La fine del mondo (Sara Brayon)

La fine del mondo esiste, e ci sono una panchina, un albero di nocciole e un laghetto. Ci arrivo all’alba e mi metto a guardarla. Mi siedo sullo schienale della panchina come la vera anarchica che sono e poso lo zaino a terra. Sull’albero c’è una campana di bronzo, appesa ad un ramo basso. Tira vento, ma la campana non suona. La superficie del laghetto è increspata e dolorosamente vuota. Ma dove vanno d’inverno le anatre della fine del mondo? Oh Salinger, perdonami perché non so quel che faccio. Ho anche finito le sigarette. Valla a trovare una tabaccheria, qui. Preferisco fissare la fine per un po’ e poi andare per la mia strada.
Il sole non è ancora alto nel cielo quando arriva il gabbiano. Disegna due cerchi nel cielo e si posa sulla panchina accanto a me. «Dovresti iniziare a sederti come una persona civile», mi dice. «Hai quasi 24 anni ormai». Scrollo le spalle. «Non mi pare che ci sia nessuno a lamentarsi qui», gli faccio. Ho voglia di un po’ di polemica, a dirla tutta.
«Ci sono io che mi lamento» fa lui, e mi guarda con la testa piegata di lato.
«Nessuno che possa effettivamente sedersi, intendo».
«Pensala come vuoi. Io posso volare». Un punto per lui. Il nocciolo si muove a tempo col vento, ma la campana non suona. Mi viene in mente una qualche leggenda inglese su un nocciolo e dei cavalieri addormentati, ma è solo un flash e poi passa. Le storie sbiadiscono, qui. Le trame si sfilacciano e i nomi dei personaggi sfuggono alla memoria.
«Cosa sei venuta a cercare qui, ragazzina?».
Prima sono troppo vecchia per sedermi così e poi sono una ragazzina. «Sicuramente non le domande di uno stupido uccello parlante».
«Innanzitutto, se parlo così, stupido non posso essere. Hai mai visto altri uccelli parlare? E basta pensare ai doppi sensi, ripeto, hai quasi 24 anni». Apro la bocca per rispondere ma la replica pungente mi muore in gola. Voglia di fare polemica e tutto, qui si respira un certo senso di sacro. E poi ha ragione, altri uccelli parlanti non ne ho visti.
«Cerco quello che cercano tutti, suppongo» gli dico guardando di fronte a me. «La fine. Volevo vedere com’è il mondo quando l’ultima parola è stata detta, l’ultima decisione presa, l’ultima riserva abbattuta».
«E ti ritieni soddisfatta di quello che hai trovato?». Zampetta verso di me, ma guarda avanti anche lui. È difficile non guardarla, la fine del mondo, quella oltre il laghetto con il nocciolo e la panchina. Ma non so rispondere alla sua domanda. Cosa vuol dire soddisfatta? Si può essere soddisfatti anche quando è la fine?
«Non saprei. Di sicuro sono sorpresa». Mi frugo meccanicamente le tasche. «Di’ un po’, ce l’avresti una paglia?».
«Sono un gabbiano. Secondo te?».
Probabilmente è un “no”. Posso anche resistere. L’uccello comincia a pulirsi con il becco sotto l’ala. «Fa un po’ schifo, lo sai?», «Non più di fumare». Dagli torto. Il vento mi scompiglia i capelli troppo lunghi. D’improvviso mi chiedo se la fine del mondo veda me come io vedo lei. Mi chiedo se mi trova carina.
«Secondo me stai mentendo. Secondo me sei venuta a cercare quello che qui cercano tutti, salvezza».
Sbuffo. «Ma no. Come si può trovare la salvezza nella fine?».
«E dove vuoi trovare qualcosa che duri, se non nelle ultime righe?».
Stiamo in silenzio per un po’. Non si può chiamarla calma, questa, e neanche attesa. Non si può chiamarla e basta. Una volta ero in bicicletta e sono finita sulla striscia bianca tra due autobus che viaggiavano in sensi opposti. Quello che ho provato in quei cinque secondi in cui tutti i passeggeri mi guardavano per vedere se ne sarei uscita indenne è molto simile a quello che provo adesso. Ma non riesco a ricordare che città fosse, e di che colore fosse la bicicletta.
«Nessuno può salvare nessuno, bimba mia. Nemmeno la fine del mondo». Guardo il gabbiano e non è più un gabbiano, è un corvo, è nero e lucido e becchetta vicino alla mia mano.
«Da dove vengo io», dico, «un uomo una volta è morto per salvarci tutti».
«E non poteva restare a dare una mano?».
Il sole nel cielo è già alto. Qui il tempo non passa, e si sbriga a passare. Guardo il corvo e gli sfioro con un dito la testa. Fa un rumore molto simile a fusa. Sono strani i corvi, qui alla fine del mondo.
«E questo cos’è, un bel finale?» chiedo, incapace di trattenermi. «Che cos’è un bel finale?» fa lui, e spicca il volo in un frullo di piume nere. Mentre si alza in cielo diventa un albatro, poi scompare alla vista. D’improvviso, la campana inizia a suonare. Mi alzo e raccolgo lo zaino. «È ora» dico ad alta voce. «Ci vediamo domani».
Poi vado via. E non tornerò mai qui.

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