Voglio un Santo in paradiso (Antonella Giordano)

Mi chiamo Milvia. Ho il nome che aveva la nonna paterna e che lei, a sua volta, aveva ereditato dalla sua. Il mio nome, insomma, è stato radicato nella genealogia femminile della mia famiglia che repertoria una sequela di Milvie che mi hanno preceduta, fortunatamente conclusa con me. Non è del mio nome che voglio parlare ma ho dichiarato quale fosse perché in una stagione della mia vita che voglio raccontare sono andata vanamente alla ricerca di una mia santa protettrice e, non avendola trovata nel calendario liturgico, mi sono detta che il motivo per cui venivo ignorata dal Cielo poteva ben essere dovuto al fatto che non c’è una santa che porti il mio nome. Non occupando un posto minimo nel cedolario dei santi nemmeno l’ascrizione alla festa generalista di Ognissanti ha potuto garantirmi una tutela efficace. Per una che, come me, non ha mai avuto benefattori terreni il non possedere neppure nell’empireo una santa che mi protegga ha fatto sì che nel momento dell’assoluto bisogno dovessi rassegnarmi ad un destino nefasto. Avere qualcuno che ti rappresenti là dove conta, qualcuno che parli al tuo posto quando non puoi, che interceda in tuo favore, significa farsi rispettare o, almeno, non farsi calpestare. Non avendo una santa mia portavoce mi sono determinata a mettermi entro il raggio protettivo di un altro santo il cui nome poteva nella radice assorbire il mio, adattandomi ad una tutela annacquata e residuale pur di non sconfinare in quella generalista di cui mi sentivo destinataria ma la cosa comunque non ha funzionato. Il ricordo di ciò che mi accadde è impresso in tutte le parti del mio essere, visibile e invisibile. Vado con ordine. Come tutte le persone del mondo ho avuto anch’io un’infanzia e una giovinezza che, come quelle di molti dei miei coetanei, sono state indirizzate dai genitori nel rispetto dei sacrosanti valori dell’impegno, dell’onestà, della determinazione, del sacrificio e simili. Il motto valoriale di matrice genitoriale ha trovato terreno fertile nella mia indole che lo ha fatto fruttificare producendo successi scolastici propedeutici ad una somma di titoli accademici attestanti le mie competenze nella massima misura. Tale mia condizione mi ha resa – ahimè – ingombrante nel mondo del lavoro, disposto ad accogliermi a patto che non osassi rendermi troppo visibile. Purtroppo la latitanza di un nume tutelare in Paradiso ha fatto sì che non solo mi ritrovassi senza aiuto benefico ma, anche, che fossi inconsapevole delle grandi disgrazie che avrebbero prodotto i miei meriti. Mi sono immersa nel lavoro senza risparmiarmi osando dare il meglio di me e non smettendo mai di studiare. Per me rappresentava il mezzo per operare per il bene pubblico, per imprimere un segno nel cammino dell’emancipazione femminile, per affrancarmi economicamente dalla mia famiglia d’origine e dal suo passato di soggezione, che avevo sempre sentito insistere sulle mie spalle come un macigno. Con l’arrivo dell’amore e di mia figlia il mio fisico reclamava talvolta un po’ di riposo ma non ho mai dichiarato cedimenti perché temevo che se avessi abbassato il livello delle prestazioni il tributo che avrei dovuto versare non sarebbe stato pari a quello eventualmente richiesto a chi aveva santi protettori. La mia dedizione mi spinse un giorno a credere che sarei stata testimone di una svolta culturale epocale. Improvvisamente tutti i miei titoli accademici e gli apprezzamenti da parte dell’utenza sembrava che non fossero più una disgrazia perché la concorrenza dei colleghi si assottigliava progressivamente nell’espletamento dei compiti che richiedevano qualificazione. Accadde così che mi ritrovai catapultata in una sorta di “gotha dirigenziale”, popolato da soli uomini. Non mi pareva vero. Lavoravo senza risparmiarmi e senza lamentarmi. Acquistavo libri, leggevo le normative, le riviste di settore, studiavo fino a notte tarda. Avevo suggellato tra me e il mio lavoro un patto fraterno, un’alleanza lucente, con tanto di arcobaleno colmo di promesse. Organizzavo il necessario per la famiglia la sera e al mattino mi levavo dal letto all’alba. Accompagnavo la bambina a scuola e lì la lasciavo quando ancora non c’era nessun altro compagno. In ufficio mi chiudevo nella stanza a lavorare, a pranzo mangiavo il panino che mi ero portata da casa e, quando ormai in ufficio non c’era più nessuno, scappavo di corsa a riprendere mia figlia. Le giornate non avevano distrazioni diverse dagli adempimenti domestici e dalla gioia di condividere i giochi e lo svolgimento dei compiti scolastici. Purtroppo mi ero illusa di poter continuare a raccogliere positività senza una santa protettrice e scioccamente partecipai ad una selezione per accedere al “gotha dirigenziale”. L’aver superato brillantemente le prove scritte a scapito di altri che i santi li avevano mi aveva convinta