Home Servizi culturali Raccontami una storia 2018 Storia di una hacker semiprofessionista (Sara Bichicchi)

Storia di una hacker semiprofessionista (Sara Bichicchi)

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Storia di una hacker semiprofessionista (Sara Bichicchi)

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Nulla da fare, il server non è disponibile. Questo maledetto messaggio di errore scombussola tutti i miei piani, e pensare che un tempo codici del genere erano il mio pane quotidiano. Se non ci credete, lasciate che vi racconti la storia di una hacker semiprofessionista.
Tutto iniziò il sette dicembre duemiladodici, ad appena due settimane al mio quattordicesimo compleanno, quando io, Amanda Lair, incontrai per la prima volta un hacker.
Era un adolescente smunto, dalla capigliatura scarmigliata e la faccia butterata dall’acne, incassata su di un corpo impettito come un manico di scopa. Lo beccai per caso, mentre bazzicava intono alla pasticceria di mia madre, e lui, colto in flagrante, stese subito le labbra in un sorriso sardonico.
«Ehi, tu» lo apostrofai stizzita. «Si può sapere che hai da ridere?».
Il ragazzo non mi rispose. Fissava con occhi avidi le torte esposte in vetrina e ciondolava svogliatamente le braccia molli ai lati del corpo. Quando ormai ero sul punto di andarmene, disse di chiamarsi Scheggia.
«Scheggia? Ma che nome è, Scheggia?!» lo schernii senza pietà.
Lo sconosciuto, affatto offeso, replicò che era il suo nickname e cominciò a blaterare, devo ammettere con una certa imprudenza, di quella che lui definiva con pomposa solennità “la sua professione”.
«Se vuoi ti insegno» buttò lì alla fine. «Ad hackerare, intendo».
D’impulso, accettai.
Fu così, per una serie di circostanze fortuite, che la piccola, anonima Mandy si trasformò in Mercoledì.
Nel giro di poche settimane diventai la migliore della zona: rapida, silenziosa e implacabile, mi infiltravo nei profili altrui come se fossero porte aperte. Anzi, spalancate.
Ricordavo tutti i codici che Scheggia mi aveva fornito e li combinavo con maestria per aggirare ogni sistema di sicurezza. Era il mio talento, l’unico che avessi, così, mentre le mie compagne piroettavano sulle punte o improvvisavano virtuosismi al pianoforte, io stavo per ore dietro un monitor.
I miei voti peggiorarono inevitabilmente, ma nessuno se la prese più di tanto. I miei genitori, a dir il vero, non si mostrarono neppure sorpresi e se la sbrogliarono con qualche sporadica ripetizione di matematica.
Dopotutto, era Carolina la secchiona della famiglia ‒ tre trenta su altrettanti esami universitari, praticamente un genio ‒ e con lei in casa non c’era molto che ci si aspettasse da me. A scuola la situazione non era diversa, solo che a mia sorella si sostituiva Sara Levi, la bella, intelligente, perfetta so-tutto-io della classe. Con il suo sorriso da Monna Lisa, la Levi conquistava i professori in un battibaleno ed era rivoltante ascoltare i mille elogi estasiati con cui gli insegnanti tessevano di continuo le sue lodi. Quando però si trattava di me, l’aggettivo più ricorrente era mediocre».
Il dodici marzo duemilatredici conobbi Melinda5799, un’amica di Scheggia che, con le sue unghie simili ad artigli e un certo modo sornione di far rotolare le parole sulla lingua, ricordava vagamente una gatta.
«Sei una fan della famiglia Addams?» mi domandò con franchezza, una volta che eravamo tutti e tre seduti in un bar dimesso.
Sulle prime non capii e la mia faccia dovette tradire una buona dose di perplessità, perché Melinda si sentì in dovere di spiegarsi meglio.
«Il tuo nick» specificò infatti, scrutandomi con due occhi quasi felini.
«Oh, il nickname» rantolai. «Sì, io… ho visto un paio di film della famiglia Abrams».
