza che scombinasse la disposizione delle bilie, con il rischio, però, di fare ancora una volta il gioco dell’altro, lasciandogli palla-in-mano: Morris osservò il tabellino che segnava con un doppio 6 sbiadito il punteggio di parità; prese l’alce con una mano e tenendo la sua stecca nell’altra, finalmente si rivolse al giudice di gara e dichiarò il proprio colpo.
Quasi macchinalmente diede uno strattone e la bisaccia decise per lui: Morris rimase con in mano non più di sette/otto fotografie, mentre le altre ricaddero oltre il fossato insieme alla cartella che le conteneva, dentro il recinto. Era libero; libero dalla rete che l’aveva trattenuto fin poco prima, libero di fuggire, libero di tornare nel mondo civilizzato.

Due anni e mezzo dopo, un bel mattino di Marzo, Morris sfilò velocemente il fazzoletto da una tasca, non so se perché il naso gli colava davvero oppure perché presentiva qualcosa e intendeva così nascondersi la faccia, almeno in parte. Vide Franka accosciata in mezzo al marciapiede, sorridente, ma parecchio invecchiata e più ancora dimessa, con una mano su un passeggino giallo-pompelmo.
«Ehi ma buongiorno. Come ti va?», le domandò tirando su col naso e appallottolando il fazzoletto asciutto nell’altra tasca del suo giubbino.
«A me bene, molto. E a te?».
«Abbastanza bene, sì. Di certo quella che sta meglio di tutti è lei», disse lui avventatamente, accennando senza indicarlo al bambino disteso nel passeggino, semisveglio e vestito in modo primaverile; poi subito si corresse: «o lui, o… esso, diciamo; insomma è sempre così. È una mia specialità, vedi, ché se dico lei è una lui o se dico lui è lei, bah». Sarebbe stato sufficiente usare un pronome diverso, per non sbagliarsi, e dire genericamente loro: “quelli che stanno meglio di tutti sono loro”, e invece no.
«Lui, è un lui. Non preoccuparti, comunque, vorrà dire che è tanto bellino da scambiarlo per una femminuccia. Eh sì, in effetti vai sul sicuro se vedi qualcosa di rosa addosso, altrimenti è più facile che…».
«Già, del resto ho notato che adesso, in un caso e nell’altro, va da matti il giallo, ché è un colore più neutro, no?».
Lei annuì, ma gli sorrise un po’ spiazzata: «Vedi, che ora che si è fatta! Dobbiamo proprio scappare. Saluta il signore, Pepé». Si salutarono alla spiccia e senza grandi effusioni.
Camminando Morris ragionò che forse era stato un bene che si fosse sbagliato e, così, che Franka avesse potuto capire – se poi le importava – quanto poco ora gl’importasse di lei, visto che nemmeno conosceva il sesso di suo figlio, informazione che invece ricordò di aver appreso e anche da chi soltanto un istante dopo averla lasciata. Erano stati ventuno e tutti di fatica, i mesi d’amore con lei, ventuno mesi di sottomissione alla sua nobile famiglia in decadenza e alla loro nobilissima causa, e di un conseguente trattamento che definire umiliante era un insulto: cosa, di tutto quello, era stato amore? Ora, però, Morris si era vendicato contro di lei e contro quei suoi capelli sempre dritti neri e lucidi (finti, probabilmente): scuri come i suoi occhi e impenetrabili come la sua anima girovaga. Donna Franka Cartageñaz gli aveva segnato la vita in quel di Grenada, e per trascinarlo nelle sue attività umanitarie non ci aveva impiegato più di qualche secondo del proprio indisponibile tempo. L’Associazione “Cartageñaz y Grenada – Por los Niños de Dios” era quella che si occupava di diffondere le immagini di piccoli bisognosi trafugate dagli attivisti come Morris ed era poi la stessa che gestiva le sovvenzioni a distanza con le quali famiglie di questa parte del mondo si facevano carico del mantenimento di quei figli dell’altra parte del mondo, soltanto ispirate dalle lacrimevoli storie dovutamente riportate e dalla simpatia di un volto in una fotografia: Morris non ebbe mai davvero chiaro entro quali confini essi agissero, ma capì di aver sempre agito per amore.
