TELESCOPE | racconti da lontano #186

EDITORIALE

Immaginate di fare una gita in un bosco insieme al musicista di origine indiana di nome Tarun Nayar: vi porterà ad ammirare gli alberi, a respirare profondamente l’aria, ad ascoltare la natura e voi stessi, e nel frattempo vi farà cogliere funghi e piante. Non vi preoccupate, non state per prendere parte a un’esperienza lisergica, ma musicale. Sì, perché da qualche anno Nayar con il progetto Modern Biology ha intrapreso un percorso che oggi lo ha reso una star, con centinaia di migliaia di follower sui social, e milioni di visualizzazioni dei suoi video in cui, usando sintetizzatori e impulsi elettrici, letteralmente suona piante e funghi.

Nayar riesce a creare circuiti elettrici con materiale organico capaci di produrre note musicali: una musica dal sapore ambient, che si riallaccia alla tradizione di Brian Eno e Terry Riley, ma anche alle ricerche di Peter Tompkins e Christopher Bird, raccolte nel controverso libro The Secret Life of Plant (1973), in cui si afferma la capacità delle piante di sentire e comunicare con le altre creature, compreso l’uomo. Ma il fine delle performance di Nayar non è solo l’ascolto.Un segnale elettrico trasmesso attraverso qualcosa che non è vivo sarà costante, come un ronzio, ma gli organismi causano variazioni, dice il musicista. E infatti alle sue performance ha notato come le persone reagiscano con stupore all’idea che un fungo possa alterare un segnale: “Porca miseria, è vivo! dicono al primo ascolto. Ed ecco infatti quale è l’obiettivo di Nayar: “può essere difficile ricordare che tutto è vivo. Questa è la connessione che sto cercando di stabilire. Se una camminata nella foresta o i canti delle balene, sono un modo di connettersi alla natura attraverso l’ascolto, Modern Biology consente alle persone di fare esperienza di qualcosa che normalmente non produce suono, di acquisire nuovamente consapevolezza del loro essere viventi e quella di far parte di un tutto. Forse così sarà più facile rispettare questa grande orchestra silenziosa di cui siamo solo un piccolo strumento.

In questa centottantaseiesima edizione di TELESCOPE, la nostra newsletter settimanale dedicata alle istituzioni e ai progetti culturali di cui siamo portavoce, tra i RACCONTI trovate Donatella Giordano, contributor e curatrice della rubrica di podcast Monologhi al Telefono di Artribune, con un testo dedicato al riallestimento Preistoria? Storie dall’Antropocene al Museo delle Civiltà di Roma; un estratto dal testo della curatrice di Museion Leonie Radine pubblicato nel libro HOPE, edito in occasione della mostra omonima in corso al museo di Bolzano; un estratto del testo critico della curatrice Chiara Nuzzi, sulla mostra di Paul Maheke The Purple Chamber, parte della diciottesima edizione del programma Project Room di Fondazione Arnaldo Pomodoro.

Nella sezione presentiamo VIDEO quello dedicato alla mostra Esther Stocker. Uno Scenario Mentale in corso negli spazi della Nuova Sant’Agnese a Padova sede della Fondazione Alberto Peruzzo, e una breve introduzione dedicata all’ultima puntata del podcast Che Domande! di Radio Festivaletteratura.

Tra gli EXTRA segnaliamo infine la proiezione dell’opera filmica di David Lamelas The Desert People promossa da Fondazione Antonio Dalle Nogare di Bolzano; la proroga della mostra Suzanne Jackson. Something in the World quinta edizione di Furla Series, promossa da Fondazione Furla alla GAM Galleria d’Arte Moderna di Milano; e l’instant display del graphic artist Majid Bita Il canto del dolore – promossa dalla Fondazione Brescia Musei e a cura dell’artista Zoya Shookoi – che inaugura al Museo di Santa Giulia all’interno della mostra Finché non saremo libere.

Buona lettura!

