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A Torino 70 capolavori della Tate Britain

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La bellezza pensosa di dame in abiti rinascimentali, il gelido fascino delle rovine, una natura grandiosa ma silenziosa, l’anticipazione delle atmosfere simboliste. Questo e altro ancora ha rappresentato la pittura preraffaellita, alla quale rende omaggio la splendida Preraffaelliti. L’utopia della bellezza, che la città di Torino
ospita fino a luglio.

Ophelia - Millais
Ophelia (Millais)

La mostra è stata articolata, dalla curatrice Alison Smith della Tate Britain, in sette sezioni, La Storia, La Religione, Il Paesaggio, La vita moderna, La Poesia, La Bellezza, Il Simbolismo, cogliendo in tal modo tutto l’arco tematico dell’avventura della Confraternita. Così John Everett Millais, Dante Gabriele Rossetti, e William Holman Hunt, i tre artisti fondatori, chiamarono il loro cenacolo, rivestendolo di un’aura misteriosa, vagamente cospiratoria, che i loro scopi si prefiggevano, ovvero cambiare radicalmente la società attraverso l’arte, secondo i dettami e gli dieali del primo Rinascimento – anteriore appunto a Raffaello -, cui Oscar Wilde farà preciso riferimento ne Il ritratto di Dorian Gray. All’Urbinate, questi pittori contestavano di “aver corrotta l’arte esaltando l’idealizzazione della natura e il sacrificio della realtà, in nome della bellezza”, aprendo di fatto la strada all’accademismo.
La Confraternita nacque nel 1848, con l’Inghilterra attraversata dal vortice della Seconda Rivoluzione Industriale, foriera di profondi cambiamenti negli usi e nei costumi quotidiani, ma anche di un ripensamento del ruolo dell’artista nella nuova società che si stava formando. Artista che invece, a loro dire, avrebbe dovuto mantenere quel ruolo di coscienza critica della società, e allo stesso tempo depositario dei valori, anche intellettuali, del passato. Lear, Ofelia, Cordelia, Claudio e Isabella; i Preraffaelliti rendono omaggio alla storia, al limite del leggendario, dell’Antica Albione, citando, al contempo, le atmosfere, fra epico ed esistenziale, cantate da William Shakespeare, autore capace di anticipare atmosfere decadenti, e che, nelle sue opere teatrali ha sfoggiate qualità di attenta prosa stilistica densa di particolari, dagli abiti dei personaggi, alle atmosfere, alle architetture. Che l’eleganza sia questione di dettagli, è assunto innegabile, così come innegabile è il fatto che da tali dettagli scaturisca la Bellezza, quella con l’iniziale maiuscola, quella dei poeti e dei sognatori. Per questa sua caudictà, la Bellezza è un attimo che soltanto lo sguardo può catturare. Eppure, i Preraffaelliti riescono nel “miracolo” di eternarla, adornandola con tutta una serie di concettualità legate alle istanze sociali, alla storia, all’insofferenza nei confronti della morale borghese. E un’apposita sezione della mostra omaggia questo sentire con le affascinanti dame di Dante Gabriele Rossetti, quali Monna Vanna, Monna Pomona, Aurelia, Proserpina. Donne accomunate da una bellezza ridondante d’eleganza, non priva di drammaticità che si desume dai loro sguardi pensosi. Donne diafane e sensuali insieme, che si riallacciano alla Gioconda, intensificando però la presenza iconografica, ovvero apportando drammatica carnalità alla serenità rinascimentale leonardesca.
Una mostra che si apre con la splendida e suggestiva Ofelia di John Everett Millais, sorpresa nell’abbandono della morte. Un abbandono tuttavia sereno, che fa pensare ai toccanti versi di Shelley per l’Adonaïs, dove la morte altro non è che il risvegliarsi da quel sogno chiamato vita. Il corpo della giovane dama giace abbandonato nello stagno, dove si specchia una lievemente inquietante vegetazione dipinta di un verde brillante, che contrasta con le ombre della fitta boscaglia in secondo piano. La mortale bellezza di Ofelia, è impreziosita dall’eleganza dell’abito di broccato, di cui Millais riproduce con maestria le decorazioni argentate. L’omaggio al Grande Bardo lo offre Henry Wallis, che ne La stanza in cui nacque Shakespeare, mostra le umili, dignitose origini del poeta, con particolari quali l’assito del pavimento, l’ampia stanza spoglia di mobili se non poche sedie e uno scrittoio, ingombri di volumi e pergamene.
