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TELESCOPE | racconti da lontano #161

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TELESCOPE | racconti da lontano #161

EDITORIALE

Lo sapete che sulla superficie di Plutone esiste una catena montuosa di ghiaccio che si chiama Tenzing Norgay? E soprattutto sapete chi è Tenzing? Era un alpinista indiano-nepalese di etnia sherpa che salì sull’Everest sette volte raggiungendone per primo la cima, come membro di una grande spedizione britannica diretta dal colonnello John Hunt, con il collega neozelandese Edmund Hillary, il 29 maggio del 1953. Sulla vetta della montagna Tenzing lascia le bandiere di Nazioni Unite, Gran Bretagna, Nepal e India, una matita blu e rossa della figlia Nima, un pacchetto di caramelle come simbolo di amicizia, un gattino di pezza donato dal colonnello Hunt e, come offerta per gli dèi, cioccolata e biscotti.

Edmund e Tenzing furono amici tutta la vita, nonostante le polemiche montate da politici e giornalisti nepalesi che rivendicavano Tenzing come elemento determinante dell’impresa; per tacere delle polemiche i due firmarono persino una dichiarazione in cui affermavano di essere arrivati insieme. Anni dopo, con grande onestà, l’esploratore disse di essere arrivato in cima dietro a Hillary, perché in quel momento era il suo turno di aprire la strada, e che per chi va in montagna non avevano senso quelle polemiche e non si sentiva affatto sminuito. Ricoperto di onori in Nepal, India e Gran Bretagna, alla fine della carriera di alpinista si dedica alla comunità sherpa, alla formazione e alla tutela dei portatori, e dirige l’Istituto Himalayano di Alpinismo di Darijeeling nonostante non sapesse quasi scrivere, pur parlando o comprendendo la lingua Sherpa, il Nepalese, l’Urdu, l’Hindi, i dialetti del Pakistan, l’Inglese e anche un po’ di Italiano e Francese. Alla sua morte, il 9 maggio 1986, gli vennero tributati funerali di stato e il corteo funebre occupò per chilometri le strade di Darijeeling.

“Viaggiare, sperimentare e imparare: questa è la vita”, diceva.

In questa centosessantunesima edizione di TELESCOPE, la nostra newsletter settimanale dedicata alle istituzioni e ai progetti culturali di cui siamo portavoce, tra i RACCONTI trovate un’introduzione, parte della guida alla mostra, del direttore di Museion Bart van der Heide dedicata a Me, We di Shimabuku; un testo di Donatella Giordano, contributor e curatrice del podcast Monologhi al Telefono di Artribune, sulla mostra organizzata da FENDI in collaborazione con la Fondazione Arnaldo Pomodoro, Arnaldo Pomodoro. Il Grande Teatro delle Civiltà, in corso al Palazzo della Civiltà Italiana a Roma; un testo di Maria Marinelli, giornalista e storica dell’arte, su Dramoletti, la mostra di Diego Marcon al Teatro Gerolamo di Milano prodotta dalla Fondazione Nicola Trussardi.

Tra i VIDEO, un racconto della mostra di Gianni Colombo A Space Odyssey in corso da GióMARCONI a Milano, e una breve presentazione della mostra di Davide Rivalta Sogni di Gloria, realizzata da Fondazione Brescia Musei nei giardini del Castello di Brescia.

Tra gli EXTRA la presentazione degli autori protagonisti della ventisettesima edizione di Festivaletteratura Mantova; MELMA, la mostra di Nico Vascellari al Forte Belvedere di Firenze a cura di Sergio Risaliti, direttore del Museo Novecento, promossa dal Comune di Firenze e organizzata da MUS.E; e la mostra di Edoardo Dionea Cicconi e Andreas Diaz-Andersson organizzata da Cadogan Gallery a Palermo.

In questo numero anche un BONUS TRACK dedicato alla nuova puntata di Radio GAMeC 30 che vede protagonista l’artista, scrittore e attivista Abdul Wasi Rahraw Omarzad.

Buona lettura.