Lo staff di Lara Facco P&C

#TeamLara

Vi ricordiamo che l’archivio di tutte le edizioni di TELESCOPE è disponibile su www.larafacco.com

TELESCOPE. Racconti da lontano

Ideato e diretto da Lara Facco

Editoriale e testi a cura di Annalisa Inzana

Ricerca ed editing Camilla Capponi, Alberto Fabbiano, Martina Fornasaro, Marianita Santarossa, Claudia Santrolli, Denise Solenghi, Alessandro Ulleri, Carlotta Verrone, con la collaborazione di Margherita Animelli, Maria Ester Candido, Michela Colombo, Nicolò Fiammetti, Andrea Gardenghi, Agata Miserere, Margherita Villani, Victoria Weston e Marta Zanichelli.

domenica 10 dicembre 2023

RACCONTI

Può un museo antropologico essere un museo contemporaneo?, di Donatella Giordano

La creatività è una prerogativa imprescindibile di tutta l’umanità. Strumenti in pietra, figurine, ornamenti e pitture ne sono il primo segnale: testimonianze che aprono il sipario su un mondo antico ma così tanto connesso con quella che è stata definita come la nostra “Storia”. Sebbene non esistano testimonianze scritte di quella che viene indebitamente chiamata “Preistoria”, i numerosi reperti restituiscono l’immagine di un primo “animale terricolo” che sviluppa, in seguito al bipedismo, una serie di conoscenze tecniche, funzioni percettive e capacità di ragionamento, attuando il passaggio tra natura e cultura. Caratteristiche che si aggiungono ad altre abilità, come l’articolazione del linguaggio, l’interazione sociale e il rapporto con l’ambiente, tanto che in tre milioni di anni le dimensioni dell’encefalo raggiungono la capacità cranica attuale. Al Museo delle Civiltà di Roma, insieme alle numerose testimonianze di quella scala temporale che va dal Paleolitico fino all’epoca dei metalli, è possibile vederne un esemplare: il cranio neandertaliano Guattari 1, rivenuto al Circeo. Ma tra le testimonianze ritrovate, sono le orme di Laietoli, in Tanzania, ad avviare il nuovo allestimento Preistoria? Storie dall’Antropocene. Scoperte negli anni Settanta del Novecento, le tracce intrappolate nella materia, tramite l’eruzione del vulcano Sadiman, sono quelle di cinque antenati degli esseri umani, gli Australopithecus afarensis. Queste impronte fossili rappresentano l’alba di un periodo molto complesso, percorso da progressive radiazioni evolutive, migrazioni ed estinzioni.

A partire dall’Africa, considerata proprio la culla dell’umanità, gran parte della terra è stata colonizzata. Cacciatori e raccoglitori, prima nomadi e poi stanziali, hanno lasciato nel tempo un gran numero di evidenze culturali che dimostrano approdi di gruppo in Medio Oriente, Georgia, Romania, Francia, Spagna e Asia, anche a causa delle condizioni climatiche irregolari ed estreme. E l’analisi del DNA, oltre a confermare la connessione biologica con tutti gli altri organismi viventi – come anche riteneva Charles Darwin – rivela, per l’appunto, le più recenti migrazioni e il mescolamento delle attuali popolazioni umane. Impressionante, tra le altre cose, la ricostruzione di una testa appartenente a un uomo primitivo, che mette in luce come la pelle dei Neanderthal, parenti dei Sapiens, fosse chiara per adattamento agli ambienti in cui vivevano.