Ma ad attrarre i Preraffaelliti non erano soltanto questioni di talento letterario; anche lo stile di vita, gl’ideali, l’afflato rivoluzionario, erano motivi d’interesse. Particolare ammirazione suscitava in loro il poeta Thomas Chatterton, suicidatosi con l’arsenico ad appena 18 anni, nel 1770. Fra i primissimi “geni maledetti”, fu considerato anche dai Romantici un personaggio di culto, ma interessò i Preraffaelliti per i suoi componimenti poetici che si rifacevano agli autori medievali. Atmosfere claustrali, epiche e tragiche insieme, che affascinarono la Confraternita molto più che i contemporanei; Chatterton non conobbe il successo in vita, e la decisione di suicidarsi fu presa a seguito delle amarezze patite. Wallis, nella tela Chatterton, lo ritrae subito dopo l’assunzione del veleno, disteso sul letto, con i calzoni azzurri che contrastano con il pallore livido del volto, la mano destra abbandonata sull’assito. Dalla finestra aperta, s’intravede il panorama di Londra, e si distingue la cupola della Cattedrale di St. Paul.
Ma al recupero delle radici dell’antichità inglese, con il suo patrimonio di poeti e leggende, l’arte preraffaellita affianca anche un sentire sociale vicino al Cartismo, un movimento popolare nato nel 1836, e che trovava il suo fondamento nella People’s Charter, programma di riforma del sistema elettorale che aveva, fra i suoi punti, il suffragio universale maschile, l’elezione annuale del parlamento e l’abolizione del censo per l’elettorato passivo, oltre a una riforma del sistema delle pesanti condizioni di lavoro operaie. Il documento venne presentato alla Camera dei Comuni nel 1838 e nel 1842, e il mancato accoglimento dette luogo a dimostrazioni che sfociarono in violenze; il movimento, anche se a fasi alterne, tenne in scacco il Paese, fino all’accoglimento pressoché completo delle sue richieste, nel 1872. La vicinanza “ideologica” dei Preraffaelliti ai Cartisti, si spiega con l’anelito dei primi verso una pittura più vera, capace di esprimere quelle istanze etiche e sociali manifestate dal popolo, e che la corrotta civiltà industriale aveva lasciate da parte. Una tematica che trova riscontro nella sezione dedicata alla società inglese a loro contemporanea, dove spicca il suggestivo Risveglio di Coscienza, di Ford Madox Brown, il quale pur non essendo membro effettivo della Confraternita, influì in modo significativo sullo stile del gruppo, ed è oggi presente in mostra.
Innovativo fu anche l’approccio al paesaggio, non più inteso come una visione d’insieme, ma come un insieme di particolari, che dona un rinnovato realismo non privo di tensione, alla natura. In questo senso, La caccia, di William Davis, presenta la brughiera inglese deserta – della quale quasi si avverte il profondo silenzio -, e un capriolo appena ucciso in primo piano dal cacciatore a sinistra. Suggestiva l’atmosfera di Campo di fieno, di Ford Madox Brown, una scena campestre in notturna, con i contadini che ammontano il fieno sotto una pensosa luna piena, e un pittore, presumibilmente lo stesso Brown, che osserva la scena sdraiato ai piedi di un covone.
Ma il culto del passato, delle atmosfere su cui aleggia un senso di morte, il culto delle rovine, delle atmosfere silenziose e sottilmente sofferenti, influenzeranno profondamente la successiva corrente Simbolista, e la sezione di chiusura della mostra documenta la tarda maturità di Edward Burne-Jones, nel cui stile la linea, il colore, l’espressione tendono all’ideale e al fantastico.
Una mostra che nelle sue sezioni riassume con efficacia la parabola della pittura preraffaellita, e attraverso la suggestiva illuminazione soffusa delle sale, suggerisce il clima quasi cospiratorio, di leggenda e vaga trasgressione che caratterizzò la Confraternita. Di essa non sopravvivono soltanto le opere, ma anche i personaggi, nel senso che il loro stile estetico ha influenzata buona parte della cultura, alternativa e non, dell’ultimo quarto del Novecento; dalla moda di Lagerfeld e Galliano, alla musica dei Cure e dei Joy Division. Ma questa è un’altra storia.
Tutte le informazioni su orari e biglietti, al sito www.mostrapreraffaelliti.it.

