Home Servizi culturali Raccontami una storia 2018 Racconto di Vincenzo Datteo

Racconto di Vincenzo Datteo

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Racconto di Vincenzo Datteo

Succede che ti svegli, ti fai la doccia, ti vesti, svuoti una tazzina di caffè ed esci di quando fuori è ancora buio. Ti fermi, fai un passo indietro, prendi le chiavi, i cattivi pensieri e te ne vai. No, non pensi proprio al fatto che quella non possa essere una giornata come le altre.

FRANCESCO
Crisi economica, mutuo, debiti, lavoro precario, moglie, gemelli e cagnolino a carico. Si, ce le hai tutte. È presto per il Caffeina, ma tu sei già lì, seduto al tuo posto in un’ora insolita. Sfogli il giornale senza dare importanza a quello che leggi, alcune cose le hai anche tu, sempre le solite cose.
«Ciao Francè, come butta? Sei in ferie?»
Lo sai, te l’aspetti quella domanda ma fai segno di no, che boh, non sai neanche tu in che posizione amministrativa collocarti. Licenziato, in tronco. Ecco! Credi sia la più consona alla tua situazione. In fondo è un po’ come essere in ferie. Quindi si. Ti stai godendo le splendide vacanze. Agiti la mano come a scacciare una mosca, come a scacciare quella domanda.
Enrico posa il caffè sul tuo tavolo, fa un sorriso bislacco e si dirige con il vassoio verso altri lidi.
«Grazie ma non lo voglio questo», lo dici seccato, scontroso. Il tuo amico passa, si ferma, poi torna indietro. Ha l’aria dubbiosa, di quello che forse non ha capito bene.
Lo sai che prendi sempre il solito, senza zucchero, nero, e lo sa anche Enrico. Ma non lo vuoi, oggi, quel cazzo di caffè. Vuoi una birra, e anche se non bevi da un secolo, non vuoi nient’altro. Punto.
Passi molto tempo lì, minuti, ore. È carino questo bar, ti è sempre piaciuto. Spazioso, interamente in legno con un grosso banco in fondo. C’è un bel tepore che a braccetto con le note jazz si diffonde in ogni anfratto. Ci ha saputo fare, a differenza tua, il tuo amico. Guardi dalla finestra e gli alberi spogli e il cielo terso ti ricordano che lì fuori è inverno. Anche dentro lo è, dentro di te.
Il bar si riempie di gente, il tuo tavolo di bicchieri vuoti. Alzi la mano e attiri l’attenzione di una giovane cameriera che ha appena cominciato il suo turno. È nuova, o comunque non l’avevi mai vista prima.
«Buonasera, desidera?», ti seduce con un sorriso tanto incantevole che non potresti dire di non desiderare nulla. Ordini da bere, vorresti qualcosa di più forte, e dopo una lista di whisky le chiedi di portarti il più economico. Quella raccoglie i bicchieri vuoti e se ne va con l’aria un po’ spaventata. Non devi avere una gran bella cera e devi anche andare in bagno. Hai tanto piscio nella vescica, e tanta merda in quella fottuta testa.

