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Parole dal mare (Giulia Bellucci)

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Parole dal mare (Giulia Bellucci)

Incredulità. Questo è il termine più appropriato per descrivere i sentimenti suscitati in me dall’evento che mi è capitato quasi un anno fa. A volte la vita sorprende e, quando lo fa, lascia senza respiro, inducendo a credere a una realtà oltre il tangibile. Soprattutto quando, sia pure contro ogni legge della statistica, che porterebbe a non puntare neppure un solo centesimo su un accadimento, ebbene sì, quello si verifica!
È successo proprio così a me: ecco perché ho scritto ciò che avete appena letto…
Avevo solo quindici anni quando mi innamorai per la prima volta. Il mio cuore galoppava come un cavallo nei prati. Me lo sentivo scalpitare nel petto. Accadde tutto d’estate. Mia madre e mio padre erano entrambi originari dello stesso paese e si erano trasferiti a Milano subito dopo il loro matrimonio, poco prima che nascessi io. I loro cuori erano però rimasti lì, in Sicilia, e a me avevano trasmesso tutto l’amore per quei posti che si portavano dentro. Eravamo perciò soliti recarci in vacanza nel loro paese d’origine tutte le estati. Il sole caldo rende quei posti così luminosi e radiosi, il mare è d’un azzurro intenso e proprio sulla riva del mare noi trascorrevamo la maggior parte delle vacanze. Io adoravo restare tutto il giorno in acqua e, tra una nuotata e l’altra, giocare sulla spiaggia con amici, mia sorella e i miei cugini. Giocavamo a beach volley, ‘signori ti spruzzo’, ‘cucchiaino in mare’ o beach tennis. Le giornate apparivano così brevi e ogni volta, quando arrivava il momento di tornare a Milano e riprendere l’abituale vita di città, che m’appariva tanto noiosa, mi sentivo triste e per me iniziava il conto alla rovescia. Pensavo che se i miei genitori non fossero emigrati, avrei abitato in Sicilia e lì sì che sarei potuta essere felice. A Milano poi avvertivo molto la mancanza della nonna materna che ci viziava con regali e tanti piatti buoni preparati con amore. Come dimenticare i suoi dolci! Era così brava. Faceva una cassata squisita. Mamma provava a sua volta a prepararla, ma non le riusciva mai altrettanto buona come quella di nonna Rosalia.
Ricordo di quell’estate, l’ultima vissuta con disincanto, in cui mi innamorai per la prima volta. Lui era un ragazzo siciliano del posto. Ricordo, come fosse oggi, che mia madre in quel periodo era ossessionata dal mio essere gracile e con le spalle curve. Era preoccupata perché al contrario di mia sorella avevo l’aria di essere sempre malaticcia. Allora mi incitava a prendere il sole e a mangiare. Voleva che non stessi troppo in acqua per timore che mi smagrissi ancora di più. Per me era però difficile accettare le sue imposizioni perché adoravo nuotare come un pesce, tuffarmi e riemergere e poi rituffarmi. Mi sentivo investita da un senso di libertà profondo e indescrivibile.
Quell’estate eravamo rimasti in Sicilia più delle precedenti, da metà luglio a fine Agosto. Mia nonna aveva avuto un’ischemia nel mese di giugno e mamma volle starle vicina il più possibile e, mentre lei passava molto tempo al capezzale della nonna, io e mia sorella potevamo godere di una maggiore libertà al mare, che era proprio a due passi dalla casa di nonna. Nonostante la mia gracilità conclamata, non risparmiavo alcuna delle mie energie. Volevo godere la pienezza di quelle giornate fino allo sfinimento.
Dopo la mia interminabile e incontrollata nuotata, un giorno, uscendo dall’acqua azzurra come il cielo di primavera, vidi un ragazzo che si era avvicinato ai miei amici rimasti sulla spiaggia. Era alto e sembrava essere di qualche anno più grande di me. Il suo sguardo caldo e scuro mi pervase completamente e lo stupore mi causò un tuffo al cuore, lasciandomi muta e immobile, mentre lui mi porgeva la sua mano per le presentazioni. Ero imbarazzata perché mi sentii nuda sotto il suo sguardo penetrante. Risposi al saluto dopo alcuni secondi, che mi sembrarono un’eternità. Non mi era mai capitato prima di provare un’emozione tale. Da quel giorno lui prese ad avvicinarsi a noi in modo assiduo. Poiché lavorava al lido dove andavamo noi di solito, ci riservava fin dal mattino il posto più vicino alla postazione di bagnino, quando quella era la mansione che gli veniva assegnata. Alcune volte, quando invece gli toccava il turno al parcheggio o al bar, ci raggiungeva durante la pausa e ci portava il gelato. Mi dispiacevo quando lo faceva, perché