TELESCOPE | racconti da lontano #187

EDITORIALE

Chissà perché gli astronomi olandesi Kees van Houten (1920 – 2002) e sua moglie Ingrid van Houten-Groeneveld (1921 – 2015) e il loro collega statunitense Anton M. J. (Tom) Gehrels (1925 – 2011) decisero di chiamare uno dei tanti asteroidi da loro scoperti 8121 Altdorfer, come Albrecht Altdorfer (1480 – 1538) uno dei più grandi pittori tedeschi del Cinquecento. Forse la fascia principale – quella regione del Sistema Solare tra le orbite di Marte e Giove, occupata da corpi di forma più o meno irregolare – dove avevano scoperto l’asteroide, ricordava loro il cielo di una delle opere più famose dell’artista, quello della Battaglia di Alessandro e Dario a Isso (1529), un olio su tavola oggi conservato alla Alte Pinakothek di Monaco, che dipinse per il duca Guglielmo IV di Baviera. L’opera, considerata uno dei capolavori del Rinascimento tedesco, non è soltanto uno straordinario esempio di arte di guerra ma è nota soprattutto per la resa della luce e del cielo sopra l’evento storico del IV secolo a.C. L’artista sceglie infatti di dipingere il paesaggio naturale circostante la scena da un punto di vista altissimo, da cui è possibile percepire la curvatura dell’orizzonte terrestre dato dalla sfericità della Terra. La luce dell’alba del Sole a oriente e della Luna in alto a sinistra riempie il cielo di bagliori, riflessi e variazioni che concentrano lo sguardo dell’osservatore sul cartiglio centrale che descrive la scena. E sono la luce, il cielo, la Natura, non il fatto storico, i veri protagonisti dell’opera, tanto che Altdorfer fu tra i primi pittori, dopo Leonardo da Vinci e Durer, a considerare il paesaggio come soggetto pittorico a sé e non semplicemente uno sfondo per altre rappresentazioni. Da questo punto di vista, forse, il fatto di sapere che un asteroide si chiama come lui non è poi così strano.

In questa centottantasettesima edizione di TELESCOPE, la nostra newsletter settimanale dedicata alle istituzioni e ai progetti culturali di cui siamo portavoce, tra i RACCONTI trovate un testo di Marta Santacatterina, storica dell’arte, giornalista e contributor di Artribune, dedicato alla mostra Rubens a Palazzo Te. Pittura, trasformazione e libertà parte del grande progetto Rubens! La nascita di una pittura europea, di Fondazione Palazzo Te, Palazzo Ducale di Mantova e Galleria Borghese; un racconto di Annarita Briganti, scrittrice, giornalista di Repubblica e opinionista televisiva, dedicato alla mostra di Andrea Branzi L’architettura appartiene al teatro alla galleria Antonia Jannone Disegni di Architettura di Milano; un estratto dall’intervista del curatore Daniele Fenaroli all’artista Pietro Moretti, protagonista della mostra Il falò dei gonfiabili, nona edizione del progetto In Pratica della Collezione Giuseppe Iannaccone.

Nella sezione VIDEO proponiamo il racconto di una delle opere protagoniste dell’asta di Arte Moderna e Contemporanea di Cambi Casa d’Aste, e un video dedicato alla mostra Eve Arnold. L’Opera 1950 – 1980 in corso al Museo Civico San Domenico di Forlì.

Infine, tra gli EXTRA segnaliamo la mostra IX (9) del pittore britannico Richard Zinon nella sede milanese di Cadogan Gallery; l’Archivio online di Fondazione Arnaldo Pomodoro che si arricchisce della sezione dedicata alle riviste; e la mostra Villa Lituania del duo Nomeda & Gediminas Urbonas realizzato insieme all’Ambasciata della Repubblica di Lituania a Roma, Ambasciata della Repubblica di Lituania presso la Santa Sede, il Sovrano Ordine di Malta, il Lithuanian Culture Institute e il Mo Museum of Modern Art di Vilnius al Museo delle Civiltà di Roma.

Buona lettura!

