Decolletè (Milos Fabbri)

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Decolletè (Milos Fabbri)

1

Il mio sguardo non riusciva a staccarsi da quella scollatura.
Non so bene cosa possa pensare un ragazzo di diciotto anni guardando un quarto di tetta destra, separato da un canyon dalla tetta sinistra. Io, vista l’età, avevo le idee chiare. Guardavo l’insegnante dell’autoscuola e mi pregustavo un orgasmo tra quella cunetta.
«Giovanni…» disse Claudia accendendo un segnale alla lavagna luminosa, «che cartello è questo?».
Per un breve attimo pensai che mi avesse letto nel pensiero.
Giovanni era uno dei ragazzi più casinisti del gruppo.
Esitò qualche secondo, poi indicò il fondoschiena della ragazza seduta davanti a lui.
Mi sporsi per guardare. La ragazza aveva quasi metà del culo scoperto, le si intravedeva la linea che separava le due chiappe. Il ragazzo aveva perfettamente ragione, quello era un perfetto esempio di dosso e cunetta; come la bella scollatura dell’insegnante, che mi ostinavo ad ammirare.

Spesso, invece di seguire la lezione, pensavo a Rincobaldo, il matto del paese di Sant’Illuso. Era il personaggio di un racconto a cui stavo lavorando. Aveva deciso di intraprendere il suo sogno, avrebbe raggiunto la sua amata, ma non sapeva come fare, non sapeva come raggiungerla. L’unico modo doveva essere quello di volare. Perciò aveva deciso di schiudere le proprie ali e lanciarsi alla sua ricerca.

Ed io, ebbene sì! dovevo ridare gli esami per prendere la patente.
Nonostante fossero già passati dodici anni dal raggiungimento della maggiore età, mi ritrovavo in mezzo a dei ragazzini per seguire il corso di scuola guida. Colpa della mia memoria e di una serie di coincidenze.

L’ultimo giorno di lezione, Claudia accettò di fare una passeggiata in mia compagnia. Per fortuna era primavera inoltrata, e il suo abbigliamento era perfettamente adatto al caldo che era arrivato in città. Indossava una canottiera gialla che le lasciava, abbondantemente, il seno in vista.
Era un seno copioso.
«Vista l’ora, ti potrei invitare per cena. Mi posso vantare di essere bravo a fare due cose, per la terza eventualmente attendo un tuo giudizio in tarda serata».
Lei mi guardò dubbiosa.
Cercai velocemente di spezzare quel disagio.
«No davvero, sono bravo a tirare la sfoglia e a fare i massaggi. Passiamo a prendere una bottiglia di vino, a casa ne ho rimasta soltanto una, e prepariamo insieme la sfoglia; che ne dici?»
«Tu sei romagnolo!?» disse Claudia sorridendomi.
«L’hai dedotto dal fatto che faccio la pasta?»
«No, perché dici ho rimasto».
“E beh, cosa dovrei dire?»
«Dovresti usare il verbo essere e non il verbo avere».
Ne seguì un breve silenzio. Stavo riflettendo sul fatto che uno scrittore, quale ultimamente mi definivo, non conosceva nemmeno la lingua italiana.
«Il mio ex marito era di Cesena. Tu di dove sei?»
«Faenza. Sono ormai tre mesi che me ne sono andato. Ora vivo qui, senza un motivo preciso».
Claudia sorrise. Camminava guardando sempre verso l’alto, sembrava cercasse qualcosa tra i rami degli alberi che costeggiavano il viale.
«Allora che ne dici: cappelletti?” proposi io.
«Mi sembrano un po’ impegnativi. Io partirei con un piatto di tagliatelle».
«E così sia».
Le presi la mano e mi lasciai trasportare dentro a quella magia.

Rincobaldo aveva attaccato due triangoli di cartone ai lati della sua bicicletta: quelle erano le ali con cui si sarebbe lasciato trasportare verso la felicità.

