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TELESCOPE | racconti da lontano #189

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TELESCOPE | racconti da lontano #189

EDITORIALE

Era il 1942, Parigi era occupata dai nazisti, e gli ufficiali tedeschi che risiedevano all’Hotel Ritz, a poche centinaia di metri dalle vetrine di Cartier in Rue de la Paix, cominciano a notare nelle vetrine una collezione di spille animalier, tipiche dello stile della maison, con un uccellino in gabbia dal corpo in corallo, le ali in lapislazzulo e la testa di brillanti: bianco rosso e blu, come i colori della bandiera francese. Tanto bastò alla Gestapo per decidere di interrogare Jeanne Toussaint, direttrice artistica della gioielleria dal 1933, che aveva convinto il collega designer Peter Lemarchand a realizzare Oiseau en cage, atto silenzioso di protesta e resistenza. Essendo impossibile dimostrare l’intento di quei gioielli, apparentemente innocui, e grazie anche – come si racconta – al decisivo intervento dell’amica Coco Chanel, Toussaint torna a casa, ma cinque anni dopo, a guerra conclusa, il ritorno in vetrina di Oiseau libéré, la stessa spilla in una variante con gabbia aperta e uccellino ad ali spiegate, ne confermerà il messaggio politico.

Possiamo leggere tutta la vita di Jeanne Toussaint come una provocazione alle regole borghesi, alle imposizioni della moda, alla limitazione delle libertà personali: è la donna che, con i capelli raccolti in un turbante e avvolta di perle, incontra Louis Cartier da Maxim nel 1909 e se ne innamora perdutamente, che, da protégée del Conte Pierre de Quinsonas, diventa musa, amante e parte di un sodalizio artistico che durerà tutta la vita, con il gioielliere, che non poté mai sposarla per l’opposizione della famiglia. Elegante, libera e forte, con una casa piena di pellicce e avvolta in un mantello di pantera, la petite panthère, come la chiamava Cartier, resta alla guida creativa della maison fino al 1970 e, in un mondo prevalentemente maschile, lega il suo nome ad alcune delle icone assolute della gioielleria moderna, come quella pantera tridimensionale di brillanti e onice destinata nel 1948 alla Duchessa di Windsor Wallis Simpson, altra donna decisamente anticonformista.

In questa centottantanovesima edizione di TELESCOPE, la nostra newsletter settimanale dedicata alle istituzioni e ai progetti culturali di cui siamo portavoce, tra i RACCONTI trovate un estratto dal testo dell’artista iraniana Zoya Shokoohi nel catalogo della mostra Finché non saremo libere, prodotta da Fondazione Brescia Musei e in corso al Museo di Santa Giulia di Brescia; un estratto dal testo di Asa Seresin, parte della pubblicazione dedicata alla mostra Motherboy da Gió Marconi a Milano, e un estratto dal testo del curatore Tommaso Pasquali, parte del catalogo della mostra Felicissimo Giani, in corso a Palazzo Bentivoglio di Bologna.

Nella sezione VIDEO vi proponiamo quello dedicato alla mostra Nuova Generazione. Sguardi Contemporanei sugli Archivi Alinari negli spazi della Project Room di CAMERA Centro Italiano per la Fotografia di Torino, e quello dedicato alla mostra Metronome di Sarah Sze alle OGR Torino.

Infine, tra degli EXTRA vi segnaliamo le mostre in chiusura Dreamless Night di Ali Cherri alla GAMeC di Bergamo; Bertina Lopes. Via XX Settembre 98, la casa come luogo di resistenza al Museo delle Civiltà; e Suzanne Jackson. Somethings in the World, quinta edizione di Furla Series di Fondazione Furla alla GAM di Milano.

Buona domenica e buona lettura!

