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La risonanza magnetica può confermare la diagnosi di Parkinson

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La risonanza magnetica può confermare la diagnosi di Parkinson
Una donna nel macchinario per la risonanza magnatica

Uno strumento diffuso in tutte le strutture ospedaliere può confermare la diagnosi di Parkinson e contribuire alla ricerca su schizofenia e psicosi. Lo dimostra un nuovo studio, condotto dall’Istituto di tecnologie biomediche del Cnr collaborazione con il Department of Psychiatry Columbia University Medical Center di New York.
I ricercatori hanno dimostrato che sul cervello umano la riduzione del contrasto nelle immagini di risonanza magnetica della sostanza nera è dovuta alla perdita di neuro melanina, cioè dei neuroni che producono dopamina, legata alla malattia di Parkinson.

«Nei neuroni della sostanza nera del cervello umano che producono dopamina si accumula una sostanza chiamata neuromelanina. Questi neuroni vengono persi nella malattia di Parkinson – spiega Luigi Zecca, uno dei coordinatori dello studio – Erano già stati pubblicati numerosi studi, eseguiti con la risonanza magnetica (Rm o Mri), che nelle immagini mostrano una riduzione del contrasto nella zona (sostanza nera) dove si registra la perdita di neuroni della dopamina in soggetti affetti da Parkinson. Finora, però, non avevamo la certezza che la riduzione di contrasto fosse dovuto alla perdita dei neuroni e della neuromelanina in questa zona del cervello».

Questo fatto fatto stato ora dimostrato dallo studio. «Il metodo di risonanza magnetica della neuromelanina è stato verificato mediante correlazione con il rilascio di dopamina osservato nelle immagini della tomografia ad emissioni di positroni (Pet). Inoltre è stato convalidato con misure del flusso sanguigno, utilizzando immagini di risonanza magnetica funzionale (fMri) nella zona in cui ci sono i neuroni della dopamina – prosegue il ricercatore – Questa procedura di risonanza magneticadella neuromelanina può quindi essere considerata come un nuovo metodo per confermare la diagnosi della malattia di Parkinson».

Questa procedura potrà essere per per ricerche su altre patologie neurologiche e psichiatriche in cui sia presente un’alterata attività della dopamina. «Abbiamo impiegato le immagini di risonanza magnetica della neuromelanina per studiare pazienti con schizofrenia e soggetti con elevato rischio per le psicosi, usando sempre come confronto la Pet e la fMri – conclude Zecca – In questi casi abbiamo osservato che il segnale delle immagini di risonanza magnetica della neuromelanina è correlato alla gravità delle psicosi nella schizofrenia e nei soggetti a rischio di schizofrenia. Questo suggerisce che il metodo possa diventare un marcatore del rischio per le psicosi, prima della comparsa di una manifesta schizofrenia. Questi soggetti potrebbero così beneficiare di un trattamento tempestivo con farmaci antidopaminergici. Inoltre questa metodologia è non-invasiva, poco costosa, semplice e rapida da eseguire con una strumentazione (risonanza magnetica a 3 Tesla) largamente disponibile in molti ospedali».