Lo staff di Lara Facco P&C

#TeamLara

Vi ricordiamo che l’archivio di tutte le edizioni di TELESCOPE è disponibile su www.larafacco.com

TELESCOPE. Racconti da lontano

Ideato e diretto da Lara Facco

Editoriale e testi a cura di Annalisa Inzana

Ricerca ed editing Camilla Capponi, Alberto Fabbiano, Martina Fornasaro, Marianita Santarossa, Claudia Santrolli, Denise Solenghi, Carlotta Verrone, con la collaborazione di Margherita Animelli, Nicolò Fiammetti, Andrea Gardenghi, Anna Pascale, Silvia Pastoricchio, Alessandro Ulleri, Margherita Villani e Marta Zanichelli.

domenica 18 giugno 2023


RACCONTI

Introduzione a Me, We la mostra di Shimabuku da Museion, di Bart van der Heide

Con opere profonde e stimolanti, Shimabuku incanta il pubblico sondando il tema dei rapporti e della condivisione. Sin dal diploma all’Osaka College of Art e dai primi passi di un percorso artistico personalissimo, al cuore del suo lavoro c’è sempre stata la libertà intellettuale. Anche se più volte ha scelto di essere un outsider quanto a tempistiche, situazioni, tecniche e concetti di natura e cultura, il suo lavoro è testimonianza della convinzione che la libertà non debba mai manifestarsi a spese di altri o altre. Invece di sottolineare le differenze, dà significato all’affettività.

Ai suoi esordi, Shimabuku prese parte alla svolta verso l’internazionalizzazione che affascinò il mondo dell’arte negli anni Novanta. Una rete di artiste e artisti emergenti riuscì a spostare l’attenzione dalla produzione di oggetti d’arte alle interazioni sociali innescate dalle opere. Il giudizio estetico non era più basato sui classici parametri di tecnica e concettualizzazione, ma sulle emozioni, sui ricordi e sull’intimità che si sviluppavano tra le persone. Shimabuku si può considerare una figura chiave di questa generazione ma anche un artista che si distingue da tutti gli altri. La sua opera è unica nel senso che estende queste interazioni al di là dei rapporti umani. Nella conversazione con l’artista Haegue Yang, Shimabuku spiega che il titolo della mostra di Bolzano Me, We si può anche considerare metafora della sua pratica artistica. Ognuna delle opere nasce da un momento di stupore personale, come un’idea, una poesia, il desiderio di un incontro. Attraverso un dialogo con l’ambiente immediatamente circostante, l’intimo diventa pubblico nel momento in cui l’artista mette in atto i suoi pensieri. Alla fine, la documentazione di questi incontri, in forma di fotografia, video o scultura, è presentata nello spazio espositivo come dichiarazione pubblica. Shimabuku: “Se prendiamo una canzone d’amore, è ancora più chiaro. Una canzone d’amore è privata, ma poi diventa di tutti e tutte. Mi sembra che anche la mia arte […] sia sempre così”.

La nuova mostra di Shimabuku a Museion rappresenta la più completa rassegna antologica del suo lavoro fino ad oggi. L’artista trasforma quindi una canzone d’amore in una storia d’amore, con un filo conduttore, “l’appaiamento”. Riesce a compiere abbinamenti tra una vasta gamma di entità: oggetti, animali, frutti, storie e geografie globali. L’originalissima visione di Shimabuku confonde i confini tra queste entità, creando un effetto di rispecchiamento e mutua esaltazione. Nel regno di Shimabuku non c’è una scissione tra dentro e fuori; al contrario, il suo tentativo è indagare le interazioni tra queste due dimensioni. Come spiega lui stesso: “Voglio scoprire che cosa succede quando lo spazio interno e quello esterno si trovano uno di fronte all’altro”. Il risultato è spesso surreale, ironico, eppure ribadisce sempre un sostanziale senso di unità e interdipendenza.