Lei, Franka, aveva dovuto capirlo. Tutto aveva capito, senz’altro; ed ora Morris poteva riporre gli abiti belli e mettersi a letto per riposare, anche se era giorno. Nel sonno, certamente avrebbe sognato di Franka e del loro amore grande.
Stava per raggiungere casa, quando guardando l’orologio, si rese conto d’indossare un giubbino giallo-pompelmo e che quell’osservazione sulla neutralità di questo colore poteva averle lasciato intendere ciò che lui non intendeva proprio: anche una neutralità sua, sessualmente parlando.
«Imbecille!», si disse soprapensiero però ad alta voce, e sentì quasi immediata tutta la forza che un manovale di novanta chili sapeva mettere in un diretto destro. Il suo vicino non era tipo da credere ai malintesi e Morris non era tipo da guarigioni prodigiose: attese una giornata intera che il dolore si stabilizzasse, infine non riuscì ad evitarsi una visita al Pronto Soccorso di zona. Ebbe così modo di convenire tristemente insieme con gli altri malmessi là presenti che quest’ultima di cronaca nera era proprio una faccenda difficile da credere.
«Uccide nel sonno la moglie e il figlioletto di due anni». Così stava titolando come terza notizia il telegiornale all’ora di pranzo: sotto le lettere maiuscole bianche scorrevano sei secondi filmati con le immagini di agenti frettolosi e seri specialisti in tute bianche, che portavano pesanti bauletti di metallo dentro e fuori da un portone socchiuso modestamente decorato.
Al riparo dalle telecamere, un uomo pallido d’età stimabile intorno alla quarantina, ben pettinato, con un paio d’occhiali dalla montatura esilissima ma enorme e le lenti gialle, le mani lunghe, sudatissime e sporche che di continuo si strofinava con un toupet di chiara provenienza indocinese, sedeva completamente nudo sul secondo dei quattro gradini che separavano il tinello dal corridoio che introduceva alle stanze. Con l’intenzione di porgergli una coperta, un agente inciampò in un passeggino giallo-pompelmo e quasi cadde addosso all’uomo, che sedeva sconsolato: non piangeva, non rideva, non reagiva e non rispondeva alle domande di quelli che sapevano cosa chiedergli. Lui, però, non lo sapeva: non sapeva proprio spiegare quel che era successo; non sapeva dirlo, come fosse stato, perché – e infine lo ripeté forse per dieci volte di fila – lui non sapeva nulla dell’orrendo delitto che, a quanto tutti ora gli assicuravano, proprio lui aveva invece compiuto.
La notte precedente, quando il signor S. pensò che la buca fosse adeguatamente fonda e ampia, si fermò a rifiatare e ripose la pala in un angolo; ma la pala non voleva stare dritta e messa lì così per traverso rischiava di scivolare anch’essa disotto, come niente. S. si drizzò in piedi, allungò un braccio nella fossa e nel riprendere la pala urtò qualcosa di scuro che spuntava dalla terra dissodata. Sempre al buio rientrò nella buca, afferrò per la cima quella cosa nera e cedevole stringendola nei pugni, quindi tirò verso di sé a mani unite e ricadde all’indietro, contro la canna di una mitraglietta d’ordinanza.
I Gendarmi che – dietro precisa segnalazione anonima – fermarono S. nell’orto di casa, rinvennero accanto alla buca un cofanetto di bijoux che recava le iniziali F.C., intrecciate in un complicato disegno di tipo moresco: dentro il cofanetto, moltissime ciocche di capelli annodate con pezzetti di lenza. I cadaveri di Donna Franka e del piccolo Petrus vennero discoperti soltanto sul far del mattino, quando con più comodità si poté procedere a ripulirli dalla terra rappresa e dai ciuffi d’erba umida.
Ma il signor S. dormiva, quando tutto accadde, e quando uno dorme… come si fa a chiedergli cos’ha visto? Quando si era mai sentito di un assassino sonnambulo?
«Le donne, lo sapete, non hanno sensibilità. Non lo capiscono, che per un uomo perdere i capelli è come perdere un po’ della sua mascolinità», fu tutto quel che disse mentre lo conducevano via, mansueto come l’agnello malato che scopre nel mattatoio una via di scampo alle proprie sofferenze.