Baccio Bandinelli, il rivale di Michelangelo

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Non sempre la Storia rende giustizia agli uomini di talento, e può capitare che la loro cifra più autentica, riemerga all’attenzione dei posteri soltanto dopo un lungo oblio. Accade anche con il poliedrico Baccio Bandinelli, che fu tra i massimi interpreti dell’essenza del Tardo Rinascimento, un periodo artisticamente fecondo ma politicamente e socilmente instabile, con la città di Firenze in bilico fra la Repubblica e il Ducato mediceo, stretta fra il puritanesimo di Savonarola, l’indecisione di Piero Soderini, e la vendetta di Papa Clemente VII, che riportò i Medici al potere. Un periodo di crisi, certo, ma al cui interno si muovevano personalità di genio quali Machiavelli, Guicciardini, Michelangelo, Pontormo, Rosso Fiorentino, e appunto Bandinelli.
Nel 450° anniversario della scomparsa di Michelangelo, Firenze inserisce – fra le celebrazioni che ricordano il genio di Caprese -, un evento dedicato al suo maggior “rivale”

Bandinelli
Disegno di Baccio Bandinelli

dell’epoca, quel Baccio Bandinelli, nome de plume di Bartolommeo Brandini, che fu una personalità complessa, dall’indiscusso e molteplice talento artistico, non soltanto un grande scultore. Così lo definisce la Soprintendente Acidini, salutando con soddisfazione Baccio Bandinelli Scultore e Maestro (1493 – 1560), la prima mostra monografica sull’artista, curata da Betarice Paolozzi Strozzi e Detlef Heikamp, e organizzata dal Museo Nazionale del Bargello, in collaborazione con la Soprintendenza fiorentina, Firenze Musei, il MiBACT e il Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi.
Ambientata nelle sale del piano terra del Bargello, fra cui la prestigiosa Sala di Michelangelo, concentrata su 94 capolavori fra sculture, bronzetti, incisioni e disegni, la mostra è l’affascinnate (ri)scoperta di un artista che fra i contemporanei godé fama non troppo lusinghiera, accusato di superbia e scontrosità di carattere. In particolare, poco lo amarono Vasari e Cellini. Ma mentre il primo, nelle sue Vite, ne riconosce la statura artistica, i rapporti fra il secondo e Bandinelli furono improntati allo scontro e alla polemica, e a distanza di secoli vi si ravvisa quel temperamento ardente ch’è proprio della Toscana popolaresca più autentica, quale non dispiaceva a Malaparte. Il genio accompagnato all’ambizione, e a quelle piccole, più o meno bonarie, invidie di campanile che danno la misura del fiero sentire di un popolo.
Figlio di Michelangelo Brandini, orafo di casa Medici, Baccio fu allievo del Rustici, e subì l’influenza di Michelangelo, ravvisabile in particolare nel monumentale Ercole e Caco, oltre che negli studi anatomici e di figura, eseguiti a matita. Protetto da Cosimo I, divenne lo scultore ufficiale della Corte medicea, stanti anche le opinioni republicane del Buonarroti. La mostra si apre sui suoi anni giovanili, a confronto con i contemporanei quali Michelangelo, Jacopo Sansovino, il Tribolo e Benvenuto Cellini. Accanto a sculture quali Adamo ed Eva, il busto di Cosimo I, la Flagellazione, spicca Leda e il Cigno, un dipinto dell’artista non ancora ventenne, ed esposto epr la prima volta in Italia dietro prestito della Sorbona. La mostra prosegue con i bronzetti, i disegni e le incisioni; i pochi bronzetti rimasti provengono in buona parte dalla colelzione del Bargello, e mostrano tutta la fierezza dell’uomo rinascimentale, in questo avvicinandosi Bandinelli a Michelangelo, per il quale sempre nutrì ammirazione ma mai invidia, al contrario di quanto riporta il Vasari nelle sue Vite. Provenienti dal GDSU, i disegni danno la cifra della modernità di Bandinelli. Come spiega Detlef Heikamp, la sua grandezza sta nell’aver inventata l’accademia, ovvero nell’influenza che il suo stile nel disegno avrà sui posteri. Uno stile ancora attuale per l’espressività che dimostra, come si evince da opere quali l’Entrata di Cristo a Gerusalemme, o l’Ecce Homo; la tensione quasi caricaturale dei volti, e l’approfondimento psicologico che ne deriva, avranno un’infleunza decisiva su William Hogarth, considerato ancora oggi l’iniziatore della caricatura teatrale prima, e cinematografica poi. La radice del character hogarthiano sta nei disegni di Bandinelli, passando per Callot.
A chiudere la mostra, una scelta di ritratti, autoritratti e “invenzioni”, a rimarcare la poliedricità di un artista che ispirò molti contemporanei, fra i quali Andrea del Minga. Fra le opere originali, una serie di autoritratti, sia giovanili sia in età matura, sia dipinti sia scolpiti, oltre a incisioni di artisti contemporanei eseguite su suoi bozzetti.
Una mostra che, attraverso la figura di Bandinelli, ci accompagna nella fecondità artistica del Tardo Rinascimento, e propone interessanti confronti fra artisti diversi. Ad aggiungere un tocco d’eleganza, il rosso della pannellatura dell’allestimento, coloro tipico del Cinquecento fiorentino.
La mostra è visitabile fino al 13 luglio. Tutte le informazioni su orari e biglietti, al sito www.unannoadarte.it.