Io stappai la prima bottiglia di montepulciano, e dopo il primo bicchiere ero certo che la felicità fosse raggiungibile.
Prima di setacciare la farina sull’asse e iniziare a impastare, avevo già assaporato le labbra di Claudia, ma cosa decisamente migliore avevo potuto testare-tastare la solidità di quella scollatura.
Claudia era una bella ragazza, riccia coi capelli neri, un viso pieno e tondeggiante, qualche lentiggine sparsa per il viso e un bel paio di chiappe. Aveva sicuramente frequentato l’università, qualcosa del tipo… lingue, ma non ne ero certo, fatto sta che non era ignorante.
Io ero il classico stronzo con una gran voglia di portarsi a letto qualsiasi donna.
«E io che faccio?»
«Puoi preparare qualche crostino, mettere un po’ di musica, sederti comoda e lasciarti ammirare. Da quant’è che sei separata?»
«Mi sono sposata molto giovane» Claudia si aggirava per la casa, «avevo ventidue anni, le cose non funzionarono da subito. Dopo due anni ci lasciammo. Ma tu che lavoro fai? Sei per caso uno scrittore? o solo appassionato d’antiquariato?»
Stava guardando la macchina da scrivere che conservavo su un tavolino della sala. Avevo smesso di battere su quei tasti da molto tempo, ma era un bellissimo oggetto, impossibile separarsene.
«Scrivo… sì! Sembra che negli ultimi anni alla gente piacciano i miei romanzi».
Avevo appena iniziato a stendere la sfoglia.
“«E perché hai deciso di prendere la patente solo ora?»
La guardai, si era avvicinata alla libreria e stava scegliendo quale libro, per primo, controllare. Era bello avere una donna dentro casa.

2

Rincobaldo aveva raggiunto la capitale.
La grande città gli appariva inospitale. Come faceva tanta gente a vivere in così poco spazio? Lui era abituato ai grandi prati verdi, alle spiagge, al mare.
Come avrebbe fatto a trovarla in un luogo così diverso dal suo animo?

Stavo percorrendo la statale.
Ero dentro la mia auto confortevole, ma sentivo dentro di me qualcosa di strano. Non ero certo di sapere dove mi trovassi.
Era sera. Le strade che avevo percorso fino ad allora erano deserte. Ero fuori città.
Mi fermai in un bar. Non sapevo cosa stessi cercando. Non ricordavo perché fossi uscito di casa e nemmeno quanto tempo prima.
Avevo bisogno di fermarmi un attimo per capire cosa stesse succedendo.
Ero nei dintorni della mia città o mi ero allontanato parecchio?
Non riconoscevo nulla attorno a me. Dovevo essermi allontanato.
Mi sedetti al bancone del bar.
C’era un unico tavolo occupato. Guardai la ragazza seduta che stava mangiando.
Era mulatta, pensai subito a una prostituta. Ma poi la guardai meglio.
Un signore dall’altra parte del bancone mi stava osservando.
«Che le porto?» mi chiese.
«Un rum, grazie».
Non mi chiese altro, mi girò le spalle e prese una bottiglia dalla vetrina in alto.

Non ha lo smalto alle unghie, la borsa non è consumata. Mangia lentamente, si versa il vino e non osserva. Potrebbe essere un appuntamento tradito.

Il barista pose il bicchiere davanti a me. Feci un breve sorso. Avrei voluto chiedere all’uomo dove mi trovassi, ma non lo feci.
Guardai ancora quella ragazza, cercavo di scrutarle il seno, ma non c’era scollatura in quella maglietta.
Quel pensiero però mi ridestò un ricordo, o meglio, lo sentii nascere, ma non riuscii a coglierlo appieno. Un décolleté.
Finii il rum. Mi alzai, pagai, ed uscii.
Fuori dal locale la notte mi avvolse. Forse qualcuno mi stava aspettando a casa; si stava preoccupando per me, oppure era abituato al fatto che rientrassi tardi?
Cercai di ricordare: cosa stavo facendo prima di mettermi alla guida? Cosa mi stava succedendo? Ebbi un senso di vertigine seguito da uno stato d’ansia, che generò paura.
«Cosa stai cercando?»
Mi girai di scatto. Quando la vidi, per un motivo a me ignoto, mi rasserenai. Era la ragazza mulatta che osservavo dentro al bar.
«I miei ricordi».
La ragazza non disse nulla, mi sembrava che la cosa non la sconvolgesse più di tanto. Forse non era così raro, come io pensavo, avere questi vuoti nella vita.
«E che cosa non ti ricordi di preciso?” incalzò lei.
«Niente. Solo qualcosa di vago. Una grande città nella quale stavo cercando qualcuno…».
Mi si avvicinò, ebbi un presentimento che non mi piacque, ma sarebbe stato difficile, se non impossibile, dargli ascolto. Una bella ragazza stava sfiorando il mio corpo. La ragione era stata rinchiusa in una stanzetta dalla passione.
Mentre la sua mano percorreva il mio avambraccio, fermandosi sulla spalla sinistra, ebbi la sensazione che mi sarebbe potuto succedere di tutto. Non mi ricordavo chi fossi e nulla della mia vita fino a pochi minuti prima. Mi avrebbero potuto derubare e gettare in un fosso…
Non so perché mi vennero quei tipi di pensieri, ero in uno stato confusionale e non sapevo a cosa fosse dovuto. La ragazza mi stava parlando.
«Come scusa?»
«Dicevo che se non hai fretta potresti salire un attimo da me. Sei un ottimo modello».
«Come scusa?»
“Ma per caso sei sordo?»
«No! Ma è tutto molto strano. Hai visto una bicicletta qui in giro? non la trovo più».
«Vedrai che ti tornerà subito la memoria. Forse hai bevuto un po’ troppo, o forse, hai preso una botta in testa. Dai vieni, non ti voglio mica mangiare».
La seguii. Allungai la mano e le presi la sua.
«Comunque io mi chiamo Francesca, e tu, te lo ricordi il tuo nome?»
Non risposi. Ci pensai a lungo, ma la mia memoria era completamente vuota.
«Non fa nulla, hai un nome in particolare che ti piace? Come devo chiamarti?»
Come mi doveva chiamare? In che razza di guaio mi stavo cacciando?