pensavo tra me e me che gli costasse buona parte del suo guadagno della giornata. Il compenso che gli davano, stando a quanto dicevano i miei cugini, era basso. Mi sentivo in colpa perché appariva evidente che era mosso dall’interesse che nutriva nei miei riguardi. Io, dal canto mio, cercavo in tutti i modi di non ritrovarmi mai da sola con lui, consapevole che quell’amore non poteva sbocciare. Le nostre vite non avrebbero potuto avere in seguito punti d’incontro e questo mi intimoriva. D’altronde lui avrebbe iniziato alla fine dell’estate la sua esperienza di vita a Roma e di certo non gli sarebbero mancate le occasioni di incontrare ragazze nuove. Ero, infatti, venuta a conoscenza che aveva appena finito le scuole superiori e lavorava al lido per mettere da parte i soldi che gli sarebbero serviti per l’Università. Apparteneva a una famiglia di pescatori ma a lui quel tipo di vita non piaceva. Aspirava a diventare medico e si era iscritto alla Facoltà di Medicina a Roma. Era determinato a cambiare il proprio destino e riponeva grandi attese nel futuro. Sembrava essere già innamorato di Roma e gli brillavano gli occhi ogni volta che qualcuno gli poneva domande a riguardo.
Sembrava che i giovani di quei paesi, sebbene amassero la propria terra e non volessero allontanarsene, avvertissero l’inevitabile bisogno di guardare altrove per realizzare il proprio futuro. In fondo, anche i miei genitori avevano fatto la medesima scelta, molti anni prima. Forte era la paura di costruire qualcosa lì, perché c’era il terrore di finire inevitabilmente nelle mani sbagliate. Si avvertiva la paura generale di fallire ancora prima di partire, perché aleggiava nell’aria l’odore di violenza, sopraffazione da parte dei più forti, le ritorsioni riservate a chi non voleva piegarsi a pagare il pizzo. C’era la paura di non riuscire a restare integri e di cedere, passando dalla parte del male e così l’olezzo della violenza e del sangue annientava il profumo dei limoni, della zagara, del mare e di tutto ciò che di bello offrivano quelle terre ricche di storia e fascino.
I giorni si susseguivano con rapidità e leggerezza. Le attenzioni che mi riservava Salvatore erano assidue e riuscivano a farmi sentire alla stregua di una principessa. Mi sentivo bella e desiderata, nonostante mi fossi ritenuta fino ad allora come il brutto anatroccolo. Un giorno decidemmo di fare una gita tutti insieme noi ragazzi, dopo aver chiesto il permesso ai rispettivi genitori, che ci fu peraltro accordato con facilità, per visitare i posti dell’entroterra agrigentino. Ero totalmente ignara del fatto che si sarebbe unito a noi anche Salvatore, dacché era riuscito ad avere il giorno libero. Quando la mattina lo vidi sopraggiungere sul luogo dell’appuntamento con la macchina di suo padre, mi sentii quasi in pericolo nonostante provassi una gioia indescrivibile.
Fu una giornata memorabile, ricca di emozioni che non riuscirei mai a descrivere pienamente con le parole. Pranzammo con i panini preparati da casa, seduti su un prato all’ombra degli alberi in un boschetto. Dopo pranzo a un certo punto scomparvero tutti, chi per un motivo, chi per un altro. Io mi ritrovai da sola con Salvatore, contrariamente alla mia stessa volontà. Ripensandoci successivamente, ho avuto il sospetto che si fossero messi tutti d’accordo allo scopo di lasciarci da soli. Furono attimi interminabili. I sentimenti che si impossessarono di me furono un misto tra paura, imbarazzo e felicità. Così, quando lui si avvicinò e mi diede un bacio sulle labbra, dicendomi di essersi innamorato di me, io non risposi nulla. Restai immobile per un po’, guardandolo incredula, e poi, in preda al panico, corsi via. Mi pentii quasi subito di quel mio comportamento perché conoscevo i sentimenti che covavo in fondo al mio cuore. Eppure a quella età pensavo, anzi ne ero certa, che non ci fosse nulla di irrimediabile. Ero certa che il giorno dopo o quello successivo avrei avuto un’altra possibilità di rimediare all’errore commesso fuggendo. Quando ero adolescente, forse tutti a quella età pensano come me, avevo sempre fretta di realizzare i miei sogni. Non riuscivo a concepire l’eventualità di dover attendere. L’idea di tornare a Milano e dover attendere Natale o l’estate successiva per riprendere il mio rapporto con Salvatore, mi faceva stare male. Non riuscivo proprio a concepirlo. Di fronte a una tale eventualità, preferivo rinunciare a lui. Eppure, senza neppure rendermene conto, me ne ero già innamorata. Ci pensai e ripensai per