Niccolò Lucarelli

Le microfratture del David di Michelangelo

David di Michelangelo
David di Michelangelo

Ha i suoi acciacchi, leggi microfrattura. È il David di Michelangelo che, nei secoli, ha subìto giocoforza spostamenti, più o meno pericolosi, e si è preso pure le martellate su un piede all’inizio degli anni Novanta. Vandalismo a parte, a causa del suo inestimabile valore, è stato oggetto di molte analisi di stabilità rivolte in particolare a una serie di micro-fratture della porzione inferiore di entrambe le gambe, notate già dalla metà del XIX secolo. Visibili nella caviglia sinistra e nel tronco destro, minacciano la stabilità dell’opera e quindi una loro approfondita conoscenza è indispensabile per la salvaguardia di questo capolavoro.
Un gruppo di ricercatori dell’Istituto di geoscienze e georisorse del Consiglio nazionale delle ricerche (Igg-Cnr) e dell’Università degli Studi di Firenze ha eseguito un approccio sperimentale su repliche in gesso della statua a scala ridotta (10 cm di altezza invece di 410), deformate all’interno di una centrifuga. I risultati sono pubblicati sul Journal of Cultural Heritage.
“Durante la rotazione all’interno dell’apparato, i modelli a piccola scala sono sottoposti a forze molto più elevate della forza di gravità, ma che agiscono con le stesse modalità”, spiega Giacomo Corti dell’Igg-Cnr. “In differenti prove, le piccole statue sono state sottoposte a una forza centrifuga crescente, rendendo la statua sempre più ‘pesante’, finché gli sforzi gravitazionali superano la resistenza del materiale e si giunge alla rottura”.
Gli esperimenti hanno analizzato l’influenza di vari parametri. “In particolare, i risultati suggeriscono come sia la stabilità sia le caratteristiche della deformazione del David siano principalmente dovute all’inclinazione della statua. Innanzitutto, maggiore è l’angolo di inclinazione, maggiore è l’instabilità della statua sotto il proprio peso, particolarmente per inclinazioni maggiori di 15°. Inoltre, l’inclinazione influenza anche la posizione delle fratture, che tendono a interessare porzioni via via più alte: nella gamba destra, sopra i 15° la frattura avviene sempre al di sopra del tronco d’albero”, prosegue il ricercatore.

David di Michelangelo
David di Michelangelo

La comparazione di questi risultati con le lesioni rilevate sul David reale suggeriscono che “una costante inclinazione della statua, ancorché non superiore a 5°, abbia rappresentato il fattore critico per lo sviluppo dei sistemi di fratture nelle porzioni inferiori di entrambe le gambe”, conclude Corti. “Questa piccola inclinazione è probabilmente legata all’abbassamento non uniforme, con conseguente piccola rotazione del plinto su cui poggia la statua, durante la sua permanenza di fronte a Palazzo Vecchio, tra il 1504 e il 1873”.