ENRICO
Hai un posto di lavoro come dimora. A casa, infatti, ci vai solo per dormire e neanche tutte le notti. Ti piace il tuo bar, cazzo se ti piace. Adori stare a contatto con la gente, non proprio tutta, certo, però come si dice anche quello fa parte del mestiere. Ti diletti ad apportare ogni volta delle migliorie, ti piace creare l’ambiente giusto, l’atmosfera ideale, per i tuoi clienti ma soprattutto per te. Sei un artista, a modo tuo. Fare il barista in fondo è una forma d’arte. E non c’è giorno che non pensi a come sei riuscito a venire fuori da quella trappola e a costruire il tuo piccolo, magico regno: il Caffeina. Forse tuo padre sarebbe orgoglioso di te. Oppure no, lui avrebbe voluto un figlio notaio, medico o avvocato. Di tua madre non lo sai. Non lo sapeva neanche lei. Comunque ci ha pensato la cirrosi epatica a dirimere ogni dubbio. Se l’è portata nella tomba e ‘sti cazzi alle sue opinioni.
Dalla lavastoviglie tiri fuori piattini e bicchieri, poi li asciughi, con cura, come se fossero bambini. Il locale al momento è semivuoto ma non deserto. È una caratteristica del tuo bar. Non hai memoria di un solo attimo in cui lì dentro ci sei rimasto completamente solo. Forse è per questo che preferisci startene lì. È per questo che a casa non ci vai mai. La solitudine ti fa paura, la solitudine ti ha portato ad alzare il gomito. E quello vuoi tenerlo basso, se non vuoi sciupare tutto. Mentre posi l’ultima stoviglia lo sguardo ti cade sulla parete stracolma di bottiglie. Quella vista ti sputa in faccia un grumo di fango proveniente dal tuo passato. Quello per cui la buonanima di tuo padre sicuramente non ne va affatto fiero.
Il primo pomeriggio è così. Gente che entra, consuma e va via in un flusso ininterrotto che trascina con sé sorrisi, storie, sveltine e anche perché no, denaro, parecchio denaro. Ne sei contento, certo, ma la cosa più preziosa, per uno che era morto, è che ci sia vita, che si respiri vita. E vaffanculo, te lo godi questo momento, ti ci attacchi con avidità, succhiando tutto quello che c’è da succhiare.
La porta si apre e lo vedi entrare. Guardi l’orologio, istintivamente. È presto, troppo presto. Non è quello il suo orario. Ha l’aria preoccupata, più del solito. Avrà litigato con sua moglie, un’altra volta. Non ti guarda neanche, va dritto al suo tavolo, quello vicino alla finestra. La porta intanto si apre ancora e ancora. La sala si riempie di musica e di gente.
«Ciao France’, come butta? Sei in ferie?»
Ti guarda male. Sembra provenire da un’altra dimensione, da un universo parallelo. Fa un gesto strano con la mano. Vorresti chiedergli come mai è lì, così presto. Cosa è successo, come mai ha l’aria persa, i capelli disordinati, la fronte solcata da troppe rughe. Non riesci a farlo. Non sai perché, ma un brivido ti trapassa le scapole. Gli posi il caffè, gli accenni un sorriso forzato e fai per passargli oltre. Magari dopo, con calma, gli parlerai. Invece no. Ti chiede, rabbioso, una birra. È una vita che non beve. Gliela porti e lo lasci lì per molto tempo osservandolo di sottecchi. La rabbia ha bisogno dei suoi tempi per essere sbollita. Altri entrano, qualcuno esce. Hai un’attività da gestire. Una cosa alla volta.

NICOLA
Chiedi al tuo collega se per lui va bene fermarsi al Caffeina. Certo fa quello, non ci sono problemi anche se sai bene che difficilmente un subordinato possa farne, soprattutto sul caffè da scegliere. Parcheggiate la volante, vi sistemate l’uniforme e vi avviate verso il bar. Fa freddo fuori, d’altronde è dicembre. La gente, dal freddo d’inverno e dal caldo in estate, ne rimane sorpresa. E si lamenta. Ma Cristo, che cazzo vuole la gente?
La porta si apre accompagnata dal din don secco, distinto. Il locale a quell’ora è colmo. Ti senti osservato e non ci fai più caso, però ti piace vedere le disparate espressioni tinteggiate sui vari volti. Così cogli lo sguardo affascinato di donne un po’ in là con gli anni, il timore di qualcuno che non ha proprio la coscienza a posto, quello che ha appena ricordato di rinnovare la revisione dell’auto, il ragazzino che sembra aver visto la Madonna e quelli, la maggior parte, a cui stai profondamente sul cazzo a prescindere da ogni cosa. Arrivi al banco, saluti Enrico e una giovane cameriera e posi il copricapo sul freddo e lucido marmo. Fai un breve scambio di battute con il proprietario e mentre sorseggi la bevanda fumante ispezioni il locale con la coda dell’occhio. Lo fai istintivamente, lo facevi già prima di fare quel lavoro. Forse per quello hai deciso di arruolarti. Dentro di te covavi a tua insaputa il seme dell’indagine. No, il motivo è un altro, lo sai bene. A quest’ora saresti stato un tossico oppure schierato dall’altra parte della barricata. Prova ne sono i tuoi vecchi amici che sono rimasti al paese. Smetti di pensare alle stronzate e ti accorgi di lui. Sta entrando in bagno, furtivo, come se avesse qualcosa da nascondere.
«Cosa c’ha?», lo chiedi a Enrico, sottovoce. Quello fa spallucce e ti dice che è inchiodato lì dal pomeriggio e non fa che bere, grattarsi in testa e guardare fuori dalla finestra. Tra l’altro gli ha fatto capire pure di non impicciarsi.
Il tuo collega si avvicina alla cassa per pagare, tu lo fermi, gli fai segno di lasciar perdere e di tornare in macchina. Gli dici che lo raggiungi tra un minuto, il tempo di una pisciatina. Quello ti fa di si con la testa, saluta il barista e se ne va. Tu paghi i due caffè, anche se Enrico ti dice a sua volta di lasciar perdere, e vai verso la toilette. Di nuovo vieni inseguito dai vari sguardi, dai vari sentimenti, dalle varie pupille.