Lo staff di Lara Facco P&C

#TeamLara

Vi ricordiamo che l’archivio di tutte le edizioni di TELESCOPE è disponibile su www.larafacco.com

TELESCOPE. Racconti da lontano

Ideato e diretto da Lara Facco

Editoriale e testi a cura di Annalisa Inzana

Ricerca ed editing Camilla Capponi, Alberto Fabbiano, Martina Fornasaro, Marianita Santarossa, Claudia Santrolli, Denise Solenghi, Alessandro Ulleri, Carlotta Verrone, con la collaborazione di Margherita Animelli, Maria Ester Candido, Michela Colombo, Nicolò Fiammetti, Andrea Gardenghi, Agata Miserere, Margherita Villani, Victoria Weston e Marta Zanichelli.

domenica 17 dicembre 2023

RACCONTI

Rubens e i “ritocchini”, di Marta Santacatterina

Ve lo immaginate un giovane artista che oggi acquista un disegno di Pablo Picasso e, invece di metterlo in cornice o in cassaforte, lo ritocca secondo il proprio gusto? Il povero creativo verrebbe tacciato di follia e susciterebbe la riprovazione di tutto il mondo della cultura! Ebbene, il rispetto di ciò che noi definiamo “opera d’arte” non si è sempre fondato sugli stessi criteri e la mostra Rubens a Palazzo Te, curata da Raffaella Morselli e in corso a Mantova fino al 7 gennaio 2024, mette a fuoco un caso interessantissimo, capace di mettere in discussione l’attuale convinzione dell’intoccabilità delle espressioni artistiche.

L’esposizione si pone l’obiettivo di evidenziare lo stretto legame che intercorre tra gli affreschi di Giulio Romano e le opere di Pieter Paul Rubens, il quale ebbe modo di ammirarli e di rimanerne impressionato durante alcuni suoi soggiorni a Mantova. In quel primo decennio del Seicento nell’atelier del più noto allievo di Raffaello erano presenti ancora molti disegni autografi o di suoi collaboratori: Rubens ne acquistò una serie, tra cui il foglio di Giulio Romano raffigurante Ila trasportato dalle ninfe. Ma l’aspetto di quei disegni ora non corrisponde più allo stile del suo primo autore: il fiammingo infatti li ritoccò aggiungendo volumetrie, ombre, lumeggiature. Lo stesso fece nel caso delle grandi carte su cui la cerchia dell’artista romano aveva copiato le decorazioni della Sala degli Stucchi di Palazzo Te: con inchiostro acquerellato Rubens diede vigore al chiaroscuro, apportò correzioni alle zampe dei cavalli, rese più drammatiche le ombre. Insomma diede una veste barocca a delle opere realizzate almeno settant’anni prima. Una pratica ben documentata anche da fonti settecentesche, come testimonia lo scrittore d’arte, collezionista e libraio Pierre-Jean Mariette: “Quando Rubens trovava dei disegni mediocri oppure mal conservati, copie dai grandi maestri, gli piaceva ritoccarli secondo i suoi propri principi. Li trasformava così secondo il suo proprio gusto, in modo che, invenzione a parte, questi disegni devono essere intesi come prodotti di questo gentiluomo”.

Ma perché Rubens metteva mano ai disegni altrui? È senz’altro da escludere che volesse migliorarli o modernizzarli per aumentare il loro valore di mercato, dal momento che non li vendette mai. È quindi verosimile, e lo sottolinea Luca Siracusano nel catalogo, che il pittore di Anversa usasse quei fogli come “esercizio” di studio per imparare dai maestri e assimilare il classicismo scoperto grazie al Rinascimento e al Manierismo italiani. Fece così propri gli stili dei pittori ammirati e le storie – in primis quelle degli antichi Romani – a cui tante volte si ispirò nei suoi dipinti, come dimostrano le tele protagoniste dell’allestimento a Palazzo Te.

I “ritocchini” di Rubens stimolano quindi intriganti riflessioni, che potrebbero pure estendersi ad altre tematiche: ad esempio al valore delle opere nel passato o alla diversa considerazione che, secoli fa, vigeva rispetto alle copie.