In un mondo in cui parlare dell’impatto umano sull’ambiente spesso comporta una certa dose di manicheismo, l’opera di Shimabuku presenta una narrazione alternativa di cui c’è grande bisogno. La sua arte propone una visione dell’umanità che non è né egocentrica ed esclusiva, né improntata allo sfruttamento. Al contrario, le sue azioni mettono in luce la semplice magia della coesistenza quotidiana e la bellezza dell’interazione, senza il bisogno di scegliere una cosa o l’altra. Di conseguenza, l’opera di Shimabuku resta di assoluta attualità. Offre una prospettiva fresca sull’interazione degli esseri umani con il loro habitat, che enfatizza l’importanza di farsi specchio dell’altro rispecchiando, in realtà, se stessi.

Crediti: Shimabuku. Me, We, installation view, Museion 2023. © Luca Guadagnini


Arnaldo Pomodoro. Dal negativo alla fusione della forma, di Donatella Giordano

Paul Klee, artista attivo nella prima metà del Novecento, sosteneva che: «Tutta l’arte è un ritorno all’origine, è nell’oscurità, i suoi frammenti vivono sempre nell’artista». Una visione che non considera l’inizio dell’arte come un momento che appartiene a una determinata epoca ma come un’esperienza rintracciabile anche nel presente e nel futuro. La ricerca di Arnaldo Pomodoro, in questo senso, sembra proprio voler riattivare l’origine iniziale nel tempo. L’artista, sin dai primi esperimenti realizzati con la tecnica di fusione con l’osso di seppia, esplora i codici di una scrittura primitiva atemporale che guarda ai graffiti primordiali, ai testi ittiti e sumeri o ai papiri egizi. Un percorso che si proietta man mano nello spazio per esercitare una tendenza architetturale che dal rilievo porta alla forma tridimensionale.

Gli oltre settant’anni di ricerca di Pomodoro indagano l’ambito delle arti visive, sceniche e drammaturgiche, a stretto contatto con la storia e la mitologia. La mostra al Palazzo della Civiltà Italiana di Roma, concepita come un grande teatro autobiografico, traccia l’aspetto speculare di un lavoro progressivo che però può andare avanti e indietro nel tempo e nello spazio. Le due sale, collegate da un passaggio centrale, suggeriscono una lettura da intendersi come un’opera in due atti e un intramezzo, percorribili come un eterno ritorno che fa coincidere l’inizio con la fine. Le opere sono esposte come a voler delimitare un confine quadrangolare diviso al centro da un vestibolo che antepone due costumi realizzati dall’artista per due opere teatrali: “Costume di Didone” e “Costume di Creonte”. Dalla sala iniziale, il primo lato del quadrato sembra sondare i concetti chiave di rottura, battaglia e tensione che minano la perfezione dei solidi geometrici. In fondo allo spazio la “Grande tavola della memoria” mostra una pluralità di segni rivelatori. Il corridoio stretto sulla sinistra accompagna il passo verso il secondo lato del quadrato dove una doppia visione, dentro e fuori, mostra da una parte ventuno rilievi calcografici e dall’altra la “Rotativa di Babilonia”, una ruota in fiberglass che suggerisce una possibile inversione di marcia. Muovendosi nel quadrilatero si accede alla seconda sala, dalle tonalità più chiare. Qui “Movimento in piena aria e nel profondo” evoca una nuova esperienza scultorea più dinamica, che vuole curvare quantisticamente il tempo e lo spazio. Un’ultima scultura in fondo, realizzata nel 2010, appare come una porta dimensionale. “Continuum”, infatti, rimette in circolo l’intero viaggio esplorativo ribaltando il finale verso l’incipit. I due ambienti si completano con materiali d’archivio e documenti consultabili dal pubblico. La mostra può terminare dall’inizio ridisegnando nuovamente il percorso dall’esterno del “Colosseo Quadrato”, alla scoperta delle quattro “Forme del Mito”, sculture realizzate per il ciclo teatrale dell’artista Emilio Isgrò ispirato all’Orestea di Eschilo, svoltosi a Gibellina nel 1983.