che quanto avevo fino a quel momento ritenuto in fatto di riconoscimento dei meriti andasse rivisto, che l’assenza del santo in Paradiso complica il cammino ma non lo pregiudica e che fosse una gran bella soddisfazione non dover essere debitori nei confronti di benefattori. Così pensavo. Sbagliavo. La dirigenza è la sede del potere, dove sono ubicate le poltrone che contano, dove tra le leggi scritte vigono quelle non scritte elaborate dalle alleanze vicine al vertice supremo a beneficio alla casta formata da parenti e amici. Purtroppo molti candidati, privi come me di tutela celeste, dimostrarono alle prove scritte di essere preparati. I santi protettori che rappresentavano i candidati che avevano il loro nome dovettero intervenire repentinamente a sovvertire la situazione. Accadde così che io e quelli come me precipitammo nella graduatoria degli idonei, dei riservisti ai quali conferire la posizione in caso di futuri posti vacanti. Giustizia finalmente veniva fatta! I benedetti dal Cielo avrebbero conseguito eccellenti obbiettivi avvalendosi della collaborazione della squadra degli idonei che avevano abbondantemente dimostrato di essere capaci e competenti. Avrei dimostrato di essere brava e proprio perché il capo aveva bisogno di me sarei stata apprezzata. Il lavoro nobilita sempre. Pensavo. Sbagliavo. Cominciò così un periodo fantastico in cui venni esiliata in una stanza, un’anticamera lontana dal contesto dell’ufficio in cui, nell’isolamento totale, avrei potuto lavorare di più e sarei diventata invisibile. Purtroppo ci sarà stato un problema di interpretazione da parte del santo protettore del mio capo perché il mio lavoro diveniva, malgrado l’emarginazione fisica, sempre più visibile. Ero un pericoloso termine di paragone! Bisognava che il santo protettore del capo intercedesse immediatamente in mio sfavore e sanasse la reputazione del suo assistito. I colleghi erano basiti. Qualcuno temendo per se stesso pensò di sorreggermi affettuosamente ma tenendomi a debita distanza in ufficio per non incorrere nell’epurazione, qualche altro, più temerario, si schierò apertamente rischiando. I colleghi giovani adottarono un atteggiamento massivo fatto di contatti frettolosi e impazienti. Mi prese di colpo una grande inquietudine. Scoprii che tutti mi chiamavano Moby. L’ufficio somigliava ad un ambulacro. Io continuavo a lavorare ma, mentre tentavo di annaspare nella confusa menzogna che mi circondava, mi sentivo sempre più infossata in un baratro infernale. Un giorno il cielo, le nuvole che lo attraversavano, i fulmini, gli uccelli in volo, le loro merde, tutto mi cadde in testa nel preciso momento in cui il capo mi disse: «Devo trasferirti». Chiesi di parlare con il direttore. Non volle ricevermi e non insistetti per preservarmi da ulteriori umiliazioni. In quello stesso istante mi fu notificato il provvedimento di trasferimento. Era in atto contro di me una vera e propria congiura diabolica. Lo sconcerto non mi fece provare dolore. Sopraffatta da un vortice di sentimenti inqualificabili mi allontanai velocemente verso l’uscita. Corsi lungo la strada alla ricerca del primo spazio verde in cui affogare il mio dolore, lontano da tutto e da tutti. Temevo di perdere i sensi e desideravo, nello stesso tempo, precipitare nell’annichilimento di ogni impulso vitale. Urlai. La mia voce rauca, velata di disperazione e di incredulità, incideva l’aria che profumava di muschio. Volevo che mi giungesse una risposta e spingevo uno sguardo d’attesa attraverso le fronde degli alberi circostanti per inseguire le nuvole passando per le loro chiome. Si scatenò un violento temporale e lo accolsi come la risposta del Cielo al mio desiderio di purificazione, di lavarmi da tutte le sozzure che mi avevano investita. Rimasi sotto la pioggia battente per ore fino a quando si manifestò un piccolo bagliore tra i nembi. Interpretai il timido barbaglio come una presenza amica. Il pallido chiarore cominciò ad allungarsi nell’estremo barlume delle stelle per aprire un varco alla luna, che prepotentemente squarciò la foschia. Mi lasciai inebriare dai raggi di quella luna che fino a qualche settimana prima avevano fatto danzare i miei sogni, imbevuti di rugiada, tra le stelle. La tempesta cessò. Accolsi, con disincanto, il canto intermittente di un uccello notturno che, salito da chissà quale oscuro ricettacolo, si esibiva davanti alla luna sempre più limpida. Mi venne in mente la mia famiglia. Dovevo fare ritorno a casa. La mia famiglia mi aspettava in ansia. Aprii la porta di casa e li trovai tutti trepidanti, schierati come tanti zolfanelli. Avevano capito che non avevo voglia di parlare. Affidai al silenzio il mio dolore. Mi coricai a letto senza neanche cambiarmi. Quella notte non chiusi occhio. Continuai a fluttuare nel letto senza riuscire a prender sonno, in balia di ricordi e pensieri, fino a quando un diafano