«Addams».
«È quello che ho detto».
Melinda soffocò una risatina con un sorso di caffè, ignara di aver inconsapevolmente varcato un confine cruciale: senza volerlo, mi aveva dato un’identità nel mondo digitale, aveva incollato sul nome in codice che avevo scelto per pigrizia ‒ era un mercoledì il giorno piovoso in cui avevo incrociato Scheggia ‒ un volto, un’immagine fredda e micidiale che mi cucii addosso come una seconda pelle.
Hackerare con Melinda divenne ben presto un’abitudine. Ci sedevamo in un polveroso pub di periferia, tiravamo fuori il pc e ci mettevamo all’opera: sceglievamo scrupolosamente i nostri obiettivi, selezionandoli soprattutto tra i profili più popolari, e li annientavamo. Prima, però, frugavamo a dovere e scorrevamo carrellate di foto e di video che trasudavano gioia, allegria e soddisfazione, che noi modificavamo o facevamo sparire. Era il nostro modo di ribaltare le gerarchie, di contare finalmente qualcosa, e guardare tutte quelle pagine di felicità che dipendevano esclusivamente da un mio click mi dava assuefazione. La fine della felicità di chi mi aveva fatto sentire una nullità era l’inizio della mia.
«Perché non lo fai?» mi provocò un giorno Melinda. «Perché non distruggi quella stronzetta?»
Scrollai le spalle e mi lasciai convincere ‒ forse non aspettavo altro ‒ a forzare il profilo di Sara Levi. Davanti a me comparve subito una sfilza di immagini, metà delle quali scattate con due ragazze brune. Com’era prevedibile, la Levi non veniva male neanche in foto e qualsiasi angolazione metteva in risalto il suo nasino dritto e i suoi zigomi da bambola. Soltanto una fotografia, a differenza delle altre, era lievemente mossa e ritraeva Sara con un ragazzo biondo, che la guardava come se il mondo intorno a loro fosse davvero sfocato. A me, ovviamente, un privilegio del genere non era mai capitato.
Distolsi alla svelta lo sguardo da quell’immagine melensa e cancellai il post che la conteneva, ma non l’intero account. Per questo progettai di meglio e, dopo averlo rivoltato come un calzino, lo rimpinzai di virus. Infine, per non tralasciare proprio nulla, sostituii le citazioni letterarie a margine delle pubblicazioni con battute volgari, di pessimo gusto, e mi sentii infinitamente sollevata: grazie a me, la perfezione di Sara Levi avrebbe avuto almeno un neo.
«Un’operazione superba» commentò Melinda, impressionata, ed effettivamente, tirando le somme di quella che è stata la mia carriera, quello fu il mio colpo più professionale. Il più nefasto, invece, capitò molto tempo dopo, il cinque giugno duemilaquattordici.
«Eccola, è lei» annunciò Mel, additando sullo schermo la foto di una ragazza in posa su una battigia dorata.
«Costanza “Coco” Ferrari» lessi ad alta voce. «Procediamo?».
Melinda acconsentì vigorosamente, mentre dilaniava con gli incisivi i resti di una manicure non molto recente. Si controllava strenuamente, ma si vedeva che il rancore le attanagliava lo stomaco più del solito. Rifiutava anche di darmi spiegazioni precise, ma Scheggia mi aveva già spifferato tutto: Melinda aveva preso una sbandata pazzesca per un tale, però lui aveva preferito ‘Coco’. Conoscendo la mia socia a delinquere, era già un miracolo che non avesse sostituito l’immagine di profilo della Ferrari con l’effigie di un gorilla grasso e peloso.
«Non voglio vedere» si defilò improvvisamente Mel. «Questa troia non pubblica altro che foto del suo culo a pera, mi blocca la digestione. Per stavolta fottila tu al posto mio».
La accontentai, glissando sulla profonda incertezza che trapelava dalla sua volgarità, e rimasi sola.