Lo staff di Lara Facco P&C

#TeamLara

Vi ricordiamo che l’archivio di tutte le edizioni di TELESCOPE è disponibile su www.larafacco.com

TELESCOPE. Racconti da lontano

Ideato e diretto da Lara Facco

Editoriale e testi a cura di Annalisa Inzana

Ricerca ed editing Camilla Capponi, Alberto Fabbiano, Martina Fornasaro, Andrea Gardenghi, Marianita Santarossa, Claudia Santrolli, Denise Solenghi, Alessandro Ulleri, Margherita Villani, Marta Zanichelli, con la collaborazione di Margherita Animelli, Maria Ester Candido, Michela Colombo, Nicolò Fiammetti, Agata Miserere.

domenica 7 gennaio 2024

RACCONTI

E se mangiassimo la libertà?, di Zoya Shokoohi*

Squilla il telefono, sono in strada, esattamente davanti all’ingresso dell’Università. Sono i primi giorni del mese Mehr 1387, gli ultimi del settembre 2008. Il sole e l’ombra si alternano al modo tipico di una mattina di autunno. Guardo il telefono: un numero sconosciuto. In un attimo provo delle emozioni diverse, timore, sospetto, preoccupazione. L’inverno precedente avevamo scioperato, erano usciti alcuni numeri di Alba, il nostro settimanale universitario che non ebbe vita lunga. La situazione doveva sembrare a loro chiara, eravamo un gruppo di studenti attivisti, di idee politiche riferibili alla sinistra. Inoltre, il fatto di avere tra di noi più persone curde, faceva sì che venissimo considerati dei ribelli con tendenze separatiste. Dapprima le proteste erano iniziate per via della mancanza di un sindacato degli studenti, poi erano seguite le manifestazioni dell’8 marzo e del primo maggio. L’anno accademico era finito e ora, all’inizio del nuovo anno, volevano intimarci di rimanere zitti! Ecco perché la telefonata dal numero sconosciuto. Rispondo, non riesco a nascondere il tremore della mia voce: «Pronto?» «Signorina Shokoohi.» «Si, mi dica?» «Mercoledì, alle dieci del mattino, in via Hasht Behesht est. Quasi all’altezza di via Golzar, c’è una piccola costruzione prefabbricata di colore blu chiaro, davanti a un edificio. Il campanello è senza nome, suoni ed entri. Deve venire da sola e senza telefono.» È mercoledì, 9:56 del mattino. L’edificio con cortile sembra una casa, la piccola costruzione prefabbricata davanti, invece, un gabbiotto della vigilanza. Mi pare tutto ambiguo e io mi sento spaesata. Aspetto le 10 esatte e suono. «Chi è?» «Sono Shokoohi.» «È da sola?» Sì, ero da sola, mia mamma e mio babbo mi stavano guardando a distanza. «Attraversi il cortile e poi salga i tre gradini. Entri nell’edificio, si sieda sul divano nella sala, vicino al telefono, e aspetti.» Non dico niente. Vado nel cortile, oggi me lo ricordo più invernale rispetto a come doveva essere negli ultimi giorni di settembre; rivedo un caco con i frutti maturi, l’albero però è senza foglie, o forse era un melograno. Salgo i tre gradini, entro nell’edificio, proprio come mi hanno detto. C’è poca luce naturale e nessuna luce accesa. I colori tendono al blu, forse al verde salvia, i pochi mobili sono tutti di legno scuro. A terra, un tappeto con le stesse tonalità, sporcato dai segni delle scarpe e dal tempo. Mi siedo. Squilla il telefono della sala, alzo la cornetta. Un’altra voce: «Si alzi, prenda il corridoio che le sta dietro ed entri nella porta nel mezzo. A destra c’è una sedia, orientata verso l’angolo, si metta lì senza spostarla. Quando entra il suo interrogatore non si giri e non cerchi di vederlo o di curiosare. Noi ci stiamo comportando con rispetto, si ricordi che qui ci sono le guardie.»

*estratto dal testo dell’artista iraniana nel catalogo della mostra promossa da Fondazione Brescia Musei Finchè non saremo libere a cura di Ilaria Bernardi in corso al Museo di Santa Giulia di Brescia fino al 28 gennaio.

Crediti: Finché non saremo libere, a cura di Ilaria Bernardi. Fondazione Brescia Musei, Museo di Santa Giulia, 2023. Installation shot. Ph. Alberto Mancini. Courtesy Fondazione Brescia Musei.