due giorni interi e alla fine decisi di dover confessare anche a lui i miei veri sentimenti, dopo che ero riuscita a farvi luce in me stessa. All’improvviso sentii come l’urgenza di farlo anche perché era già passato il ferragosto e io presentivo nell’aria la fine delle nostre vacanze. Perciò quando non lo vidi per due giorni di seguito, chiesi a mia cugina di procurarmi il suo numero di cellulare. Lei comprese e entro poche ore mi raggiunse a casa di nonna e me lo portò scritto su un foglietto. Così quella sera trovai un briciolo di coraggio e non so neanche io dove! Per me non fu per nulla facile. Comunque, con il cuore in gola e la bocca secca, gli mandai un sms, in cui gli chiedevo di incontrarlo il giorno dopo. Mi rispose quasi subito:
«Rosalba, sto uscendo ora da casa perché devo lavorare al bar stasera. Ancora è presto e potrei passare ora da casa di tua nonna, così parliamo».
Il battito del mio cuore prese ad accelerare all’impazzata e le gambe a tremare. Cercai di prendere tempo. Avevo bisogno di ritrovare una certa compostezza prima di incontrarlo. Così gli risposi che stavamo cenando ancora e non mi era possibile allontanarmi. Ci demmo appuntamento per la mattina successiva nella piazzetta del paese. La decisione di rinviare l’incontro mi avrebbe devastata dentro e l’avrei rimpianta amaramente per lunghi anni.
Quella fu la notte più lunga della mia vita. Provavo a immaginare quello che gli avrei detto e quello che mi avrebbe risposto. Poi la mia mente viaggiava avanti nel tempo e immaginavo già il nostro futuro in cui sarei stata più felice che in una favola. Quante volte quella notte pronunciai, come in un sogno, le due parole magiche: «ti amo».
Mi svegliai tardi quella mattina dopo la lunga notte di pensieri, e persi tempo in bagno a prepararmi, soprattutto a scegliere il vestito adatto alla circostanza. Quando scesi al primo piano, mi ritrovai dinanzi delle facce funeree: mia madre, mio padre, mia sorella, mio cugino e mia zia. Mi guardavano tutti senza proferire parola. Per un attimo temetti che la nonna avesse avuto un peggioramento e chiesi con la voce ansiosa:
«Cosa è successo? La nonna è peggiorata, per caso?»
«No, cara. Non preoccuparti, la nonna sta come prima, anzi meglio. Vieni a fare colazione». Rispose mia zia per rassicurarmi, ma mi accorsi subito che mio cugino aveva il viso bagnato di lacrime.
«Ma allora cosa succede?”» e, mentre ponevo questa domanda, pensavo già al mio incontro con Salvatore, ormai imminente. Fu mio padre a rispondermi, però, dopo aver cercato dentro di sé le parole più giuste per non spaventarmi.
«Stanotte c’è stato un incidente al lido. Salvatore e Marco lavoravano lì in quel momento. È accaduto poco prima che chiudesse, quando tutti erano andati via».
Quelle parole furono come un fulmine e mi colpì così all’improvviso, lasciandomi attonita. Mi sembrava di non aver capito o di aver frainteso. Cercai di mascherare le mie emozioni e dopo essere rimasta in silenzio per non so quanto tempo, domandai:
«Cosa è successo? E Salvatore?…» restai in silenzio qualche secondo ancora, poi aggiunsi: «e Marco?»
Tutti mi guardavano, sembrava che fossero a conoscenza dei miei sentimenti per Salvatore. E in effetti mia sorella sapeva qualcosa. Mi sentivo osservata. Mio padre alla fine rispose:
«C’è stata un’esplosione. Una vera tragedia, piccola! Purtroppo Salvatore e Marco sono morti».
Quelle parole riecheggiarono dentro di me, più e più volte. Me le sentivo rimbalzare da un emisfero all’altro del cervello e nel mio cuore. Poi il buio…
Quando mi svegliai, vidi tutti intorno a me preoccupati e mia madre che continuava a ripetere che quel malessere era dovuto al fatto che mangiavo poco. Ero malata, secondo lei, e l’eccessivo affaticamento dovuto alle vacanze aveva peggiorato la situazione.
«È anemica!» andava ripetendo. Per fortuna c’era mio padre a mantenere la calma. Arrivò il medico e rassicurò tutti.
«Un calo di pressione», disse e precisò: «forse è stato dovuto al caldo afoso di questi giorni».
«Che dice, dottore, è il caso di fare le analisi?»
Mia madre si aspettava un’approvazione da parte del medico per potermi assillare poi con le sue ansie da madre iperprottettiva. Intanto io mi guardavo intorno, incredula e incapace di comprendere se le parole che mi avevano sconvolta, le avevo udite realmente o solo sognate. Volevo piangere e in effetti le lacrime cominciarono a rigarmi il volto, ma nessuno ci fece caso.
«Sì, con calma. Quando poi sarete a Milano, almeno che l’episodio non si dovesse ripetere».