Non facemmo molta strada. Francesca abitava in una villetta non lontana dal bar-ristorante, ed era solita cenare lì.
Quando mi chiusi la porta alle spalle rimasi impressionato da tutti quei quadri.
C’erano dipinti appoggiati ovunque.
Stando attento a dove mettevo i piedi, raggiunsi la sala dove Francesca era entrata.
«Vado a sistemarmi e prendere alcune cose, mettiti comodo.”
«Dunque sei una pittrice!?»
«Anche» rispose sorridendo e andò nell’altra stanza.
Tornò dopo pochi minuti.
Non indossava più la maglietta gialla priva di scollatura: era nuda.
Sotto il braccio destro stringeva una tela che andò a posare sul cavalletto al centro della stanza. La guardavo, i miei occhi scorrevano lungo il suo corpo.
Aveva un seno giovane, non molto abbondante, ma i capezzoli, erano decisamente grandi. Il triangolo di peli neri, che guardavo con inopportunità, non era molto folto.
Lei notò l’insistenza del mio sguardo.
«Pensi sia meglio se indossassi una maglietta?»
«Penso che tu vada benissimo così».
Sorrise.
«La mia intenzione, per ora, è di dipingere. Sono abituata a stare nuda, è una caratteristica dei miei dipinti. Riesco a catturare meglio il mio soggetto».
Decisamente, mi limitai a pensare.

3

Un gran botto mi ridestò.
Qualcuno aveva sfondato la porta.
Un uomo, non molto alto ma robusto, si avvicinò con frenesia a Francesca. Capii dallo sguardo di lei, che lo conosceva. Rimase immobile, rigida, col pennello in mano. Lui la strattonò con violenza gettandola sul divano al mio fianco.
«Tu sei una puttana, non una pittrice. Te li devi scopare i clienti non fargli il ritratto». L’uomo mi guardò per la prima volta, solo un istante.
«Ti sei fatta pagare? ma cosa pensi che sia questo un gioco?»
Lo vidi estrarre da dentro lo stivale destro una pistola. Ero completamente immobilizzato. I miei occhi ad un tratto si incontrarono con quelli di lei, non mi sembrava spaventata ma… rassegnata. Sembrava dirmi – non ti preoccupare, fra pochi minuti riprenderò a farti il ritratto.
Le aprì le gambe con forza, vidi le labbra rosse della vagina contrarsi e la punta della pistola appoggiarcisi. Lui spinse, fino a fare entrare tutta la canna. Il suo corpo ebbe un fremito, percepii il dolore invaderla. Si spense una delle candele che stavano sul tavolo.
Non capivo cosa stesse succedendo. Poi d’un tratto vidi quell’uomo premere il grilletto.
La pistola non era carica. Si alzò estraendo la canna dall’interno di Francesca.
«La prossima volta ti uccido! Tu sei una puttana! Vedi di farti pagare».
Mi guardò per la seconda volta, ma non disse nulla. Mi girò le spalle e uscì.