Tutto sul mio Motherboy, di Asa Seresin*

Talvolta ho pensato, io non sono mia madre; questa è la mia storia.

Hilton Als

Motherboy (mammone) è quel genere di neologismo il cui significato è istintivamente ovvio sin dal primo momento in cui lo si incontra. Separati da un mondo cinico, madre e figlio si ricongiungono in motherboy a dimostrazione del perché siano stati inventati i termini composti. Ideato dagli scrittori della sitcom televisiva Arrested Development Ti presento i miei (2003-2019), Motherboy è uno spettacolo di fantasia che ogni anno si svolge nella reale (quanto surreale) Balboa Island di Orange County, California. Sotto forma di “cena danzante”, il Motherboy è una parodia del Purity Ball (ballo della purezza), cerimonia che ruota attorno alla promessa che le adolescenti rivolgono al proprio accompagnatore – nonché padre – di rimanere caste fino al matrimonio. Nel mondo fittizio della serie curato in ogni minimo dettaglio, la coppia madre-figlio che vince il Motherboy finisce in un trafiletto del quotidiano locale, The Balboa Bay Window intitolato all’incirca così: “Perché voglio sposare mia madre”.

L’inversione dello stereotipo della cocca di papà in Ti presento i miei attribuisce una nota opportunamente ridicola a uno spettacolo generalmente mirato a rivoltare le tasche della cultura americana per rivelarne le assurdità. Ma se la cena danzante Motherboy tra madre e figlio potrebbe sembrare poco plausibile, la figura del mammone non lo è. Siamo circondati da mammoni con la stragrande possibilità di diventare artefici di cultura. Eppure, il potere assunto da questi mother-lovers non è mai ben chiaro, poiché il loro attaccamento alle madri è visto con sospetto. Nella migliore delle ipotesi un mammone è anormalmente normale – familiare ma perverso. Nel peggiore dei casi è un mostro.

L’amore tra madre e figlio ci viene imposto per cultura, eppure il grado che a questo amore è concesso è rigorosamente controllato. Come avviene per molti aspetti della normatività familiare, si tratta di una forma di disciplina razziale. Il Moynihan Report del 1965 attribuì tristemente alla prevalenza di nuclei familiari con a capo una donna la causa del disagio sociale della comunità afroamericana, patologizzando la maternità delle donne di colore come fosse una sorta di tossina sociale. In Mama’s Baby, Papa’s Maybe: An American Grammar Book [Figli/e di madre, del padre forse: una grammatica americana] Hortense Spillers contestualizza il Moynihan Report nell’ambito dello storico retaggio dell’ungendering, inteso come negazione del genere, e della spoliazione sociale che caratterizzò la tratta degli schiavi. Ereditando lo stato di schiavo dalla madre e in base al principio del partis sequitur ventrem – “il nascituro segue il ventre” – il destino del bambino a essere schiavo era determinato dalla stessa persona alla quale erano stati negati i diritti e lo status di madre. Tale risoluzione, spiega Spillers, continua a perseguitare il presente: “Il maschio afroamericano è stato dunque segnato dalla madre, da lei consegnato a modalità alle quali non può sottrarsi, e che il maschio bianco americano è in grado di eludere per intercessione paterna.”

*testo redatto da Asa Seresin, autrice e ricercatrice specializzata in sessualità, genere, arte, commedia e psicoanalisi, inserito nella pubblicazione dedicata alla mostra Motherboy a cura di Stella Bottai e Gray Wielebinski, in corso fino al 17 febbraio 2024 da Gió Marconi a Milano

Crediti: MOTHERBOY Curated by Stella Bottai and Gray Wielebinski 23.11.2023 – 17.02.2024 Gió Marconi, Milan Photo: Fabio Mantegna