Crediti: Rubens a Palazzo Te. Pittura, trasformazione e libertà. Installation view. Ph. Gian Maria Pontiroli © Fondazione Palazzo Te

Nelle parole di Andrea Branzi, di Annarita Briganti

L’architettura appartiene al teatro, come s’intitola la sua ultima mostra, fino al 23 dicembre alla Galleria Antonia Jannone di Milano, e Andrea Branzi apparterrà per sempre a tutte le persone che amano la bellezza, l’avanguardia, la passione per un lavoro che dev’essere un’inclinazione. Architetto, designer, teorico, docente, Branzi, scomparso il 9 ottobre di quest’anno, ha lavorato fino alla fine (terrena). L’esposizione, molto bella, da Antonia Jannone è stata inaugurata il 3 ottobre.

Ho scelto di ripercorrerla con il suo sguardo, con le sue parole.

Iniziamo dalla sezione Maschere, dove Branzi ha riprodotto opere di Ensor, Munch e Klimt. “M’interessa questo” diceva l’artista. “Non fermarsi ai capolavori, ma trasformarli in sorprese impreviste, come in una danza teatrale all’interno di un teatro provvisorio”.

Ci spostiamo poi, con lo splendido giardino sullo sfondo e un bicchiere di succo di pompelmo, nella sezione Buratti e Filastrocche. “Attori di un teatro felice, privo di tragedie, disposti a inventare nuove emozioni” li definiva, lui che amava i teatrini ambulanti. Buratti e burattini, maschere, pupi, marionette, realizzati benissimo, per “riempire il vuoto della narrazione contemporanea”. Protagonisti di una narrazione che, volutamente, non desidera spaventare nessuno, ma, anzi, strapparti un sorriso.

Davanti all’opera Barbablu c’è una candela, che arde. È, per citare sempre Branzi, “un grande giardino ellittico che si chiude su se stesso in una modernità disperata e pessimista”.

Menzione speciale per la scenografia, con tanto rosso, del balletto Casanova: un grande armadio da sacrestia, le ante aperte che accoglievano le scene dello spettacolo.

Entrando nella Galleria di Antonia Jannone, che era una sua grande amica e anche di Gae Aulenti, troviamo un’altra parte della mostra di Andrea Branzi, dedicata agli Archetipi, per riflettere sull’architettura di ieri, oggi e domani. “L’architettura civile vive una crisi di credibilità” sosteneva Branzi. “Il suo rapporto con la società si è progressivamente logorato. E la società vive una profonda crisi. In questo contesto la riflessione sugli archetipi, sulle strutture primarie, è fondamentale perché sono un materiale da reinventare, da indagare nella profondità della nostra mente”.

La sua Torre Velasca, pure esposta, in più versioni, può essere anche viola in base ai colori delle stagioni, per reinventare, per creare nuove emozioni.

Crediti: Andrea Branzi, ENSOR 6 da “Le maschere davanti alla morte” 1888, 2022, con cornice dipinta ©Leone Locatelli; Andrea Branzi, Barbablu, Disegni per la scenografia dell’opera di Bela Bartok coreografia di Karole Armitage Teatro Nazionale di Nancy, 2002, litografia lythos; Andrea Branzi, BURATTI MARUSCO, 2019, feltro stoffa legno; Andrea Branzi, Disegni per la scenografia di “Casanova”, coreografia di Karole Armitage, Teatro Comunale di Firenze, 1998. Teatro Antico di Taormina, 2000, collage e pennarello su carta.

Il falò dei gonfiabili. Dialogo tra Pietro Moretti e Daniele Fenaroli*

DF. Pietro, mi sembra di notare che nella Tua produzione non esista mai un’opera solitaria ma piuttosto una serie di opere legate da un filo conduttore unico, come se la Tua indagine sia in un certo qual modo orientata verso una narrazione più complessa e articolata al di là di quanto potrebbe essere racchiuso in un singolo lavoro.