In un’ottica di cooperazione, gli ominini hanno creduto nella capacità di riunirsi per risolvere problemi alimentari e affrontare potenziali conflitti. Per quanto lontani dall’acquisizione di un apparato vocale comunicativo, gesti e suoni erano un importante mezzo per condividere informazioni sociali all’interno di gruppi sempre più numerosi. Dalla fabbricazione di utensili più sofisticati, all’uso del fuoco, all’adozione di una dieta più ampia costituita anche da cibi cotti, l’esperienza sulla terra delle diverse specie di Homo conducono a una sempre più evoluta capacità di adattamento che porta man mano allo sviluppo del linguaggio parlato sempre più articolato e fluente, alla sepoltura dei defunti, alla creazione di ornamenti personali, alla capacità di costruire imbarcazioni, nonché la produzione di dipinti e incisioni dai significati simbolici e religiosi.

Un racconto sempre più complesso che appartiene alla storia di ogni essere umano e che, se accuratamente approfondito, può aiutarci a superare insidiose convinzioni come l’etnocentrismo, il razzismo e il colonialismo.

Crediti: Preistoria? Storie dall’Antropocene Installation view at  Museo delle Civiltà, Palazzo delle Scienze © Giorgio Benni

SPERANZA: NON C’È ALTERNATIVA?, di Leonie Radine*

Nella parola speranza è implicita una dimensione temporale: l’attesa di una realtà̀ che non c’è ancora. Ma che cosa, e come, si può̀ sperare oggi? Come può̀ essere pensata la speranza, tralasciando idee di progresso orientate dal mercato o immagini reazionarie di benessere e sicurezza? C’è una terza via della speranza intesa come prassi critica per aprire nuovi portali verso futuri alternativi?

Davanti al moltiplicarsi delle crisi, si parla di nuovo e con sempre più̀ insistenza di “fine del mondo”. Ma che cosa si intende? La fine del genere umano, dell’umanità̀, della storia delle idee, della democrazia, della libertà, del capitalismo, della “salute” del nostro pianeta? [1]

Mahan Moalemi osserva che se “tutto ciò̀ che è escluso dalla condizione umana fosse considerato inseparabile dai processi di creazione del mondo, comprenderemmo che il futuro inteso come dinamica – del cambiamento e della sopravvivenza – deve tenere conto delle tante fini già̀ sperimentate da altrettante possibili storie universali” [2]. In che misura qui le fini equivalgono a un nuovo inizio in un altrove spazio-temporale? Modi di dire come “Il futuro sarà̀ luminoso” o “La luce alla fine del tunnel” potrebbero essere letti come frasi di speranza; tuttavia, diversamente dalla fiducia, la speranza non è soltanto una figura luminosa nel futuro, la cui solidità̀ promette uno sbocco felice; piuttosto, essa si situa nell’incertezza e nel buio e a volte scaturisce da paure, scetticismo, disperazione. In fondo, secondo il mito, soltanto la speranza rimane nel vaso di Pandora dopo che tutti i mali si sono riversati nel mondo. È, dunque, la speranza l’ultimo bastione dell’umanità̀ o il peggiore di tutti i mali? Al riguardo le posizioni sono molteplici [3].

Il discorso attuale, in particolare negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, ragiona sulla speranza in termini critici. Mentre Cruel Optimism (2011) di Lauren Berlant stigmatizza le promesse non mantenute del capitalismo e problematizza la passività̀ centrata sull’illusione che tutto andrà̀ meglio, Sara Ahmed, con la critica culturale mossa all’imperativo di essere felici, ammette, tra le altre cose, che il pessimismo è una strategia di sopravvivenza per evitare le delusioni [4]. Afropessimism (2020) di Frank B. Wilderson e Black Nihilism and the Politics of Hope (2015) di Calvin L. Warren [5] si spingono addirittura a descrivere la speranza nella fine delle ingiustizie come il problema cruciale delle indistruttibili strutture di potere razziste.

[1] Una domanda analoga è formulata da T.J. Demos nell’introduzione al suo nuovo libro, Radical Futurisms. Ecologies of Collapse, Chronopolitics, and Justice-to-Come, Sternberg Press, London 2023, p. 9.