Quei complimenti di Boškov al Prato di Meregalli

Approdato alla Sampdoria per un grande progetto, quello che porterà i genovesi alla conquista dello scudetto, a la vittoria in Coppa delle Coppe e a un passo dall’affermazione in Coppa dei Campioni, Vujadin Boškov trovò addirittura il modo per apprezzare il Prato. “Una buona squadra – disse alla fine del primo turno di Coppa Italia 1989-90 – con bravi giocatori. Complimenti al Prato”. Prato che, in quell’unica gara di Coppa di 25 anni fa, perse 2 a 0 contro i detentori del trofeo, la Samp di Boškov, appunto, in una partita giocata la sera del 23 agosto 1989, sul neutro di Carrara. Certo, allo stadio dei Marmi il pronostico era d’obbligo. Prima nominata la squadra pratese, reduce da due esaltanti stagioni in C1 e da un’estate di contestazioni per il mancato ingresso in società di Romano Conti (lo sponsor Centromatic) e per la cessione di ben 6 pedine fondamentali a rivali storici come quelli dello Spezia. Fu allora che il Prato venne ribattezzato Toccafondese e iniziò a perdere, in una nuova emorragia, sostenitori.
Contro i blucerchiati di Boškov, che erano una delle squadre più forti d’Europa, i biancazzurri di Prato relegati, come spesso accade in estate, lontano da casa, se la cavarono bene. Allo stadio dei Marmi, il 2 a 0 maturò col gol di un campione del calibro di Gianluca Vialli, in rete a 10 minuti dal termine del primo tempo. Partita in bilico, con buone giocate del Prato e pur controllata dalla Samp, fino al termine. Il 2 a 0 di Fausto Salsano arrivò a 4 minuti dal fischio finale. E poco prima dei complimenti di Boškov alla squadra di Giovanni Meregalli, a lungo e a fasi alterne allenatore del Prato che, quell’anno, in panchina, durò una manciata di giornate.
Il Prato giocò la stagione successiva (1990-91) in C2. La Sampdoria vinse lo scudetto.

Boškov scudetto Samp

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Vujadin Boškov nell’intervista televisiva, subito dopo la fine della partita che consegnò alla Sampdoria, nel 1991, il primo e unico scudetto della sua storia.

Chen contro Chen

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Giorgio Bernardini
Chen contro Chen. La guerra che cambierà Prato  (Roma, Round Robin Editrice, 2014)

Giorgio Bernardini
Giorgio Bernardini

Di fronte ad un albero lo storico si mette alla ricerca delle radici, poi risale lungo il fusto. Il giornalista invece ne osserva le foglie, e annusa l’odore dei suoi fiori, coglie l’attualità della pianta. Giorgio Bernardini, da giornalista, ha fatto così: si è incamminato per le strade della città, ha scrutato, annusato, scambiato parole, intuito stati d’animo. Non ha scritto un libro per il passato, ma per il futuro, parlando della “guerra che cambierà Prato”. Ha scandagliato il fondale tra stereotipi, false leggende e pregiudizi, che vogliono la “comunità cinese” sempre uguale a sé stessa, ingessata nelle sue dinamiche e nelle sue gerarchie interne. E uguali a sé stesse sono i 25 anni di parole annegate nel provincialismo pratese, quando si parla di cinesi. Ma c’è una guerra nella guerra: c’è quella di posizione tra “pratesi” e “stranieri”, e un’altra tutta interna alla parte orientale. Nelle trincee del Macrolotto Zero Bernardini ci fa vedere una “drôle de guerre” intergenerazionale, che sarà decisiva per il futuro economico e sociale di Prato. Ci sono i contrasti, i litigi, le parole di figli contro padri, con le seconde e terze generazioni che forse stanno cambiando idee, abitudini, relazioni, stretti tra la tradizione del progetto del “ritorno” e l’alternativa di un progetto di vita in Italia. La geometria in voga andrebbe rivista e corretta, le parallele distrettuali sono piuttosto un fitto insieme di secanti, che potrebbero divenire convergenti. Chi delle due trincee farà la prima, concreta mossa di avvicinamento? E nella trincea cinese riuscirà il giovane Chen a imporsi sul vecchio Chen? Le due domande sono talmente collegate da indurre Giorgio Bernardini ad abbozzare due provocanti provocazioni. La prima è che nessuno ha mai pensato davvero -checché se ne dica nelle campagne elettorali- di mandare via gli stranieri da Prato, cinesi compresi, pena l’inaridimento cittadino. La seconda riguarda il patto sociale che reggeva la città e che ora si è sfaldato. Quel “patto tacito” tra forze sociali, economiche e politiche al quale Claudio Martini da sindaco si appellava, di fronte alla crisi strutturale del cardato; un patto cittadino non scritto, che Paolo Giovannini non ebbe timore a definire “sistema neocorporativo”. Bernardini, sulla scia, ritiene a ragione quel patto improponibile e irripetibile, aggiungendovi implicitamente un’altra considerazione provocatoria: le giovani generazioni di “indigeni”, cresciute nel declino e nella crisi, saranno in grado di ripensare e riprogettare la città? Se la risposta è no, allora toccherà a qualcun altro farlo, forse proprio al giovane Chen, in parte o in toto.