PM. Sì, il modo in cui penso alla mia pittura è stato molto influenzato da come, all’inizio dei miei studi, lavoravo soprattutto con la scrittura e con i video: scrivevo storie brevi che poi, attraverso storyboard in acquerello, cercavo di trasporre in video. Quello che rimane di questo approccio è non solo l’uso dell’acquerello, che tuttora è sempre il punto di partenza attraverso cui costruisco una narrazione, un immaginario e anche sperimento con il linguaggio pittorico, ma anche l’idea del quadro come una sorta di storia breve, un capitolo o fumetto a puntate. Talvolta una tematica lega più lavori dai soggetti completamente diversi, come nell’ultima mostra Le storture del cactus da Doris Ghetta a Milano, altre volte, come in questa mostra Il falò dei gonfiabili ho lavorato su un’unica narrazione che lega insieme un po’ tutte le opere presentate. Tuttavia, penso che la narrazione in pittura sia molto diversa da quella letteraria, fumettistica o filmica: non si distende nel tempo come un racconto lineare che parte da un punto A per arrivare a B, bensì si accumula in uno spazio, campo del visibile in cui la narrazione rimane potenziale, mutevole e incompiuta. E ciò mi affascina sia come pittore sia come spettatore perché un quadro non ti impone di guardarlo, lo si può osservare per solo un istante come per giornate intere, ma lo sforzo interpretativo di guardare senza sapere cosa necessariamente si stia vedendo mi sembra interessante rispetto a come vengono consumate oggi le immagini e anche le narrazioni. Forse un’opera è felice proprio quando riesce a generare un processo immaginativo, quando crea un movimento nell’osservatore, quando, – detto da Kafka suona sempre meglio – diventa un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è in noi.

*estratto dall’intervista pubblicata nel catalogo della mostra di Pietro Moretti Il falò dei gonfiabili, a cura di Giuseppe Iannaccone e Daniele Fenaroli, nona edizione del progetto In Pratica di Collezione Giuseppe Iannaccone, in corso fino al 24 aprile 2024.

Crediti: In Pratica 9. Pietro Moretti. Il falò dei gonfiabili. Installation view Collezione Giuseppe Iannaccone, Milano, 2023.

Ph. Studio Vandrasch. Courtesy l’artista e Collezione Giuseppe Iannaccone

VIDEO

Prima di Natale

È l’ultimo appuntamento prima delle festività natalizie presentato dalla sede milanese di Cambi Casa d’Aste quello dedicato ai cataloghi di Arte Moderna e Contemporanea e Fotografia, previsto martedì 19 dicembre a partire dalle ore 16.00. 171 lotti, in cui spiccano grandi nomi internazionali come Andy Warhol, Jeff Koons, George Braque, Renato Guttuso, Dadamaino e Marino Marini, ma di cui sono protagoniste tre opere davvero speciali: Visione scenografica/ Composizione Dada realizzata nel 1919-21 c.a dal filosofo, pittore, poeta, scrittore, occultista ed esoterista italiano Julius Evola, e appartenuto al ministro del Regno D’Italia Giovanni Colonna di Cesarò, uno straordinario olio su faesite di Antonio Ligabue, Leone con zebra, del 1954, che rappresenta l’animale nell’atto di avventarsi sulla preda, e una veduta di Lecco dipinta da Salvo nel 2007 cui è dedicato questo video, in cui l’esperta di Arte Moderna della casa d’aste Michela Scotti racconta i paesaggi dell’artista. Nel catalogo di Fotografia invece, tra opere che attraversano la storia, dalla fine dell’Ottocento al XX secolo, anche Elsa Peretti as a Bunny, splendido ritratto di Helmut Newton.

GUARDA

Crediti immagine: ©Cambi Casa d’Aste

Lo sguardo di Eve

“Che cosa mi ha spinto ad andare avanti nel corso dei decenni? Qual è stata la forza motrice? Se dovessi usare una parola sola, sarebbe “curiosità”. Sono forse queste parole della stessa Eve Arnold quelle che meglio definiscono l’approccio alla visione di una delle più importanti protagoniste della fotografia del Novecento. Fino al 7 gennaio il Museo Civico San Domenico di Forlì ne ospita un’ampia retrospettiva – Eve Arnold. L’Opera 1950–1980 – in cui le sue fotografie raccontano la storia nel Novecento attraverso le battaglie per i diritti delle donne, la difficile integrazione degli afroamericani, la maternità, la moda, le dive del cinema, i viaggi attraverso l’America, l’Europa e l’Asia. Una mostra imperdibile per chiunque voglia conoscere lo sguardo sensibile ma non stereotipato, sempre curioso e teso alla testimonianza, di una grande donna che è stata anche un grande artista dell’immagine. In questo video un assaggio dell’esposizione.