[2] Mia libera traduzione delle parole usate da Moalemi per sintetizzare le questioni cruciali affrontate dal filosofo della tecnologia e teorico della cultura Yuk Hui durante la conferenza dal titolo “Ethnofuturity and the Many Ends of (World) History” da lui tenuta il 23 ottobre 2021 alla Luma Foundation di Arles, visibile online: https://www.luma. org/en/live/watch/ethno futurity-and-the-many-ends-of- history- history-dfab3590-926f-42a4-9810-49c862be8403.html (al min. 03:25, ultimo accesso 20 maggio 2023).

[3] Alcune posizioni ricordate di seguito nell’analisi (ovviamente selettiva) sui discorsi sulla speranza fanno parte della ricerca condotta da Birkan Taş presso l’Istituto per i servizi sociali dell’Università di Kassel. Le sue ricerche e i suoi progetti di comunità si propongono di riattivare la speranza, intesa come risorsa critica e forza politica trainante, entro sistemi politici autoritari, caratterizzati da insicurezza, pessimismo e disperazione. Cfr. Birkan Taş, Queering Hope, in Geoffrey Karabin, Hope in All Directions, Inter-Disciplinary Press, Leiden-Boston 2013, pp. 163-172.

*estratto dal testo della curatrice Leonie Radine, nel libro HOPE. Un’antologia di testi critici su speranza e futuri in tempi post-pandemici pubblicato in occasione della mostra HOPE in corso al museo fino al 25 febbraio 2024

Crediti:

[1] Ei Arakawa, Performance People, 2018/2019 (left), and Suzanne Treister, Rosalind

[2] Black Quantum Futurism, Write No History, 2021, exhibition view HOPE. Courtesy the artists. Photo: Luca Guadagnini

[3] Nicola L., Beatrice Marchi, Andrei Koschmieder, exhibition view HOPE. Museion 2023. Photo: Luca Guadagnini

[4] LuYang, Electromagnetic Brainology, 2017, exhibition view HOPE. Museion 2023. Photo: Luca Guadagnini

[5] Shu Lea Cheang, RED PILL, 2021, exhibition view HOPE. Museion 2023. Photo: Luca Guadagnini

Paul Maheke The purple chamber, di Chiara Nuzzi*

La mostra Paul Maheke. The Purple Chamber condensa negli spazi espositivi della Fondazione Arnaldo Pomodoro i temi e le ricerche che da sempre guidano il lavoro dell’artista e che ne hanno segnato nel tempo direzioni ed evoluzioni. Il progetto rappresenta il secondo appuntamento del ciclo espositivo Corpo Celeste / Celestial Body ideato per il programma Project Room 2023 della Fondazione ed è la prima mostra personale in un’istituzione italiana di Paul Maheke, una delle voci internazionali più visionarie e poliedriche della sua generazione. Attraverso una pratica che incorpora installazione, video, scultura, suono, disegno e performance, Maheke – nato in Francia nel 1985 da padre congolese e madre francese – considera il potenziale del corpo come archivio per esaminare la formazione e la costruzione di memoria e identità, mettendo in luce questioni relative alla storia e alla cultura dominanti, alla visibilità e alla rappresentazione. Nella sua pratica, l’artista è dunque profondamente e costantemente affascinato dalla sfida di rendere visibile l’invisibile proprio a causa dell’impossibilità di sfuggire al regime della rappresentazione. Se la pratica performativa è per l’artista un elemento centrale sin dagli esordi – spesso utilizzata per interrompere e resistere a una processualità lineare capace di innescare una narrazione che esplode in direzioni diverse – l’uso che Maheke fa dello spazio espositivo è a sua volta continuamente performante, pur senza comportare necessariamente la presenza fisica di corpi in movimento. Il suo interesse si rivolge alla performance soprattutto per la sua capacità di trascendere l’uso del linguaggio; il movimento, il gesto e l’ambiente diventano così veicoli per esplorare il limite, il potenziale e la trasformazione in relazione all’identità e alla percezione umana.