Giani Bifronte, di Tommaso Pasquali*

È difficile immaginare cosa passa per la testa del maturo Felice Giani quando, nel 1814, sceglie di datare il soffitto della Sala delle Arti nel bolognese Palazzo Bianchetti proprio sotto l’Allegoria della Scultura.(1) L’ha raffigurata nelle vesti di una giovane donna, elegante come un geroglifico, che sta per dare l’ultimo colpo di scalpello a un’erma di Giano, il dio bicefalo dei romani, protettore delle porte, dei ponti e dei passaggi – anche fra l’anno vecchio e quello nuovo. Sul marmo, oltre all’urobòro, il serpente che si morde la coda per rappresentare l’infinito, la giovane ha appena inciso il nome del dio insieme a quello di Canova, ed è chiara l’intenzione di “Giani Felice, de S. Sebastiano, detto Giano”(2) di associare così alla data anche una sua firma, ben poco velata, e di affratellarsi al grande scultore a lui coetaneo. Si può invece speculare su quanto, suggestionato dal proprio cognome, Giani potesse in effetti sentirsi, insieme allo stesso Canova, un uomo sospeso fra le epoche – l’Italia dei principati, la Roma giacobina, la parabola di Napoleone fino all’esilio all’Elba – così come un artista capace di guardare allo stesso tempo davanti e dietro di sé, abbracciando temi, tendenze e modi spesso distanti. Quando non in apparente contraddizione, almeno ai nostri occhi. Neoclassico e anticlassico, preromantico e neomanierista (3), accademico premiato e fondatore di serate antiaccademiche (4), copista dall’antichità e nemico delle precisioni filologiche, progettista di un monumento a papa Braschi (5) e “cronista” delle feste giacobine (6), genio bizzarro e interprete delle élite napoleoniche: con la sua progressiva riscoperta, durata mezzo secolo dal 1950 di un influente endorsement longhiano al 1999 dei due volumi di Anna Ottani Cavina, Giani ha costretto gli studi moderni a confrontarsi con una vicenda artistica complessa e una produzione straripante, che sfugge a facili categorizzazioni.

Una visita guidata Confrontarsi con il progetto di una mostra su Felice Giani in occasione del bicentenario dalla morte significa avere la fortuna di una materia estesissima e già del tutto dissodata da decenni di studi, aggiornamenti e revisioni. D’altronde, se pensare a una selezione da esporre al pubblico è sempre ragionare nei termini inevitabili di una parte per il tutto, quando il tutto corrisponde a un “immaginario torrenziale” (7) espanso, e perlopiù riversato in decine di cicli decorativi inamovibili, o su migliaia di fogli volanti, il racconto della parte non può che avvenire per casi esemplari, evocazioni e, magari, qualche testimonianza cruciale. Proprio nel tentativo di illuminare per suggestioni un autore così prolifico, le opere in mostra, diverse delle quali inedite o mai esposte, sono state organizzate secondo nuclei cronologici o tematici.

All’occasione speciale del prestito di due dipinti realizzati per Palazzo Bentivoglio – una vicenda cui dedico qualche pagina a sé in questo catalogo – si aggiunge perciò la novità di alcuni accostamenti inattesi fra opere fondamentali, già ben note, e qualche aggiunta al suo sterminato corpus grafico. Se di certo l’affascinante figura di Giani, tanto “caporale di una napoleonica scapigliatura” (8) quanto efficiente responsabile di una “Bauhaus neoclassica” (9), non ne esce di certo mutata, la possibilità di mettere in fila una quarantina di opere, cogliendo oltretutto l’occasione per qualche puntualizzazione nelle schede qui a seguire, può confermare il carattere straordinario di un percorso che, quasi sempre, fu davvero felicissimo.

1.Ottani Cavina 1999, I, pp. 277-279.

2. Non è chiaro quanto questa variante fosse in realtà adoperata. È presente in: Zani 1822, p. 17, ma Arcangelo Migliarini, che aveva conosciuto Giani a Roma negli anni Novanta del Settecento, cita il passo per commentare: “io l’ho sempre inteso chiamare sempre Gianni, anche in sua presenza”: cit. in Rudolph 1977, pp. 175-176.

3.Alla lettura di Giani in chiave preromantica, inaugurata da Longhi (1950, pp. 28-29) e da alcuni interventi su Paragone (Golfieri 1950, p. 24; Corbara 1950, pp. 45-46; Raimondi 1950, pp. 17-25), Rudolph (1977, p. 183) preferiva l’uso del termine antaliano “neomanierista”, sulla scorta di Maltese (1960, pp. 71-72).