Crediti: Arnaldo Pomodoro. Il Grande Teatro delle Civiltà. Installation view, Palazzo della Civiltà Italiana, Roma, 2023. Ph: Agostino Osio. Courtesy FENDI e Fondazione Arnaldo Pomodoro


Natura e artificio, di Maria Marinelli

Prossimo alla fine, ma senza fine: è la condizione umana universale che il piccolo Ludwig (2018) ci ricorda in modo tragico, nella sala buia centrale del Teatro Gerolamo di Milano, illuminata da un fiammifero mai acceso fino in fondo. Solo, su una barca, in balia della tempesta, il bambino del video di Diego Marcon – artista a cui la Fondazione Nicola Trussardi dedica la prima antologica in Italia (fino al 30 giugno) – è un Pinocchio dei giorni nostri, esposto a un destino precario, sul punto di non farcela, ma costretto a resistere perché nessuno ha il coraggio di mettere un punto a questa storia. Tra le alte onde del mare, però, non lo accolgono né Geppetto, né il ventre enorme della balena, ma si culla da solo con una dolce nenia che recita Vorrei tirar le cuoia, espressione straniante se si pensa che a cantarla è un bambino.

Il tema dell’assenza o della perdita, centrale nei Dramoletti di Thomas Bernhard, tra i massimi autori del Novecento, da cui la mostra prende il titolo, ci porta a un altro video, Parents’ Room (2021), già esposto all’ultima Biennale d’Arte di Venezia. È il ritratto dell’assenza umana, ma anche dell’assenza di narrazione, tra canti nostalgici e tragici – le parole della canzone raccontano dell’omicidio della moglie e dei figli e del suo prossimo suicidio –, letti disfatti e stanze disadorne. L’unico elemento non umano, il merlo, restituisce umanità a tutta la scena che, grazie all’eccentricità dei personaggi iperrealistici, diventa quasi ironica.

Complice il prolungato silenzio, di questo mondo avverso e familiare si finisce per sentirsi parte, come protagonisti e spettatori, fragili ma allo stesso tempo colpevoli. Questa attraente repulsione pervade il visitatore fin dagli inizi del percorso, a partire dal piano inferiore del teatro dove è esposto Il malatino, un video del 2017 in cui un bambino febbricitante nel letto respira a fatica; continuando a guardarlo, però, l’empatia cede il posto all’indifferenza, perché ci si concentra solo sulla ripetizione del messaggio.

Al tema dell’infanzia, che spesso torna nelle opere di Marcon come categoria indifesa, vulnerabile, alludono i bozzetti dei letti vuoti (2023), esposti nella biblioteca accanto alle marionette, un tempo protagoniste di questo luogo magico.

Dolore e ironia viaggiano insieme e sono la chiave rappresentativa della nostra società, fatta di maschere che nascondono i più beceri istinti, come i personaggi di Bernhard. Creature mostruose che cadono nel sonno in un movimento perpetuo (Untitled, 2015), momento di passaggio a un’altra dimensione. Meister, nell’opera Germania, ci ricorda le parole di Stieglitz, ovvero che “in ogni opera c’è il fallimento / ma se abbiamo la grazia e lo portiamo a compimento / ci addentriamo come in una miniera / e scaviamo e scaviamo e riportiamo alla luce qualcosa”.

L’incursione di Marcon al teatro Gerolamo si inserisce nella programmazione, curata da Massimiliano Gioni, che la Fondazione Nicola Trussardi porta avanti a Milano dal 2003 attraverso iniziative che hanno volutamente un carattere effimero, a partire dalla durata breve. Tra quelle rimaste nella storia le sculture umane di Tino Sehgal nelle sale di Villa Reale che danzavano cantando a ripetizione This is so contemporary di fronte ad un pubblico incredulo (2008), l’intervento di Paul McCarthy a Palazzo Citterio dove un enorme scultura, per metà George W. Bush e per metà maiale, dava il benvenuto sull’Isola dei porci (2010), e i video di Fischli & Weiss a Palazzo Litta nei quali la banalità, declinata in infinite variazioni, finiva per diventare interessante (2008).