FRANCESCO
No, non stai per nulla bene. Anzi, non ci sei mai stato così lontano. È quasi peggio di quando eri un alcolizzato. Ti guardi allo specchio. Fai schifo, e sei grasso. Tu che vent’anni fa eri secco come un’acciuga e ti chiamavano stecca da bigliardo. Ma non te ne frega niente di queste stronzate. Hai bisogno di fare qualcosa. Fosse stato solo per la tua insulsa esistenza non ci avresti pensato troppo. L’avresti fatta finita in un baleno e chi si è visto si è visto. Ma hai quei cazzo di gemelli, Roberta e quel fottuto cane a cui pensare. E l’hai fatto pure abbastanza bene negli ultimi anni, dopo che sei riuscito a guarire, dopo che ti sei rimesso in piedi. Sei riuscito ad entrare nel maglificio, a portare un mezzo stipendio, a sposarti, ad avere una famiglia, ad ottenere un mutuo. E quel rotto in culo di direttore ti chiama – venga nel mio ufficio, ha detto proprio così – e ti riempie la testa di crisi, di periodo difficile, di sacrifici, di tagli. Ha abbozzato pure delle lacrime, ha modulato la voce in un suono stridulo e ha preso dei fazzolettini. Non posso capire quanto sia addolorato, ti ha ribadito. No, non lo capisci infatti, soprattutto da uno che gira in Ferrari. E tu sei stato lì, a guardarlo, senza muovere un muscolo, senza proferire parola. Quando ha finito, ti sei girato e te ne sei andato. Roberta non lo sa, crede che tu sia ancora al lavoro.
Lo vedi Nicola, dietro di te, attraverso lo specchio. Sembra un gigante con quella divisa perfettamente stirata e aderente al corpo lungo e muscoloso. Ti ha chiesto se stai bene. Gli hai risposto tutto d’un fiato. Hai fatto scorrere le parole dal cervello, affogato nell’alcol, attraverso la tua bocca, alle sue orecchie. Oltre a pisciare frasi, nel frattempo te la sei fatto anche addosso, proprio come un bambino di pochi mesi o peggio ancora come un vecchio di parecchi, troppi anni. Nicola non fa una piega, nemmeno ti guarda compassionevole. E lo ringrazi, perché non hai bisogno di pietà, di compassione. Non sai neanche tu di cosa hai bisogno, non sai più nulla.
Non sai neanche quanto tempo passa. Però un po’ la sua presenza ti fa bene, quantomeno ti fa calmare, ti fa riprendere il controllo. Lui ti guarda, fisso, sempre attraverso il vetro, tu gli dai ancora le spalle, perché hai paura, perché sei un codardo. Non dice niente perché parole che non servono non ti servono, appunto, a nulla.
Ti risiedi al tuo posto, al punto di partenza. Gli occhi degli altri sono puntati tutti verso te e sul tuo amico carabiniere. Fai segno a Nicola che è tutto a posto, che ora stai meglio. Gli dici che darai uno sguardo alla gazzetta sportiva e poi te ne andrai a dormire.