4.Sull’Accademia dei Pensieri: Rudolph 1977, pp. 175-182.

5.Ivi, p. 179.

6.Pupillo 2013.

7.A. Ottani Cavina, in L’età neoclassica 1979, p. LVIII.

8.Longhi 1950, p. 28.

9.A. Ottani Cavina, in L’età neoclassica1979, p. LVI

*estratto dal testo critico nel catalogo della mostra Felicissimo Giani a cura di Tommaso Pasquali in corso fino al 25 febbraio 2024 a Palazzo Bentivoglio a Bologna.

Crediti: Felicissimo Giani, a cura di Tommaso Pasquali, allestimento di Franco Raggi, Palazzo Bentivoglio, 2023, ph. Carlo Favero

VIDEO

57 giorni di immagini

Il lavoro del fotografo Leonardo Magrelli, 57 giorni di immagini, è uno dei quattro che, insieme a quelli di Matteo de Mayda, Giovanna Petrocchi e Silvia Rosi, compongono la mostra Nuova Generazione. Sguardi Contemporanei sugli Archivi Alinari, che fino al 4 febbraio è visibile negli spazi della Project Room di CAMERA Centro Italiano per la Fotografia di Torino. In questo video Magrelli racconta l’opera 57 giorni che è il tempo che ci vorrebbe se osservassimo giorno e notte per un secondo, i 5.000.000 di scatti che compongono l’archivio: un lavoro che parla dell’impossibilità di restituire interamente questo patrimonio vario e imprevedibile. L’opera di Magrelli raccoglie alcuni dettagli di immagini nel tentativo di restituire la sensazione dell’osservazione compulsiva, raccontando l’atto stesso del guardare, l’impossibilità della vista, la sua violenza e ironia. Nuova Generazione a cura di Giangavino Pazzola e Monica Poggi è un progetto di CAMERA e FAF Toscana – Fondazione Alinari per la Fotografia, finalizzato all’incremento del patrimonio fotografico pubblico con la committenza di progetti inediti a giovani artisti. Progetti che partendo dalle raccolte Alinari, indagano il tema degli archivi come giacimenti di storie da interrogare e ampliare.

GUARDA

Crediti immagine: Leonardo Magrelli, dalla serie 57 giorni di immagini, 2023; 1938, Fratelli Alinari, Ritratto di donna con la moretta, dipinto, Felice Boscaratti (1721-1807), Collezione privata, Venezia, Archivi Alinari ©l’artista

Cambiamenti epocali

Allestita per la prima volta nel 2023 nella sala d’attesa della stazione londinese di Pekham Rye riaperta al pubblico dopo oltre 60 anni, questa immensa opera installativa composta da centinaia di immagini imbrigliate in una gigantesca griglia metallica, che sembrano esplodere nello spazio: è Metronome di Sarah Sze (Boston, 1969), opera che dà anche il titolo all’esposizione a cura di Samuele Piazza alle OGR Torino, prima personale in un’istituzione italiana dell’artista statunitense. Fino all’11 febbraio 2024 la grande installazione ambientale, co-commissionata e co-prodotta da OGR Torino con Artangel – Londra eARoS – Aarhus Art Museum con il supporto della Victoria Miro Gallery, rappresenta l’incessante flusso di informazioni che caratterizza e condiziona il nostro presente, e costituisce un’ideale continuazione della sua storia espositiva. Come la rivoluzione industriale ottocentesca, di cui le architetture di OGR e Pekham Rye sono testimonianza, è stato un momento di accelerazione tecnologica, anche oggi siamo immersi in una nuova rivoluzione epocale innescata dalla tecnologia digitale che ha generato una proliferazione di immagini, una accelerazione della comunicazione e un uragano informativo che modifica costantemente la nostra esperienza spazio-temporale.