Crediti: For all images: Installation view of the exhibition DIEGO MARCON, Dramoletti organized by Fondazione Nicola Trussardi and curated by Massimiliano Gioni at Teatro Gerolamo, 2023. Ph Andrea Rossetti. Courtesy Fondazione Nicola Trussardi, Milano 1. Diego Marcon, Ludwig, 2018 [still]. Video, CGI animation, color, sound loop of 8’14’’ Credit: © Diego Marcon. Courtesy Sadie Coles HQ, London | 2. Diego Marcon, The Parents’ Room, 2021. 35mm film transferred to digital, CGI animation, colour, sound, loop of 6’23’’. Courtesy the Artist and Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, Naples. Supported by Italian Council (2019) | 3. Diego Marcon, Ludwig, 2018 [still]. Video, CGI animation, color, sound loop of 8’14’’ Credit: © Diego Marcon. Courtesy Sadie Coles HQ, London | 4. Diego Marcon, Untitled 01, 02, 03 (Dolle; Sketches for the Moles’ Bed), 2023. Pencil, ink, and highlighter on paper 210 x 148 mm . Courtesy the Artist and Sadie Coles HQ, London | 5. Diego Marcon, Untitled (Head falling) (02), 2015 .16mm film, colour, silent; fabric ink, permanent ink, and scratches on 16mm clear film leader loop of 10’’ each. Courtesy the Artist and Sadie Coles HQ, London | 6. Diego Marcon, Il Malatino, 2017 [still]. 16 mm film, colour, silent. dur: 23 min, looped. Credit: © Diego Marcon. Courtesy Sadie Coles HQ, London


VIDEO

Un nuovo spazio e un nuovo tempo

Tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento l’arte e il cinema misero in discussione lo Spazio e il Tempo come fino a quel momento erano stati considerati, come già facevano la fisica e la fantascienza. Uno dei protagonisti di questa rivoluzione fu Gianni Colombo, scomparso trent’anni fa, che con le sue opere di Arte Cinetica ci fa riflettere ancora oggi sul nostro modo di abitare il mondo. Le atmosfere da 2001 Odissea nello Spazio, il film di Stanley Kubrick uscito al cinema proprio in quegli anni (1968), le ritroviamo anche nella mostra Gianni Colombo. A Space Odyssey a cura di Marco Scotini da GióMARCONI a Milano. Questo servizio realizzato per Artbox programma televisivo di La7, ci accompagna alla scoperta della mostra.

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Crediti immagine: GIANNI COLOMBO. A Space Odyssey Curated by Marco Scotini 12.05. –17.07.2023 Installation view Gió Marconi, Milan Photo: Fabio Mantegna

Crediti video: 3D Produzioni


Noi e la Natura

In questo video un breve assaggio della mostra di Davide Rivalta Sogni di Gloria a cura di Davide Ferri, che fino al 7 gennaio 2024 realizzata negli spazi del parco del Castello di Brescia da Fondazione Brescia Musei. Quattordici sculture monumentali in bronzo, un nuovo nucleo di opere inedite raffiguranti diverse specie di primati, colonizzano le zone verdi, i passaggi sotterranei, le aree intorno alle mura dell’edificio storico, uno dei più affascinanti complessi fortificati d’Italia, il secondo più grande d’Europa. Ogni famiglia di animali occupa una specifica zona del parco che così diventa idealmente un territorio di conquista, come rivela anche il titolo della mostrae le posture degli animali. La mostra racconta il rapporto dell’artista con la Natura, ma anche di paesaggi lontani e selvaggi, di libertà, dignità e vita suggerendo, attraverso la mediazione dell’arte, la possibilità di un diverso rapporto tra noi e gli animali.

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Crediti immagine: Davide Rivalta, Sogni di gloria, installation shot. Photo credit: Ela Bialkowska OKNO Studi

Crediti video: Davide Rivalta, Sogni di gloria. Credit: Simone Rigamonti. Courtesy: Fondazione Brescia Musei


EXTRA

Aspettando settembre

Martedì 20 giugno nei Giardini di Palazzo Te (in caso di pioggia nella Sala dei Cavalli), Mantova scalda i motori in vista della ventisettesima edizione di Festivaletteratura, in programma dal 6 al 10 settembre 2023. È arrivato infatti il momento di conoscere i nomi dei protagonisti che incontreremo all’edizione 2023, sui palchi e per le vie della città, e anche i temi e le novità della manifestazione. Una serata che è anche l’occasione per rinnovare o sottoscrivere la propria adesione all’Associazione Filofestival offrendo un prezioso sostegno all’attività del Festival. Il termine ultimo per il rinnovo del tesseramento è fissato per il 15 agosto, mentre chi vuole presentare domanda per svolgere servizio di volontariato al Festival ha tempo fino al 3 luglio. Vi aspettiamo!