ENRICO
Sei nervoso e non sai perché hai un brutto presentimento. Nonostante tutto sfoggi sorrisi e battute a chi ti capita a tiro. Un occhio al personaggio di turno, l’altro alla porta del bagno. Nel locale fa da padrone il brusio della gente che oscura il perenne sottofondo musicale. Manuela, la neofita cameriera, e Giancarlo, che ha attaccato per il suo turno, corrono incessantemente da un tavolino all’altro. Tutto procede per il meglio, come tutte le sere, come sempre. Ti viene in mente che forse dovresti avvisare Roberta, chiederle se sa che Francesco sia qui, chiederle cosa è successo. Per un momento ti viene in mente una cosa così assurda da farti male. Pensi che Francesco abbia commesso qualcosa di terribile, del tipo che abbia ucciso sua moglie e i gemelli. Non sai perché ti sia venuta in mente una cosa simile però è con difficoltà, molta difficoltà, che riesci a scacciarla. Finalmente la porta del bagno si apre, ne esce prima il carabiniere poi lui. Sembra stia meglio, pensi che forse abbia vomitato. Ringrazi mentalmente Nicola e gli fai un cenno. Quello ti ricambia e si dirige verso l’uscita. Tu torni ai tuoi affari. Al banco c’è qualcuno che deve pagare. Ti avvicini, sfoggi il tuo sorriso migliore e apri la cassa. Non fai in tempo a fare lo scontrino. Le dita rimangono bloccate, incollate sulla tastiera.

NICOLA
Ti sputa addosso tutto quello che c’ha di marcio. Tu non puoi fare niente. Nessuno può. Lo ascolti, in silenzio, fino a quando, come un pallone d’aria compressa, si svuota completamente. Pensi che nessuno sia salvo, nessuno ha l’immunità. Che tutti possono trovarsi di fronte a una montagna da scalare o un burrone da discendere. Di merda ci aggiungi non andando troppo per i sofismi. Niente retorica, niente cazzate, niente tranquillo tutto andrà per il meglio. Fatemi il piacere tuttologi della domenica e tornatevene alle vostre stronzatine quotidiane. Tenetevi i vostri consigli, le vostre indicazioni, le vostre speranze, rimettetevi ai vostri dei quando la burrasca sfonderà le vostre porte. Adesso, fatemi il piacere, andate a farvi fottere.
Lo riaccompagni al suo posto. Sembra che si sia leggermente calmato, non per merito tuo. Non sei il tipo che si prende meriti che non ha. Anche perché non hai fatto niente per meritarti, appunto, niente. Ti volti verso Enrico, ti sembra pure lui un po’ più disteso, gli fai un cenno e te ne vai. Questa volta gli occhi puntati addosso non te li caghi neanche di striscio. Il tuo collega si sarà infreddolito, gli chiederai scusa e in un modo o nell’altro ti farai perdonare, anche se sai benissimo che i carabinieri di certe cose non hanno assolutamente bisogno.
Stai per salire in macchina, fai un sorrisetto da minchione a Filippo poi ti blocchi.
«Che coglione! Scusa torno tra un attimo.»
Filippo ti guarda perplesso, però forse ha capito.
Rientri nel bar, ti guardi intorno, poi lo individui sul bancone. Il copricapo è lì, dove l’avevi posato quando sei entrato. Roba da giorni di consegna, pensi.
Fai per ritornartene indietro ma senti addosso qualcosa di pesante, un silenzio assordante, nonostante la musica continui a uscire incessante dalle casse. Non è la solita sensazione di avere gli sguardi addosso, è qualcosa di tangibile, che si tocca, e, inoltre, puzza. D’istinto l’occhio va al posto vicino alla finestra, quello che non incontra nessuno. La gente è ammutolita, spaventata. Ti volti di scatto. Neanche Enrico c’è. Ti viene da mettere la mano sulla pistola. È strano quell’impulso. Ti viene solo quando percepisci un pericolo, un serio pericolo. Vai oltre il bancone e ti dirigi verso la stanza sul retro. Nel farlo noti la cassa aperta, ci sono diverse banconote sparse sul pavimento.