GUARDA

Crediti immagine: Sarah Sze, METRONOME, 2023. Installation view at OGR Torino. Ph Andrea Rossetti for OGR Torino. Courtesy OGR Torino

Crediti video:  Sara Sze, METRONOME, 2023. Produzione 3D Produzione. Courtesy OGR Torino

EXTRA

La cultura della militarizzazione

C’è tempo ancora una settimana, fino al 14 gennaio, per andare a visitare alla GAMeC di Bergamo Dreamless Night, la mostra personale dell’artista e regista libanese Ali Cherri (Beirut, 1976), vincitore del Leone d’Argento della Biennale d’Arte di Venezia 2022. La mostra, a cura di Alessandro Rabottini e Leonardo Bigazzi, rispettivamente Direttore Artistico e Curatore di Fondazione In Between Art Film, e realizzata dal museo insieme alla Fondazione e al Frac Bretagne, è il primo progetto espositivo realizzato nell’ambito di Unison, nuova iniziativa biennale promossa dalla Fondazione per commissionare e produrre mostre dedicate ad artisti, attivi nel campo delle immagini in movimento, in collaborazione con istituzioni pubbliche italiane e internazionali. Negli spazi della GAMeC sono esposti non solo The Watchman (2023), inedita opera video commissionata e prodotta dalla Fondazione e presentata in forma di video installazione di grandi dimensioni, ma anche una nuova serie di disegni e sculture che tematizzano quella cultura della militarizzazione di cui il film è espressione.

Crediti: Ali Cherri. The Watchman, 2023. Still da video. Courtesy l’artista, Fondazione In Between Art Film, e Galerie Imane Farès, Paris

Via XX settembre 98

Fino al 14 gennaio al Museo delle Civiltà la mostra Bertina Lopes. Via XX Settembre 98, la casa come luogo di resistenza, a cura di Claudio Crescentini e Paola Ugolini, ricostruisce per la prima volta lo spazio di vita e di lavoro, privato e pubblico, dell’artista e attivista Bertina Lopes (Lourenço Marques, attuale Maputo, 1924 – Roma, 2012), presentandone anche una ricostruzione parziale, resa possibile da un’estensiva documentazione fotografica realizzata dal fotografo Giorgio Benni e commissionata dal Museo. Lopes ha vissuto a Roma 70 anni, trasformando la sua casa-studio in un punto di incontro per intellettuali, artisti, poeti, rifugiati e attivisti della comunità mozambicana e portoghese, ma anche di altri Paesi africani ed europei. In quel luogo, vita e arte si sono intrecciate diventando uno spazio di resistenza in cui denunciare l’oppressione, il dolore della lontananza, la rivendicazione delle radici, la memoria fatta di storie, immagini, materie e simboli dell’arte africana, nella ricerca e affermazione di un’identità contemporanea consapevolmente diasporica. Un progetto da non perdere!

Crediti:  Bertina Lopes. Via XX Settembre 98, la casa come luogo di resistenza Installation view @ Museo delle Civiltà, Roma Ph. Giorgio Benni

Ancora una settimana nel mondo di Suzanne

Ci sono ancora pochi giorni, fino al 14 gennaio, per visitare alla GAM – Galleria d’Arte Moderna di Milano la mostra Suzanne Jackson. Somethings in the World, a cura di Bruna Roccasalva, quinta edizione del progetto Furla Series promosso da Fondazione Furla. La mostra, la prima dedicata all’artista da un’istituzione europea, offre uno sguardo sulla ricerca che Jackson porta avanti da cinquant’anni ricostruendone i nuclei fondamentali. Un percorso composto da ventisette opere che, tra lavori iconici, inediti e nuove produzioni, crea una narrazione che accompagna il visitatore all’interno dell’universo dell’artista, evocando anche un confronto e un dialogo con le sale e le opere della collezione permanente del museo milanese. Una mostra che, come ribadisce la stessa Jackson, e il titolo stesso, vuole innanzitutto restituire la sua esperienza “nel” mondo e “del” mondo attraverso opere strettamente correlate alle sue vicende biografiche, che confluiscono le une nelle altre, mescolandosi e confondendosi. Una mostra potente, colorata, avvolgente che sarebbe un peccato perdere!