Francesca si alzò dal divano, non mi guardava, si sentiva offesa.
Mi sembrò di vedere una lacrima, come un’ombra, muoversi sul suo viso, mi alzai anch’io, senza sapere bene cosa dover fare, cosa dover dire.
«No, non ti alzare, devo finire il tuo ritratto».
Rimasi sorpreso da quelle parole. Mi venne un pensiero. Mentre mi risiedevo ero avvolto dalla sensazione di dover fuggire da quel luogo.
«Forse stasera stavo andando alla ricerca di qualcosa, di una donna» dissi senza pensare troppo alla situazione.
«Ero abituato a starmene tutto il tempo al bar del mio paese. Mi sdraiavo su due tavoli e fingevo di essere morto… Poi arrivò lei. Mi innamorai… Ma lei viveva chissà dove, nella capitale immagino… ed io ora sono alla sua ricerca».
Francesca mi stava guardando. Sentivo una stretta allo stomaco, quella ragazza aveva la forza di farmi male. Non disse nulla in risposta a quell’assurda storia.
Dopo qualche ora mi si avvicinò.
«Il quadro è finito, lo vuoi vedere?»

4

Mi svegliai colpito dai raggi del sole.
Ci misi qualche secondo per abituare gli occhi alla luce. Mi guardai attorno: ero dentro la mia auto. Non avevo mal di testa, nessun male alla schiena: sembrava tutto a posto a livello fisico. Esitai qualche istante nel pormi domande. Ero curioso di sapere se mi fosse tornata la memoria. Vidi, in fondo al parcheggio, il bar in cui ero entrato la sera precedente. Mi tornò in mente la ragazza. Non era stato un sogno. Ma, cosa stupefacente, io quel bar lo conoscevo.
Ci sarò passato mille volte da qui, sono a Ponte di Castello, pochi chilometri da Faenza.
La memoria mi era tornata. Ma per quanto tempo ne ero rimasto privo? Sarei dovuto andare dal medico? e se non era la prima volta che mi capitava?
Ora mi ricordavo tutto, l’indomani sarei dovuto partire per Teramo, mi ci stavo trasferendo a vivere. Del resto lo scrittore lo avrei potuto fare in qualsiasi città. Finalmente il lavoro non era più un problema. Mi ricordavo tutto o quasi. La memoria costatai che si annebbiava quando ripensavo alla sera precedente. Avevamo fatto l’amore? Chi mi aveva riportato in auto? e perché?
Decisi di tornarmene a casa. Stavo accendendo la macchina quando mi si accostò una pattuglia della polizia.
Scesero entrambi dall’auto e mi si avvicinarono.
«Buon giorno, favorisca patente e libretto».
«Buon giorno».
Recuperai i documenti, tutto era in ordine nel portafoglio, e li porsi al poliziotto.
«Come mai qui a quest’ora?»
Gettai lo sguardo al cruscotto dell’auto, erano le sei del mattino.
Cercai qualcosa da dire, ma non mi venne nulla di intelligente. Rimasi in silenzio.
«Sto andando a casa». Farfugliai dopo un po’.
Vidi l’altro poliziotto avvicinarsi al collega. Mi squadrò e mi disse che avevo la patente scaduta da due anni.
Senza preavviso me ne uscii con una grande cazzata, una frase inopportuna.
«Sa, io soffro di perdita della memoria».

Mi ritirarono la patente. Grazie a un foglio che mi lasciarono potei andare fino a casa. Non potevo più guidare. Come avrei fatto il trasloco?
Prima di andarsene, i due poliziotti, mi dissero che se ero interessato a riprendere la guida, sarei dovuto andare in un’autoscuola e iscrivermi per riprendere la patente.
Fantastico.

Quando arrivai a casa avevo ancora quel senso di smarrimento che ti coglie dopo una forte sbronza.
Notai le valigie pronte a fianco del divano. Sulla scrivania c’erano dei fogli scritti a mano. Erano bozze del racconto.
Suonarono alla porta. Andai ad aprire. Era il proprietario di casa che veniva a riscuotere i soldi dell’affitto. Saldai il conto.
«Le auguro buona fortuna. Domattina può lasciare le chiavi al portiere, l’ho avvertito prima di salire».
Lo ringraziai e richiusi la porta.

Rincobaldo entrò in una libreria. Senza un motivo particolare, pensava fosse il luogo giusto per trovare una persona. Si aggirò per un po’ lungo gli scaffali. Prese in mano un libro: Una nuova vita, recitava il titolo.
Pensò ad Onirica, la sua amata, e percepì una sensazione strana, cos’è che realmente stava andando a cercare e perché, solo ora gli era venuto questo bisogno d’amore, a lui, il matto del paese.
Notò un quadro alla parete. Si avvicinò.
Si accorse, dopo averlo osservato a lungo, che il dipinto che stava guardando era un suo ritratto.

Milos Fabbri

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