EPILOGO
Lo strillo ti parte all’improvviso, incontrollato. È un urlo feroce, di animale ferito a morte. Lo sai che spaventi tutti, ma non riesci a controllarti. Continui a urlare, a sbattere i pugni sul tavolo, a far cadere i bicchieri. Enrico si precipita, dice agli altri di stare calmi, che non è successo niente. Tu lo vedi tutto questo, come spettatore in prima fila. Vedi quel grassone che sudato, che sbraita come un pazzo e il gracile barista che gli si avvicina, lo prende per una spalla e lo fa alzare. Lo regge, l’accompagna attraverso i tavoli e gli ripete di stare calmo, di stare tranquillo. Lo porta dietro il bancone, vuole portarlo sul retro. Per un po’ riprendi i comandi. Sei dietro il banco adesso. Enrico ti precede di qualche metro. Ti fa strada, ti dice di seguirlo. Tu fai si con la testa, gli dici che ti dispiace, che hai fatto una cazzata. E mentre dici queste stronzate la cassa aperta ti attira come una calamita. Ci sono un sacco di contanti, un sacco di soldi. Sono quelli che ti stanno spappolando il cervello. Sono quelli che ti stanno mandando tutto a puttane. Lui è già dentro l’altra stanza. Non può vederti. Potresti prenderli, sgraffignarli a due mani e scappare. Ti si annebbia il cervello, completamente, e lo fai. Cazzo, lo fai per davvero. Prendi i soldi e il contatto con quella carta ti da un brivido tale da farti venire un orgasmo. Hai quasi fatto e sei pronto a scappare. Vaffanculo Enrico, vaffanculo tutti.
«Ma che fai?», è lui. Ti ha visto. Rimani fermo per qualche secondo, minuto. Lui anche. Il tempo si cristallizza, lo spazio si riduce a quei pochi metri quadri che vi separano. Quando l’incantesimo svanisce lui si avvicina e ti salta al collo. Tu sei più grosso di lui, potresti abbatterlo con poca difficoltà, ma la sua forza ti sorprende e riesce a trascinarti nel retro. Ruzzolate a terra, fate cadere utensili, piatti, posate. Ti molla pugni, ginocchiate, tu non riesci a fare nulla, sei in sua balia. Sta avendo la meglio e forse è un bene, speri che ti massacri di botte, basta che la faccia finita. Ti pesta di brutto, tu sotto lui sopra a cavalcioni. Ti sputa frasi, lacrime, bestemmie ma tu non riesci a scandirle, le ricevi come un unico groviglio bavoso. Stai perdendo i sensi, te ne stai andando all’altro mondo, e l’unico pensiero che ti viene in mente è che hai voglia di un grosso bombolone alla crema. Già, lo vorresti con tutto il cuore quel bombolone. Chissà cosa faresti per averlo. Pensi che faresti di tutto.
Forse è per il bombolone, forse per il principio di autoconservazione, sta di fatto che vedi qualcosa che luccica a pochi centimetri da te. Stai morendo, però quel bombolone lo vuoi, lo desideri così tanto che riesci ad afferrare quel maledetto coltello e a piantarlo alla gola di Enrico. Glielo pianti forte, così tanto da bucargli il cranio, facendoti un male cane alla mano e inondandoti di sangue caldo e denso.
Quando ti giri vedi il tuo amico che entra nella stanza. Con l’uniforme e la pistola impugnata è davvero bello, imponente, vorresti essere come lui.
«È tardi, amico mio, sei arrivato tardi.»
Chiudi gli occhi e speri tanto, veramente, che Nicola premi quel fottuto grilletto.

Vincenzo Datteo

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