Prima di chiudere quest’esposizione, per compiutezza, va considerato un aspetto essenziale: vale a dire come i numeri siano puri numeri, e basta. Non vi è dietro nulla: non si può mangiarli, non li si può bere e non si lasciano respirare. Sono soltanto delle astrazioni create dagli uomini per catalogare, governare e infine disporre della natura. Sostantivati, tuttavia, i numeri sanno diventare autoritari, spietati se ci si avvicina troppo e li si prende per compagni. I numeri sono niente e, pur non stando in natura, lasciamo che essi ci dominino quasi totalmente. Il QUASI è una misura di libertà, la nostra libertà, il minuscolo scarto – che ciascuno è richiesto di colmare – tra vivere e sopravvivere. Ed era stato, per il signor S., questione di sopravvivenza il proseguire nel conteggio, un taglio dopo l’altro, una vita dopo l’altra.
Tra le altre cose, S. iniziò a fare il modello di barbiere quando ancora era ragazzino e la cosa gli appariva divertente, perché gli otteneva un taglio gratis ogni tre settimane e l’attenzione delle femmine migliori, che si contendevano la sua testa morbida e profumata. Proseguì poi per abitudine, e perché gli piaceva essere sempre in ordine con se stesso e con gli altri: e anche alle donne piaceva.
Però ci fu una sera, verso i trentacinque, quando una delle sue scapigliatrici volle avvisarlo che in cima alla testa lui aveva un buco: <>, gli disse, era un buchino di neanche un centimetro, ma segno evidente che la calvizie stava per annotare la sua testa tra i propri possedimenti. Continuò ugualmente, S., a fare da modello per un tre anni buoni, ricordando però di numerare i tagli effettuati da quella sera della drammatica scoperta; ad ogni seduta alla poltrona marron, riflesso nello specchio a parete mentre il barbiere-fotografo lo immortalava compiaciutissimo del proprio indiscutibile mestiere, S. si guardava il viso e sempre vedeva il viso di una donna e, associata a quel viso, una testa calva: da rabbrividire.
Doveva levarla: doveva levarsi quell’immagine dagli occhi e con quest’intenzione, dopo ogni taglio, la sera stessa, andava alla ricerca di una donna che gli carezzasse i capelli e alla quale poter chiedere della sua chierica, aspettandosi quella smentita che non venne mai, perché tutte gli facevano notare il diradamento in cima alla testa, e tutte ridevano divertite della sua tristezza. Seguiva un nuovo taglio e un nuovo volto di donna irridente, e S. doveva cancellare pure questo, e allora la sera – sempre con facilità, va notato – si trovava un’altra donna, ma ricevendone un’altra dose di sconforto.
Donna Franka, inaspettatamente (né si seppe più per quale motivo), venne a prenderlo il venerdì pomeriggio appena passato carnevale, mentre stava al taglio numero quarantotto dalla sua tremenda scoperta. Lui si lasciò prelevare dalla poltrona marron, mansueto come l’agnello malato che scopre nel mattatoio una via di scampo alle proprie sofferenze. E forse a lei lo disse, allora, forse le confessò tutto, e forse potremmo anche immaginare che sia arrivato a ringraziarla perché, quella sera, Donna Franka aveva salvato una vita: non quella del signor S., si capisce, ma quella di un’altra donna del venerdì. Perché poi S., in cambio della vita salvata, volle prendersi quella della propria moglie e, soprattutto, perché uccise anche il figlio piccolo, non si riuscì a comprenderlo, né lui – unici tra i delitti di cui fu accusato – ne ammise mai la colpa.
Processato per quarantanove omicidi (di quarantotto donne e un bambino, con l’aggravante dei futili motivi, dello scempio di cadavere – perché, questo va segnalato, ogni vittima fu rinvenuta completamente priva di capelli – e del vincolo di sangue), S. sconta tuttora la sua condanna a vita in un penitenziario in mezzo al mare, insieme a pochi d’altri. Chi lo ha visto di recente, ci riferisce che porta i capelli incolti, grigi e comunque pettinati, che ogni mattina domanda a un secondino di guardargli in cima alla testa e che, sempre, il secondino gli conferma che «ce n’è una buona rimanenza»; dicono, poi, che non chieda mai di una donna. Né di uno specchio.

Alessandro Bertolli

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