Anche in questa occasione, coerentemente con la sua pratica, l’artista utilizza il contesto espositivo come spazio di reinvenzione e riarticolazione; tale formato permette che elementi eterogenei si colleghino tra di loro in modo non gerarchico grazie all’allestimento, attraverso il quale si rivela a pieno il significato dell’opera stessa. Quasi come all’interno di un frattale, le opere coesistono e si concatenano tra loro. Per Maheke, queste sono dotate di una propria agency che si traduce attraverso l’allestimento rendendo gli oggetti, considerati alla stregua di corpi nello spazio, interconnessi e compartecipi nel processo di creazione. Quella di Maheke è dunque una pratica magmatica che si stratifica nel tempo; le sue mostre rappresentano occasioni di ricerca ed espansione volte ad approfondire le modalità trasformative del movimento nello spazio (che diviene il corpo stesso dell’artista) e le possibilità di incontro per il pubblico al suo interno.

*estratto dal testo critico della curatrice per la mostra Paul Maheke The Purple Chamber diciottesima edizione del programma Project Room, in corso alla Fondazione Arnaldo Pomodoro di Milano fino al 17 dicembre 2023.

Crediti: Paul Maheke, The Purple Chamber, 2023 curated by Chiara Nuzzi, Installation views. Courtesy the artist and Fondazione Arnaldo Pomodoro, Milano. Ph. credits Andrea Rossetti and Tiziano Ercoli

VIDEO

Geometrie al collasso

Se non conoscete le opere di Esther Stocker e non avete in programma un viaggio a Padova, vi consigliamo questo beve video che offre un assaggio del fascino matematico e “astrale” delle opere dell’artista altoatesina esposte fino al 3 marzo 2024 nello spazio della Nuova Sant’Agnese oggi sede della Fondazione Alberto Peruzzo. La mostra Esther Stocker. Uno Scenario Mentale a cura di Riccardo Caldura, presenta una selezione di opere pittoriche e scultoree, parte dell’ultima produzione dell’artista, che ben restituiscono tutta la profondità della sua ricerca contraddistinta da uno studio accurato delle relazioni formali primitive, delle griglie geometriche, della misurazione spaziale, e che in questa occasione sembrano mettere in atto un collasso strutturale, una decostruzione e polverizzazione delle regole geometriche.

GUARDA

Crediti video: Fondazione Alberto Peruzzo

Crediti immagine: Installation view. Esther Stocker. Uno Scenario Mentale. Fondazione Alberto Peruzzo. © Ugo Carmeni 2023

Che cos’è oggi il Mediterranero?

Questa domanda è solo uno dei tanti interrogativi spiazzanti che fanno da innesco alle puntate di Che Domande! il podcast realizzato da Radio Festivaletteratura che nel corso dell’ultima edizione del Festival, ha “interrogato” oltre trenta intellettuali, scrittori e scrittrici, scienziati e scienziate presenti a Mantova. Scritto e condotto da Verdiana Benatti e Giancarlo Cinini, con la produzione di Matteo Blasio e Stefano Santini e la collaborazione della redazione video di Festivaletteratura, Che domande! cerca risposte complesse a domande semplici, che riguardano problemi e discipline diverse che interessano noi, la nostra società e il nostro tempo. L’ultima puntata andrà online martedì 12 dicembre e promette la solita complessità, perché questa volta fa a Elisabetta Buciarelli, Monica Guerra, Manuela Manera e Vanessa Roghi, una domanda che tutti noi, da bambini, ci siamo fatti almeno una volta: Perché dobbiamo andare a scuola?