Le conclusioni verso cui si orienta Giorgio Bernardini sono necessariamente bifronti. C’è un elemento di certezza, dato dal fallimento del ventaglio di ricette sin qui proposte, dal pragmatismo al solidarismo, dal buonismo all’intransigenza. C’è poi un elemento di incertezza, raccontato a mo’ di novella del futuro, con il sindaco e il presidente degli Industriali che si chiameranno Chen.

Superata l’enfatica lettura romanticista sulla “ascesa e caduta dell’Impero Romano”, oggi è possibile affrontare la questione in termini di storia delle migrazioni. Si scopre allora che il declino e il crollo dell’Urbe non sono altro che fasi di trasformazione. Si scopre allora che l’invasione dei barbari è una fase delle migrazioni di popoli che incontrano il diritto romano, un mélange dal quale emerge la versione carolingia del precedente latino. Dunque: dopo l’ascesa e la caduta dell’impero del tessile può nascere qualcosa di altrettanto valido, nell’incontro con la “invasione barbarica”?

Riccardo Cammelli

La strage di Cefalonia. Una medaglia di troppo?

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Il generale Antonio Gandin
Antonio Gandin

La strage di soldati italiani a Cefalonia fu compiuta dai reparti dell’esercito tedesco della 104° Jager Division e 1° Gebirgs Division. Nell’ultima fase dell’eccidio, si unirono alla terribile impresa anche i soldati del 966° Reggimento granatieri da fortezza e del 201° Battaglione semoventi d’assalto.
Più di 5000 fra soldati e ufficiali italiani furono passati per le armi e sepolti in fosse comuni o caricati su barconi ed affondati in mare. In gran parte, erano componenti della 33° Divisione Acqui comandata dal generale Antonio Gandin, ma anche carabinieri della 27° Sezione mista, da reparti del 1° battaglione finanzieri e da marinai del locale Comando Marina che presidiavano le mitragliere costiere.
Alle 21,30 dell’8 settembre 1943, il generale Vecchiarelli, comandante dell’11° Armata Italiana inviò un messaggio al generale Gandin che testualmente recitava: «Seguito conclusione armistizio, truppe italiane 11° armata seguiranno seguente linea di condotta. Se tedeschi non faranno atti di violenza armata, italiani non, dico non, faranno causa comune con ribelli né con truppe anglo-americane che sbarcassero. Reagiranno con forza ad ogni violenza armata. Ognuno rimanga al suo posto con compiti attuali. Sia mantenuta con ogni mezzo disciplina esemplare. Firmato Generale Vecchiarelli».
Alle prime reazioni di stupore e di gioia, seguì tuttavia la difficoltà di attuare un simile ordine quantomeno contraddittorio. Subito vennero rafforzate le difese del quartier generale italiano ed il generale Gandin iniziò una trattativa per il passaggio ai tedeschi delle postazioni che fino ad ora erano state comuni, così come previsto anche dagli ordini del comando generale. Durante le trattative sia i tedeschi che gli italiani cercarono di prendere tempo ma intanto agli ufficiali germanici vennero impartiti ordini precisi sul comportamento da tenere in caso di resistenza italiana.
Gandin si consultò con i suoi ufficiali ed emerse che la maggioranza non condivideva un’eventuale cessione delle armi pesanti ai tedeschi. L’11 settembre i tedeschi presentarono un ultimatum a Gandin nel quale chiedevano la consegna di tutte le armi, non solo di quelle pesanti. Intanto, dalle vicine isole venivano fatti affluire rinforzi tedeschi. Gandin cercando di prendere tempo consegnò una richiesta di chiarimenti, ma la quasi totalità dell’artiglieria della Divisione Acqui, i reparti della Regia Marina, dei Carabinieri e della Finanza si rifiutavano categoricamente di consegnare le armi.
Iniziarono le prime scaramucce e il comando italiano impartì ordini per il riposizionamento di truppe e postazioni. Tra le truppe italiane cresceva tuttavia il disagio nei confronti dello Stato Maggiore. Sembra che un soldato sia arrivato a scagliare una bomba contro l’auto di Gandin. Quasi tutti gli ufficiali dichiararono di essere pronti a resistere.

