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La strage di Cefalonia. Una medaglia di troppo?

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Il generale Antonio Gandin
Antonio Gandin

La strage di soldati italiani a Cefalonia fu compiuta dai reparti dell’esercito tedesco della 104° Jager Division e 1° Gebirgs Division. Nell’ultima fase dell’eccidio, si unirono alla terribile impresa anche i soldati del 966° Reggimento granatieri da fortezza e del 201° Battaglione semoventi d’assalto.
Più di 5000 fra soldati e ufficiali italiani furono passati per le armi e sepolti in fosse comuni o caricati su barconi ed affondati in mare. In gran parte, erano componenti della 33° Divisione Acqui comandata dal generale Antonio Gandin, ma anche carabinieri della 27° Sezione mista, da reparti del 1° battaglione finanzieri e da marinai del locale Comando Marina che presidiavano le mitragliere costiere.
Alle 21,30 dell’8 settembre 1943, il generale Vecchiarelli, comandante dell’11° Armata Italiana inviò un messaggio al generale Gandin che testualmente recitava: «Seguito conclusione armistizio, truppe italiane 11° armata seguiranno seguente linea di condotta. Se tedeschi non faranno atti di violenza armata, italiani non, dico non, faranno causa comune con ribelli né con truppe anglo-americane che sbarcassero. Reagiranno con forza ad ogni violenza armata. Ognuno rimanga al suo posto con compiti attuali. Sia mantenuta con ogni mezzo disciplina esemplare. Firmato Generale Vecchiarelli».
Alle prime reazioni di stupore e di gioia, seguì tuttavia la difficoltà di attuare un simile ordine quantomeno contraddittorio. Subito vennero rafforzate le difese del quartier generale italiano ed il generale Gandin iniziò una trattativa per il passaggio ai tedeschi delle postazioni che fino ad ora erano state comuni, così come previsto anche dagli ordini del comando generale. Durante le trattative sia i tedeschi che gli italiani cercarono di prendere tempo ma intanto agli ufficiali germanici vennero impartiti ordini precisi sul comportamento da tenere in caso di resistenza italiana.
Gandin si consultò con i suoi ufficiali ed emerse che la maggioranza non condivideva un’eventuale cessione delle armi pesanti ai tedeschi. L’11 settembre i tedeschi presentarono un ultimatum a Gandin nel quale chiedevano la consegna di tutte le armi, non solo di quelle pesanti. Intanto, dalle vicine isole venivano fatti affluire rinforzi tedeschi. Gandin cercando di prendere tempo consegnò una richiesta di chiarimenti, ma la quasi totalità dell’artiglieria della Divisione Acqui, i reparti della Regia Marina, dei Carabinieri e della Finanza si rifiutavano categoricamente di consegnare le armi.
Iniziarono le prime scaramucce e il comando italiano impartì ordini per il riposizionamento di truppe e postazioni. Tra le truppe italiane cresceva tuttavia il disagio nei confronti dello Stato Maggiore. Sembra che un soldato sia arrivato a scagliare una bomba contro l’auto di Gandin. Quasi tutti gli ufficiali dichiararono di essere pronti a resistere.

Ordine del comando italiano al generale Gandin
L’ordine esplicito al generale Gandin di trattare i tedeschi come nemici