Dopo qualche giorno ci furono i funerali. Ricordo che fu il giorno prima della nostra partenza. Rifiutai di prendervi parte e nessuno insistette. Quel giorno mi recai in riva al mare, proprio vicino al bar distrutto. C’era pochissima gente. Mi guardavo intorno e non riuscivo proprio a capire come era potuto accadere che un ragazzo di diciannove anni se ne fosse andato così, ancora prima di iniziare a vivere, i suoi sogni stroncati proprio da quel mondo bastardo da cui lui voleva fuggire.
Il mio cuore si stringeva nel petto in una morsa di dolore. Presi un piccolo pezzo di carta e vi scrissi sopra: «Ti amo, Salvatore». Poi lo chiusi in una fialetta di plastica vuota delle vitamine che prendevo e, pensando a Salvatore, chiusi gli occhi e affidai la mia dichiarazione d’amore al mare. Pensai che le onde l’avrebbero portata lontano e chissà, da lassù…La osservai galleggiare per un po’, finché non riuscii più a scorgerla.

Sono trascorsi trent’anni da allora ed è rimasto sempre vivo dentro di me per tutti questi anni il ricordo di Salvatore. Chissà se da lassù lui ha sentito il mio amore di allora!
È stato difficile per me dimenticare, ma alla fine ho incontrato l’amore di nuovo, mi sono sposata e ho una figlia. Ed ecco che l’anno scorso siamo tornati tutti lì in Sicilia di nuovo con la mamma per passare una settimana di vacanza in quel meraviglioso posto di sole. Nulla era più come un tempo: ovviamente mia nonna non c’è più e così mio padre. Lui se n’è andato due anni fa, a causa di un tumore. Abbiamo alloggiato a casa della nonna, della quale a mia madre è toccata la mansarda. Non ha mai voluto cederla per poterci passare le vacanze.
Una sera accadde un fatto straordinario. Mio marito voleva mangiare del buon pesce, così aveva comprato un grosso tonno, oltre a dei frutti di mare. Non amo pulire il pesce ma mi toccò farlo. Mentre aprivo ed evisceravo il tonno, sentii al tatto qualcosa di insolitamente duro dentro alla pancia del pesce. Ciò che schizzò fuori da lì fu una piccola bottiglietta di plastica. La cosa mi sorprese molto e mi domandai come fosse riuscito a ingoiarla. Stavo per buttarla via, quando mi colpì qualcosa di bianco al suo interno. Mi suonò nota quella piccola bottiglietta. Allora la sciacquai sotto l’acqua e guardandola meglio mi parve, sì, di averla già vista. Il suo contenuto bianco mi sembrò un bigliettino. Presa dall’ansia, la aprii e ne tirai fuori il contenuto. Srotolai quel pezzo di carta, miracolosamente scampato all’acqua. Guardai e c’era dentro una scritta, invecchiata dal tempo ma ancora leggibile:
«Ti amo, Salvatore».
Ero sbalordita perché la grafia pareva essere proprio la mia. Il biglietto era piegato in due e, guardando dall’altro lato, vidi un’altra scritta:
«Anche io ti amo».
Restai perplessa e dei brividi di freddo scossero tutto il mio corpo. Un caso? Uno scherzo del destino? O un miracolo? Non so darmi una risposta plausibile. Non ho avuto il coraggio di dire nulla a nessuno di quell’episodio ma ancora, dopo un anno, non riesco a smettere di pensarci.
Una piccola bottiglietta di plastica ha custodito quel mio messaggio intatto per trenta lunghi anni in balia del mare e non ha subito nessuna alterazione. E non solo ha custodito quel messaggio, ma è tornata da me con una risposta. Che cosa è realmente accaduto non lo saprò mai! Almeno non durante questa vita.

 

Giulia Bellucci

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