raggio di luna percorse la stanza. Si snodava luminoso come per diventare un’idea iperurania di raggio di luce dentro il quale lasciai che il mio malessere fosse risucchiato. Il dolore violento delle ore precedenti si stemperava, a tratti si ricomponeva, poi si dileguava in un carosello impetuoso in cui ero sballottata involontariamente. Misi insieme come in un puzzle ogni giorno degli ultimi mesi, tutte le occhiate, i silenzi, le umiliazioni, prima velate poi scoperte. Compresi il significato del nomignolo Moby – derivazione da mobbing, termine inglese che significa assalire – che i miei colleghi mi avevano attribuito per definire il mio stato di aggredita. Al mattino presto mi presentai nel nuovo ufficio. Il nuovo capo era imbarazzato. Si limitò a dirmi che avrei dovuto adattarmi ad un lavoro esecutivo perché nell’ambito della struttura non c’erano attività consone alla mia professionalità. Mi accompagnò al bar a prendere un caffè e poi, a denti stretti, mi consigliò di prendermi un periodo di riflessione per reagire all’ingiustizia subita. Respiravo a fatica e il nodo, che mi strozzava la gola dalla sera precedente, invase anche lo stomaco. Gli chiesi le ferie e tornai a casa. Una volta a casa mi seppellii nel letto. Piansi per giorni, talmente tanto da dimenticarmi persino della mia famiglia. Ero diventata di pietra. Mi sentivo sospesa sull’argine di un fiume in attesa di una spinta che mi facesse precipitare dentro. La mia casa diventò un luogo di passaggio di parenti, amici, vicini, delatori che venivano a verificare come stessi ma io non parlavo con nessuno. Volevo essere dimenticata sull’argine del mio fiume di dolore lungo il quale sdrucciolavo lentamente. Ebbi una crisi convulsiva e mi ricoverarono. Uscii dopo una settimana portandomi a casa una borsa di antidepressivi. Mio marito cominciò a dirmi di rinunciare per sempre all’ufficio, di dimenticare i sacrifici, di pensare alla mia salute che precipitava verso una fine eterna. Mentre parlava io pensavo solo al greto del mio fiume, alle sue acque gelide e tombali. Riconoscevo mia figlia, il suo viso che mi lanciava un monito, ma non riuscivo a scollare le palpebre, a rassicurarla. Avrei voluto proteggerla dal mio male ma ero imprigionata nelle mie tenebre e non riuscivo ad aprirmi un varco per uscirne. L’unico luogo in cui approdavo era il pavimento, sul quale precipitavo quando ruzzolavo dal letto. Lei mi soccorreva mentre le lacrime le rigavano il viso. Mi bruciava il rimorso di privarla del tempo della spensieratezza adolescenziale ma il mio male mentale aveva divorato il mio corpo e contaminato il mio sangue. Avrei continuato a vivere sotto il cielo della mia stanza fino alla lenta consunzione di ogni mia fibra se un giorno mia figlia, con tono fermo e tenero al tempo stesso, non mi avesse detto: «Mamma, smettila. Tronca le catene che ti tengono legata a questo letto e racconta al mondo tutto quello che ti è accaduto»». Avrei voluto dirle che ci sono catene che non ti ritrovi addosso in una fatale collusione con te stessa. Avrei voluto dirle che la realtà era così opprimente che mi ero messa a guardarla dal mio letto. Avrei voluto dirle tutto questo ma non dissi nulla. Sapevo che aveva ragione lei. Morire non era la soluzione. Il mio cadavere sarebbe stato gettato in pasto agli avvoltoi mentre tutto il resto del mondo vivente avrebbe continuato a vivere, a coincidere con se stesso, senza accorgersi di nulla. Forse solo una farfalla esule si sarebbe posata pietosa su di me per qualche secondo prima di volare via disgustata. Pencolavo nella confusione alla mercé degli spettri che generavo con la mia mente. Tutto ciò che era al di fuori di me era minaccioso e per questo non volevo muovermi. La mia stanza, con i suoi confini familiari, era la mia gabbia di protezione. Chiesi solamente in che mese fossimo. Luglio?!? Erano trascorsi quattro mesi, quattro lunghissimi mesi che mi erano parsi un’unica notte, che non era veramente una notte ma ore scandite da una pendola che non si muoveva più. Feci una doccia, indossai un vestito leggero sopra un paio di sandali e uscii. Era una bella giornata per essere vivi. Il sole mi scaldava mentre percorrevo la via e i miei piedi non mi tradivano. Ero viva. Pensai che la vita si serve di varchi inaspettati per entrare, senza un prima o un poi, e decisi di raccontare al mondo che ci fu un periodo in cui mi chiamarono Moby.
Sono Milvia. Continuo a festeggiare il mio onomastico il giorno di Ognissanti ma mi sono organizzata per aprire un varco verso la santità e ho creato una pagina facebook per la mia causa. Ho raccolto tanti mi piace. Se tutto va bene non appena raggiungerò cinquemila “mi piace” andrò di corsa dal papa a dirglielo. Non ignorerà sicuramente una mobilitazione popolare e proclamerà una santa di nome Milvia.

Antonella Giordano

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