GUARDA

EXTRA

Desert People

Lunedì 11 dicembre alle ore 20.30 al Filmclub di Bolzano (Via Dr. Josef Streiter, 8/D – Ingresso libero fino a esaurimento posti), Fondazione Antonio Dalle Nogare presenta la terza “attivazione” della mostra David Lamelas. I Have to Think About It. Part II a cura di Andrea Viliani ed Eva Brioschi: la proiezione dell’opera filmica di Lamelas intitolata The Desert People (1974), introdotta dall’artista, in collegamento da Buenos Aires, e dal curatore Andrea Viliani.  Il film inizia come road movie con una Ford Torino che attraversa il deserto con un gruppo di viaggiatori a bordo: un viaggio interminabile che asseconda uno stato d’animo laconico e riflessivo, interrotto da interviste in stile documentario, in cui i quattro passeggeri raccontano le loro esperienze in una riserva di nativi americani. Prenota il tuo biglietto.

Crediti: David Lamelas, The Desert People, 1974. Film still. Courtesy of the artist

Ancora un mese con Suzanne

È stata prorogata fino al 14 gennaio 2024 la mostra a cura di Bruna Roccasalva Suzanne Jackson. Something in the World, quinta edizione di Furla Series, progetto di Fondazione Furla in collaborazione con la GAM Galleria d’Arte Moderna di Milano. La mostra, prima personale dell’artista statunitense in un’istituzione italiana, offre uno sguardo sulla sua ricerca che in più di cinquant’anni ha esplorato le potenzialità della pittura, della danza, del teatro e della poesia. La sua produzione inizialmente pittorica e figurativa, popolata di personaggi, animali, simboli ancestrali e riferimenti alla natura, si evolve negli anni avvicinandosi sempre più all’astrazione, fino ad approdare all’elaborazione di un vocabolario molto personale in cui la pittura si libera anche del supporto e diventa puro colore, scultoreo e ambientale. Somethings in the World nasce dall’idea di ripercorrere e presentare le diverse fasi della produzione di Jackson attraverso ventisette opere, tra lavori iconici, inediti e nuove produzioni, che si confrontano con il contesto della GAM e le opere della collezione permanente. Una mostra da non perdere.

Crediti: Furla Series – Suzanne Jackson. Somethings in the World, 2023. Installation view of the exhibition promoted by Fondazione Furla and GAM – Galleria d’Arte Moderna, Milan. Ph. Andrea Rossetti. Courtesy Fondazione Furla

Il canto del dolore

A un mese esatto dall’apertura, il Museo di Santa Giulia arricchisce la mostra Finché non saremo libere – mostra dedicata alla condizione femminile nel mondo con un focus sull’Iran – con un nuovo capitolo: l’instant display Il canto del dolore di Majid Bita. Risultato di un intenso scambio durato ventiquattro ore tra la curatrice Ilaria Bernardi, l’artista Zoya Shokoohi, il creatore di immagini Majid Bita e il pubblico della mostra, avvenuto durante l’inaugurazione dell’11 novembre, l’instant display presenta 38 racconti per immagini realizzati con acquerelli e china, insieme a 13 opere dello stesso graphic artist, che diventano contrappunti iconografici di una creazione artistica partecipativa tra l’artista e gli ospiti. A curare Il canto del dolore è Zoya Shookoi, artista i cui lavori sono esposti in mostra e connazionale dello stesso Majid Bita, che ha scelto di allestire le opere animandole in un abaco visivo di cinque storie, dando vita e voce ai protagonisti di queste immagini straordinarie in un flusso narrativo che attraversa la notte, per parlare di propaganda, ma anche guerra, ribellione e militanza.

Il progetto verrà presentato al pubblico mercoledì 13 dicembre alle ore 18.30 quando, proprio nel cuore dello spazio espositivo, si terrà un talk tra l’artista Majid Bita e l’artista curatrice Zoya Shookoi.

Crediti: Majid Bita

Sei un giornalista, un critico, un curatore?

Vuoi contribuire con un tuo scritto a una delle prossime edizioni di TELESCOPE?

Scrivici su telescope@larafacco.com

Se vuoi ricevere TELESCOPE anche tu, scrivi a telescope@larafacco.com

L’archivio completo di TELESCOPE è disponibile sul sito www.larafacco.com