Scorsi il profilo di Costanza Ferrari come avevo fatto con innumerevoli altri, invidiai i quasi quattromila follower che aveva collezionato ‒ io, col mio account regolare, faticavo a raggiungere il centinaio ‒ e i numerosi messaggi di ragazzi che intasavano la schermata delle chat. Uno dei pretendenti di Coco le scrisse proprio mentre cominciavo l’hackeraggio ed io, per un attimo, bloccai tutto, incapace di abbassare le dita sulla tastiera. Quel tipo, un certo Mattia Castagna, era bello da morire e voleva chattare con me. O meglio con Costanza, ma in quel momento Costanza ero io.
Avevo due possibilità ‒ chiudere immediatamente la pratica o dare corda a quello sconosciuto ‒ ed incautamente risposi.
Ho chattato con Mattia per cinquantanove giorni, tre ore e ventitré minuti. Gli scrivevo quando tornavo da scuola, dopo cena o prima di addormentarmi, e lui era sempre lì, pronto a parlare con me. Non sembrava mai scocciato e non mi trattava con sufficienza, anzi pareva quasi che gli piacessi. Lui, senza dubbio, piaceva a me.
«Ripetimi che cosa ci trovi in un tipo che non hai mai visto» mi rimproverava saltuariamente Melinda.
«È gentile, simpatico, e sa come prendermi» partivo in quarta, sorridendo come un’ebete, ed era tutto vero. Mattia aveva sempre la battuta giusta, quella che sdrammatizzava quando avevo il morale a terra o ironizzava quando ero furiosa. Mi faceva sentire speciale e, quasi senza che me ne accorgessi, diventò la prima persona che cercavo ogni mattina, quando mi connettevo per diventare Costanza senza nemmeno aspettare che la colazione fosse in tavola. Nel mio cuore lui era più reale di chiunque mi fosse vicino e mi piaceva pensare, leggendo i suoi messaggi, che finalmente qualcuno mi amasse.
Poi, il tre agosto duemilaquattordici, Mattia mi chiese di uscire. Voleva vedermi, incontrare Costanza, ma io ero Mandy. I miei capelli erano corti e color paglia, assolutamente privi dei riflessi ambrati di quelli della Ferrari, ed io, così scoordinata e impacciata, non sarei mai stata all’altezza della situazione. In quel frangente, a nulla sarebbero valsi l’esperienza e il sangue freddo di Mercoledì, perché oltre lo schermo c’era solo Mandy.
Ignorai il fatidico messaggio e cancellai una volta per tutte il profilo di Costanza, l’ultimo atto di Mercoledì, il mio centotrentasettesimo hackeraggio. Solo che, stavolta, le pagine di felicità erano le mie. E faceva male, molto male.
«Mi mancherai»; Melinda sembrava insolitamente commossa, mentre fissava insieme a me il tipico codice di errore sul monitor, quello che di solito decretava il buon esito di una missione.
«Non posso credere che finisca così, eravamo una grande squadra… Sei sicura di voler mollare?».
Annuii con un cenno del capo, lottando invano contro un nodo alla gola che mi impediva di pronunciarmi diversamente.
«Va bene» si rassegnò alla fine lei. «Se ci ripensi, passa al liceo Dante e chiedi di Melissa Maffei, è il mio vero nome».
La mia testa, in automatico, si piegò di nuovo in avanti e Melissa mi allungò distrattamente un pacchetto rettangolare. Lo afferrai con circospezione, ma lei non aspettò che lo aprissi. Quando estrassi un piccolo taccuino viola, era già fuori dal pub.
Da quel giorno abbandonai l’hackeraggio e i sabotaggi virtuali. Di Mercoledì ho mantenuto esclusivamente l’ossessione per i numeri: oggi sono quindici settimane e tre giorni che sto con Giacomo. Lui ha conosciuto Mandy nella vita reale, senza riserve, e nel taccuino viola, tra le mie autentiche pagine di felicità, il suo nome compare ben sessantasette volte.

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