Ordine del comando italiano al generale Gandin
L’ordine esplicito al generale Gandin di trattare i tedeschi come nemici

Il 13 settembre, mentre i tedeschi iniziarono a bombardare alcuni pontoni italiani e continuava l’affluenza di rinforzi germanici, Gandin diffondeva un messaggio alle truppe che recitava: «A tutti i corpi e reparti dipendenti. Comunico che sono in corso trattative con il Comando Supremo Tedesco allo scopo di ottenere che alla divisione vengano lasciate le armi e le relative munizioni. Il generale di Divisione Comandante Gandin».
Scontri di piccola entità si facevano sempre più frequenti. I tedeschi tentarono anche di ammainare la bandiera italiana ad Argostoli, ma un drappello italiano si oppose e, ad armi spianate, riposizionò la bandiera sul pennone della piazza del capologo.
Gandin come segno di buona volontà alla trattativa fece abbandonare alle truppe italiane le alture dell’isola. La decisione suscitò le ire di molti ufficiali che intravidero in questo l’impossibilità successiva ad una seria difesa. C’è chi parla addirittura di uno scontro nell’alto Comando di Divisione durante il quale i Comandanti Apollonio, Pampaloni ed Ambrosini arrivarono a ipotizzare un tradimento del Generale Gandin e del suo vice Gherzi.
Il 14 settembre Gandin comunicò ai tedeschi che gli ufficiali e le truppe non intendevano cedere le armi non fidandosi della promessa del loro rimpatrio.
IL 15 settembre i tedeschi conclusero il loro rafforzamento con l’arrivo di ulteriori compagnie da montagna degli Jager Granadier agli ordini del maggiore Von Hirschfeld ed il comando generale fu assunto dal generale Lanz. Quella stessa mattina i soldati tedeschi, con l’appoggio dell’aviazione, attaccarono le truppe italiane.
I nostri soldati contesero le posizioni per una settimana ma l’aver abbandonato le alture comportò uno svantaggio tattico determinante. Dal 16 al 21 settembre la resistenza fu accanita ma, quando vennero a mancare le munizioni a diverse piazzeforti, non restò che la resa.
Fu a quel punto che iniziò il massacro. A piccoli gruppi i soldati italiani vennero tutti fucilati. I pochi che si salvarono perché arresisi per primi, vennero inviati in Germania nei campi di sterminio.
Cinquemila fucilazioni. I resti gettati in cisterne, fosse comuni o caricati su barconi e affondati in mare.
Secondo Giorgio Rochat, la Divisione Acqui avrebbe perso in combattimento 1200 soldati, 5000 nei massacri seguenti, mentre i tedeschi fanno addirittura salire quest’ultimo numero a 6500. Vengono fucilati anche il generale Gandin e 193 ufficiali tra il 24 e il 25 settembre. Altri 17 marinai sono massacrati dopo aver sepolto i corpi dei loro compagni. Anche lo storico Arrigo Petacco e l’Anpi concordano su queste cifre.
Nel dopoguerra arrivarono le medaglie. I processi conclusi negli anni Sessanta portarono a qualche condanna mai scontata, tranne coloro che furono giudicati a Norimberga.
Anche al generale Gandin fu assegnata la medaglia d’oro al valor militare come ad altri ufficiali e soldati che morirono difendendo l’onore dell’Italia. Ma la meritava?
Quando fu concessa non era ancora noto il contenuto della notifica delle ore 12 del 14 settembre al tenente colonnello tedesco Barge: «La Divisione si rifiuta di eseguire il mio ordine di concentrarsi nella zona di Sami, poiché essa teme, nonostante tutte le promesse tedesche, di essere disarmata o di essere lasciata nell’isola come preda per i greci o ancor peggio di essere portata non in Italia ma sul continente per combattere contro i ribelli. Perciò gli accordi di ieri con lei non sono stati accettati dalla Divisione. La Divisione vuole rimanere nelle sue posizioni fino a quando non ottiene assicurazione, con garanzie che escludano ogni ambiguità».
In pratica il Generale Gandin comunica al nemico che la sua truppa si è ammutinata!