Il 13 settembre, mentre i tedeschi iniziarono a bombardare alcuni pontoni italiani e continuava l’affluenza di rinforzi germanici, Gandin diffondeva un messaggio alle truppe che recitava: «A tutti i corpi e reparti dipendenti. Comunico che sono in corso trattative con il Comando Supremo Tedesco allo scopo di ottenere che alla divisione vengano lasciate le armi e le relative munizioni. Il generale di Divisione Comandante Gandin».
Scontri di piccola entità si facevano sempre più frequenti. I tedeschi tentarono anche di ammainare la bandiera italiana ad Argostoli, ma un drappello italiano si oppose e, ad armi spianate, riposizionò la bandiera sul pennone della piazza del capologo.
Gandin come segno di buona volontà alla trattativa fece abbandonare alle truppe italiane le alture dell’isola. La decisione suscitò le ire di molti ufficiali che intravidero in questo l’impossibilità successiva ad una seria difesa. C’è chi parla addirittura di uno scontro nell’alto Comando di Divisione durante il quale i Comandanti Apollonio, Pampaloni ed Ambrosini arrivarono a ipotizzare un tradimento del Generale Gandin e del suo vice Gherzi.
Il 14 settembre Gandin comunicò ai tedeschi che gli ufficiali e le truppe non intendevano cedere le armi non fidandosi della promessa del loro rimpatrio.
IL 15 settembre i tedeschi conclusero il loro rafforzamento con l’arrivo di ulteriori compagnie da montagna degli Jager Granadier agli ordini del maggiore Von Hirschfeld ed il comando generale fu assunto dal generale Lanz. Quella stessa mattina i soldati tedeschi, con l’appoggio dell’aviazione, attaccarono le truppe italiane.
I nostri soldati contesero le posizioni per una settimana ma l’aver abbandonato le alture comportò uno svantaggio tattico determinante. Dal 16 al 21 settembre la resistenza fu accanita ma, quando vennero a mancare le munizioni a diverse piazzeforti, non restò che la resa.
Fu a quel punto che iniziò il massacro. A piccoli gruppi i soldati italiani vennero tutti fucilati. I pochi che si salvarono perché arresisi per primi, vennero inviati in Germania nei campi di sterminio.
Cinquemila fucilazioni. I resti gettati in cisterne, fosse comuni o caricati su barconi e affondati in mare.
Secondo Giorgio Rochat, la Divisione Acqui avrebbe perso in combattimento 1200 soldati, 5000 nei massacri seguenti, mentre i tedeschi fanno addirittura salire quest’ultimo numero a 6500. Vengono fucilati anche il generale Gandin e 193 ufficiali tra il 24 e il 25 settembre. Altri 17 marinai sono massacrati dopo aver sepolto i corpi dei loro compagni. Anche lo storico Arrigo Petacco e l’Anpi concordano su queste cifre.
Nel dopoguerra arrivarono le medaglie. I processi conclusi negli anni Sessanta portarono a qualche condanna mai scontata, tranne coloro che furono giudicati a Norimberga.
Anche al generale Gandin fu assegnata la medaglia d’oro al valor militare come ad altri ufficiali e soldati che morirono difendendo l’onore dell’Italia. Ma la meritava?
Quando fu concessa non era ancora noto il contenuto della notifica delle ore 12 del 14 settembre al tenente colonnello tedesco Barge: «La Divisione si rifiuta di eseguire il mio ordine di concentrarsi nella zona di Sami, poiché essa teme, nonostante tutte le promesse tedesche, di essere disarmata o di essere lasciata nell’isola come preda per i greci o ancor peggio di essere portata non in Italia ma sul continente per combattere contro i ribelli. Perciò gli accordi di ieri con lei non sono stati accettati dalla Divisione. La Divisione vuole rimanere nelle sue posizioni fino a quando non ottiene assicurazione, con garanzie che escludano ogni ambiguità».
In pratica il Generale Gandin comunica al nemico che la sua truppa si è ammutinata!
La lunga nota, scoperta da Don Luigi Gilardini, cappellano superstite, nell’Archivio Militare di Friburgo, viene pubblicata in parte nella terza edizione del suo libro “Sull’arma si cade ma non si cede” del 1974.
Solo nel 1986 il Generale Renzo Apollonio, anch’esso superstite di Cefalonia, pubblicava integralmente il testo tedesco con accanto la sua traduzione.
Vi è poi il messaggio della Marina. Alle ore 9,45 del 15 settembre il Comandante della Regia Marina Mario Mastrangeli, di stanza a Cefalonia, servendosi del ponte radio di Corfù invia il seguente messaggio a marina Brindisi: «Qui situazione sempre incerta, i comandi non vogliono sapere di attaccare!».
Il capitano di Fregata Mastrangelo era lo stesso che aveva consegnato al Generale Gandin alle ore 11 dell’11 settembre il seguente radiogramma del Comando Supremo Italiano di Brindisi: «Considerare le truppe tedesche nemiche».
Nonostante ciò, Gandin fece ritirare le truppe dalle colline e trattò con i tedeschi fino a poche ore prima dell’attacco. Gandin era un fedelissimo di Mussolini che aveva pensato a lui anche per il comando delle truppe della Rsi, poi affidato a Graziani.
Vi è inoltre un altro aspetto che merita di essere approfondito in merito ad una strage che getta ancora una volta infamia sull’esercito tedesco.
L’ordine di fucilare i soldati inermi venne direttamente da Hitler che, si dice, considerava le truppe italiane al pari dei banditi, perché, a quella data, l’Italia non aveva ancora dichiarato guerra alla Germania.
Sembra tuttavia che Mussolini abbia avallato tale ordine.
Il tenente colonnello Johann Barge, comandante delle truppe tedesche sull’Isola fino al giorno 15 settembre allorquando fu sostituito dal generale Lanz giunto con i rinforzi, dichiarò al procuratore di Dortmund nel corso del processo per la strage che lo vide assolto: «Prima che io lasciassi l’Isola di Cefalonia, ho saputo di un telegramma di Mussolini, il quale aveva ordinato che gli ufficiali della Divisione Acqui, che egli definiva ammutinati, dovessero essere fucilati come punizione per la loro diserzione… Io non ero più a Cefalonia quando gli ufficiali vennero fucilati. Anche Hirschfeld, il nuovo comandante di campo, rimase sbalordito come me. Egli sollevò dubbi sulle modalità di esecuzione di un tale ordine di fucilare oltre cento ufficiali e sull’opportunità di gettare i corpi dei fucilati in una fossa comune o di farli affondare in mare. Vorrei aggiungere che nell’ordine di fucilazione di Mussolini erano stati espressamente esclusi i cappellani militari».
Commentava Paolo Paoletti sul Corriere della Sera del 24 novembre 2007: «Mussolini sapeva di non poter dare ordini ai tedeschi. Ma forse, proprio per la sua debolezza, voleva dimostrare a Hitler la sua determinazione nel riprendere in mano lo Stato e l’Esercito».
Nella sentenza di archiviazione del tribunale di Dortmund è riportata questa dichiarazione del caporale Werner Helmbold (4° compagnia, 910° battaglione, 966° reggimento Granatieri di Fortezza di stanza a Cefalonia): «Già all’inizio delle ostilità sono venuto a sapere da feriti della 4° compagnia che erano stati portati da me in infermeria, che c’era un ordine di Hitler e Mussolini secondo cui non dovevano essere fatti prigionieri. Tutti gli uomini della Divisione Acqui dovevano essere fucilati».

Marco Nieri