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Un cuore siberiano, intervista a Nicolai Lilin

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Un cuore siberiano, intervista a Nicolai Lilin

Dopo aver raccontato in “Educazione siberiana” l’epopea di un giovane criminale della sua terra, Nicolai Lilin decide di raccontare se stesso, tra infanzia, adolescenza e giovinezza da bullo, memoria familiare e infine venuta in Italia. E lo fa in un bel libro in brossura ricco di foto, disegni, immagini d’epoca, candidato naturale alla strenna. “Un tappeto di boschi selvaggi. Il mondo in un cuore siberiano” (Rizzoli, pp. 222, 28 euro). E’ la storia anche di un mondo speciale, fatto di un contatto stretto con le forze della natura, con la violenza, pervaso di sciamanesimo.

“La Siberia non è un’appendice ma un crocevia. Ha subito delle conquiste ma siamo anche dei conquistatori di altri mondi, e portiamo dentro il nostro modo di vivere il mondo. La nostra visione è legata alla natura, al rapporto con le armi, al sangue, mentre qui non si usa portare un’arma. Tutto questo insieme crea quel cuore siberiano che si fa sentire nella relazione con gli uomini e le cose”.

Lei ha un rapporto molto forte con le armi, si è fabbricato dei coltelli da solo, poi ha preso parte alle azioni contro i terroristi ceceni.

Sì, dal 1992 mi sono trovato in guerra. Prima di essere operativo nell’esercito russo, abbiamo eseguito una serie di passaggi, allenandoci nelle montagne, e imparando a comportarci come i terroristi ceceni. Abbiamo anche compiuto la pulizia dei luoghi di attentati terroristici. Ho capito poi che era utile a comprendere che queste persone non erano umane ed era facile annientarle. Quando ho assistito al mio primo attentato a un asilo, uno degli ordigni per fortuna non è esploso. Mi hanno portato la testa di un terrorista, tutta bianca e con gli occhi neri. Ho capito il pericolo delle idee che può trasformare un giovane in questo. Ho visto anche persone che impazzivano davanti ai miei occhi, come un padre a cui hanno spiegato che la moglie e il bambino erano stati ammazzati. Gran parte dei quadri Isis sono reduci ceceni. Considerando i fatti tristi accaduti a Parigi non ho dormito la notte. Quello che mi ha stupito è che non una tra tutto queste persone abbia resistito sparando. Io non riesco a vivere come un bersaglio mobile. L’unica cosa che mi può salvare è una pistola allacciata a una cintura.

Il racconto delle vite dei suoi nonni è molto bello e interessante. Tra questi spicca quello della nonna Ada, che girava armata anche lei…

Il primo ricordo forte che ho di mia nonna è che nella borsa portava una Luger P08. Era un calibro difficile da trovare. Mia nonna era gobba, ebrea. Mio nonno era cristiano ortodosso e non voleva che diventassi ebreo. La nonna era finita nel campo di sterminio e 13-14 anni, le avevano sterminato la famiglie. Era finita in un reparto in cui le ragazze erano usate come donne di piacere, e un tedesco la vestiva da bambola e le diceva di non muoversi. Mia nonna sapeva accontentarlo e lui ha cominciato a fidarsi di lei e a farla uscire dal campo. Ma lei seguendo le istruzioni che le aveva dato un uomo lo ho colpito con un punteruolo e ucciso. E’ stata ritrovata da un polacco, è stata sua amante per un certo periodo e poi ha ucciso anche lui. In seguito ha incontrato mio nonno, che era un delinquente, in un lager sovietico. Mia nonna rubava al mercato, per lei era una sorta di vendetta delle ingiustizie della vita. Era critica verso il sionismo ma mandava terreno fertile nei kibbutz.

Lei ha un rapporto molto forte con la lettura, ha rivendicato addirittura in ciabatte di essere ammesso alla biblioteca degli adulti quando era bambino

Sì percepivo questo limite come una grande ingiustizia, anche perché ero di classe bassa, e ho minacciato la direttrice di bruciarle la macchina. Le ho detto sono un piccolo delinquente, ho già dei precedenti, sono stato in carcere per tentato omicidio. Lei mi ha ascoltato e mi sono portato a casa quattro libri.

Barbara Caputo

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