GUARDA

Crediti immagine: Installation view, Eve Arnold. L’opera, 1950-1980, Museo Civico San Domenico, 2023; Courtesy Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì

EXTRA

Come un calligrafo giapponese

Si intitola IX (9) la mostra del pittore britannico Richard Zinon in corso dal 12 dicembre 2023 al 15 febbraio 2024 nella sede milanese di Cadogan Gallery. Il titolo sottolinea la potenza del numero nove, che secondo la numerologia rappresenta il completamento (non la fine), il compimento di un ciclo che prepara a quello successivo. Le opere dell’artista attirano l’attenzione sul gesto pittorico, attraverso segni potenti su sfondi profondi costruiti da molti livelli di colore, che ricordano l’energia presente in ognuno di noi; una tecnica costruita con cura meticolosa, in cui tutti gli elementi, come nella calligrafia orientale, sono calibrati con grande precisione. L’artista, nato a Manchester nel 1985, che attualmente vive e lavora a Snowdonia in Galles, invita lo spettatore a “lasciarsi assorbire, dando l’opportunità di una riflessione interna. La comprensione intuitiva deve precedere quella intellettuale. In questo senso, la prima indaga più profondamente nel cuore della bellezza”.

Crediti: Richard Zinon, II, 2023. Courtesy: Cadogan Gallery e l’artista.

 

Un archivio in continua crescita

L’Archivio online di Arnaldo Pomodoro continua ad arricchirsi di nuovi materiali, digitalizzati e catalogati, a disposizione di tutti gli utenti, sempre e gratuitamente! Sono già consultabili online oltre 900 numeri di riviste d’arte, architettura, design, letteratura, moda e cultura, italiane e internazionali, pubblicate dal 1955 a oggi, conservati nell’Archivio dell’artista. Da Art International, Domus, Flash Art e Ottagono passando per Alfabeta, Che fare e Marcatrè, fino ad Amica, Le Figaro, Time, Vogue… e Topolino! Ogni rivista è stata conservata perché contiene un articolo su o del Maestro, oppure perché vi compaiono le sue opere, ma nell’insieme compongono un interessante viaggio nella produzione editoriale del secondo Novecento, e nella nostra storia culturale, sociale e politica. A parte alcune riviste molto rare degli anni Cinquanta – come Azimuth o il Gesto – integralmente digitalizzate, di tutte le altre possono essere sfogliate online le parti essenziali (copertina, indice e pagine dedicate ad Arnaldo Pomodoro), e in sede su appuntamento, studiosi e ricercatori possono consultarle fisicamente. Esplora l’Archivio online!

Crediti:  Alcuni dei periodici conservati nell’Archivio di Arnaldo Pomodoro. Courtesy Fondazione Arnaldo Pomodoro

Il potere diplomatico dell’arte

Dal 20 dicembre 2023 al 4 febbraio 2024 il Museo delle Civiltà di Roma ospita la mostra Villa Lituania del duo Nomeda & Gidiminas Urbonas, a cura di Matteo Lucchetti, nell’ambito del programma 2023 con supervisione generale di Andrea Viliani. Il progetto espositivo, realizzato in collaborazione con l’Ambasciata della Repubblica di Lituania a Roma, l’Ambasciata della Repubblica di Lituania presso la Santa Sede, il Sovrano Ordine di Malta, il Lithuanian Culture Institute e il Mo Museum of Modern Art di Vilnius, torna in Italia sedici anni dopo aver rappresentato la Lituania alla 52° Biennale di Venezia (2007). La mostra ricorda i quarant’anni dalla morte di Stasys Lozoraitis, diplomatico residente presso l’edificio omonimo, costruito a Roma nel 1912 da Pio e Marcello Piacentini, quando ospitò l’Ambasciata lituana dal 1937 al 1940. Confiscata dall’Unione Sovietica nel 1940 e diventata simbolicamente l’ultimo territorio occupato, successivamente utilizzato come Ufficio Consolare dell’Ambasciata di Russia in Italia, Villa Lituania è oggi il punto di partenza per raccontare una storia di liberazione anche attraverso l’arte. L’installazione di Nomeda e Gidiminas Urbonas, una colombaia con le stesse fattezze della villa, racconta non solo il recupero di questa complessa storia diplomatica, ma anche il tentativo di immaginare una forma di riparazione dei rapporti tra i due Paesi, che gli artisti attingono dalla tradizione popolare dei piccioni viaggiatori.