Sul tentativo fragoroso di Massimo D’Alema

In occasione dell’assemblea della sinistra PD all’Acquario Romano, Massimo D’Alema ha attaccato frontalmente, senza troppi giri di parole, Matteo Renzi, accusandolo di arroganza e di gestione autoritaria del Partito. Mi sembra che non abbia detto nulla di trascendentale, ha semplicemente costatato i fatti e la poca disponibilità al confronto, ridotto spesso ad una conta a colpi di voti di maggioranza. Lo scopo di D’Alema era quello di unire tutta la sinistra PD contro la deriva autoritaria, invitando la platea a ritrovare un orgoglio perduto. Ha provato con arguzia, asprezze e colpi di sciabola ad innescare uno scontro vero.
Per la verità, il duello tra i due era cominciato molto tempo prima e ad iniziarlo fu proprio Renzi ancora sindaco di Firenze. Scelse D’Alema come nemico privilegiato contro cui scagliare le proprie invettive in nome della rottamazione. Perché D’Alema e non altri? Il leader maximo, meglio di altri, si prestava a personificare il prototipo del politico di professione, del funzionario di partito a tempo pieno, del militante a tutto tondo.
Questa figura, fino all’avvento del berlusconismo, non era percepita nell’immaginario del popolo di sinistra come negativa; anzi, in molti casi aveva il sapore romantico della generosità.
Dopo Berlusconi si è diffusa nel Paese un’idea populista della politica che non ha risparmiato neppure la sinistra. In nome del senso comune, Renzi ha scelto D’Alema come avversario principale; se il nemico è forte, maggiore è l’onore che ne deriva dalla sua sconfitta.
Renzi ha scelto D’Alema, perché più e meglio di altri proseguiva a rappresentare dentro il PD la continuità con la figura del dirigente che veniva dalla storia del PCI. Il ragazzo, il Davide di Rignano, aveva la necessità di dimostrare tutto il suo valore, rompendo definitivamente con un’area politica, quella di tradizione comunista. Voleva comunicare che stava traghettando il PD verso un nuovo corso che nulla doveva avere a che fare con il passato. Il nuovo nocchiero voleva la discontinuità, la rottura visibile, soprattutto con la forza più grande che veniva dalla storia della sinistra italiana, per rendere tutto più plastico. E cosa c’era di meglio della “rottamazione” di D’Alema?
Il disegno politico era chiaro, dietro la rottamazione non c’era solo un obiettivo di ricambio generazionale, ma un mutamento di paradigma. Le scelte politiche fatte dal suo Governo hanno rivelato il disegno in modo chiaro. I pretoriani di Renzi hanno sarcasticamente bollato le critiche il manifestarsi di “correnti e spifferi”. Non hanno risposto nel merito, ma hanno esibito i muscoli e alle critiche di gestione, hanno contrapposto il 40% dei consensi ottenuti alle elezioni europee. Come se il consenso fosse un bene in sé. Se un partito misura unicamente con il consenso il senso del suo agire c’è da preoccuparsi per la qualità, non solo di quel gruppo dirigente, ma anche per l’idea stessa di democrazia che ha. Il consenso non dice nulla, se sganciato dai contenuti per cui lo si è ottenuto. Nella storia ci sono stati casi eclatanti che hanno dimostrato come il consenso non sempre è lo strumento che garantisce la distinzione tra il giusto e lo sbagliato. Tra Gesù e Barabba, il secondo ottenne più consenso del primo, ma è lecito dubitare che fosse il migliore.
D’Alema ha posto un problema e lo ha posto ai suoi compagni della sinistra PD: come continuare e a stare dentro il partito. Molti elettori e militanti avvertono lo stesso disagio e non è con le invettive e le battute che il tema lo si può eludere.

Manuele Marigolli

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