*Sarà possibile seguire la serata anche in streaming, attraverso il canale Youtube di Festivaletteratura

Crediti: Courtesy Festivaletteratura


MELMA

Dal 24 giugno all’8 ottobre 2023 il Forte Belvedere ospita MELMA, la mostra di Nico Vascellari a cura del direttore del Museo Novecento Sergio Risaliti, organizzata da MUS.E e promossa da Comune di Firenze, prima tappa di un grande progetto dell’artista per la città. In mostra una selezione di opere – video, sculture, collage, installazioni e suono – alcune inedite, realizzate per questa occasione; oltre trenta lavori che, giocando su registri molto diversi, offrono una panoramica della poetica di Vascellari concentrandosi soprattutto sulla relazione tra uomo e natura, tra esistenza e trascendenza. A ottobre la mostra si espande in alcuni dei luoghi cittadini più prestigiosi: Piazza della Signoria, Palazzo Vecchio e il Museo Novecento, che ospiteranno alcune opere, tra cui una nuova installazione per l’Arengario, una performance per il Salone dei Cinquecento e una serie di lavori nella sede delle ex-Leopoldine.

Crediti: ph. Mattia Zoppelaro


Cadogan va a Palermo

Edoardo Dionea Cicconi e Andreas Diaz-Andersson sono protagonisti dal 23 giugno all’8 luglio 2023 di una mostra immersiva organizzata da Cadogan Gallery negli spazi di un palazzo barocco in Via Vittorio Emanuele a Palermo. La mostra, a cura di Georgina Pounds, mette insieme alcune nuove opere dell’artista svedese-messicano con quelle dell’artista italiano, sviluppando una collaborazione già attiva grazie a una mostra realizzata insieme all’inizio dell’anno a Città del Messico. La mostra occupa tre spazi del palazzo di fronte alla Cattedrale di Palermo e vede gli Specchi Cinetici di Dionea Cicconi in dialogo con le tele geometriche di Diaz-Andersson: la natura super contemporanea di questi lavori contrasta con la bellezza antica dello spazio espositivo, conducendo il pubblico in un’esperienza senza tempo in cui i riflessi e l’illusione ottica invitano a osservare con maggiore attenzione.

Crediti: Ph: Edoardo Dionea Cicconi. Courtesy: Cadogan Gallery.


BONUS TRACK

Radio GAMeC 30 #23

In un mondo ancora alle prese con le difficoltà della pandemia, il 2021 si apre con i sostenitori di Donald Trump che attaccano il Campidoglio contestando l’elezione di Joe Biden. Nel mese di marzo avviene l’incontro storico tra Papa Francesco e il Grande Ayatollah Ali al-Sistani a Najaf, in Iraq, e il Canale di Suez viene ostruito a causa dell’incagliamento della portacontainer Ever Given. Il 2021 è anche l’anno dell’esponenziale incremento di eventi catastrofici legati al cambiamento climatico: dagli incendi in Canada e in Grecia alla straordinaria ondata di calore in Nord America; dalle alluvioni in Belgio e Germania agli uragani negli Stati Uniti e in Venezuela. E mentre i leader mondiali si pongono ambiziosi obiettivi per la riduzione dei gas serra, il governo giapponese riversa nell’Oceano Pacifico le acque contaminate dell’impianto nucleare di Fukushima. Tra gli eventi cruciali in ambito politico, nel mese di agosto i Talebani tornano al potere in Afghanistan dopo vent’anni di presenza americana sul territorio: discutiamo di questo momento storico con l’artista, scrittore e attivista Abdul Wasi Rahraw Omarzad, professore all’Università di Kabul e fondatore di CCAA–Center for Contemporary Art Afghanistan a Kabul e del Women’s Center for the Arts in cui molte giovani artiste afghane si sono formate.

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