La lunga nota, scoperta da Don Luigi Gilardini, cappellano superstite, nell’Archivio Militare di Friburgo, viene pubblicata in parte nella terza edizione del suo libro “Sull’arma si cade ma non si cede” del 1974.
Solo nel 1986 il Generale Renzo Apollonio, anch’esso superstite di Cefalonia, pubblicava integralmente il testo tedesco con accanto la sua traduzione.
Vi è poi il messaggio della Marina. Alle ore 9,45 del 15 settembre il Comandante della Regia Marina Mario Mastrangeli, di stanza a Cefalonia, servendosi del ponte radio di Corfù invia il seguente messaggio a marina Brindisi: «Qui situazione sempre incerta, i comandi non vogliono sapere di attaccare!».
Il capitano di Fregata Mastrangelo era lo stesso che aveva consegnato al Generale Gandin alle ore 11 dell’11 settembre il seguente radiogramma del Comando Supremo Italiano di Brindisi: «Considerare le truppe tedesche nemiche».
Nonostante ciò, Gandin fece ritirare le truppe dalle colline e trattò con i tedeschi fino a poche ore prima dell’attacco. Gandin era un fedelissimo di Mussolini che aveva pensato a lui anche per il comando delle truppe della Rsi, poi affidato a Graziani.
Vi è inoltre un altro aspetto che merita di essere approfondito in merito ad una strage che getta ancora una volta infamia sull’esercito tedesco.
L’ordine di fucilare i soldati inermi venne direttamente da Hitler che, si dice, considerava le truppe italiane al pari dei banditi, perché, a quella data, l’Italia non aveva ancora dichiarato guerra alla Germania.
Sembra tuttavia che Mussolini abbia avallato tale ordine.
Il tenente colonnello Johann Barge, comandante delle truppe tedesche sull’Isola fino al giorno 15 settembre allorquando fu sostituito dal generale Lanz giunto con i rinforzi, dichiarò al procuratore di Dortmund nel corso del processo per la strage che lo vide assolto: «Prima che io lasciassi l’Isola di Cefalonia, ho saputo di un telegramma di Mussolini, il quale aveva ordinato che gli ufficiali della Divisione Acqui, che egli definiva ammutinati, dovessero essere fucilati come punizione per la loro diserzione… Io non ero più a Cefalonia quando gli ufficiali vennero fucilati. Anche Hirschfeld, il nuovo comandante di campo, rimase sbalordito come me. Egli sollevò dubbi sulle modalità di esecuzione di un tale ordine di fucilare oltre cento ufficiali e sull’opportunità di gettare i corpi dei fucilati in una fossa comune o di farli affondare in mare. Vorrei aggiungere che nell’ordine di fucilazione di Mussolini erano stati espressamente esclusi i cappellani militari».
Commentava Paolo Paoletti sul Corriere della Sera del 24 novembre 2007: «Mussolini sapeva di non poter dare ordini ai tedeschi. Ma forse, proprio per la sua debolezza, voleva dimostrare a Hitler la sua determinazione nel riprendere in mano lo Stato e l’Esercito».
Nella sentenza di archiviazione del tribunale di Dortmund è riportata questa dichiarazione del caporale Werner Helmbold (4° compagnia, 910° battaglione, 966° reggimento Granatieri di Fortezza di stanza a Cefalonia): «Già all’inizio delle ostilità sono venuto a sapere da feriti della 4° compagnia che erano stati portati da me in infermeria, che c’era un ordine di Hitler e Mussolini secondo cui non dovevano essere fatti prigionieri. Tutti gli uomini della Divisione Acqui dovevano essere fucilati».

Marco Nieri

Alberto Pasini cantore dell'Oriente ottomano

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Al Museo Accorsi Ometto di Torino, fino al 29 giugno, sessanta opere del pittore emiliano, in una raffinata antologica curata da Giuseppe Luigi Marini.

Pasini, dal venditore di tè
Alberto Pasini, dal venditore di tè

L’attenzione e la curiosità dell’Occidente verso l’Oriente hanno radici lontane, basti pensare all’aura leggendaria che avvolse le spedizioni in Cina di Marco Polo e, più tardi, dei Gesuiti. Ma senza spingersi nelle estremità della vasta Asia, anche l’Oriente arabo ha destato nei secoli l’interesse di letterati, commercianti, artisti europei, in particolare a partire dalla fine del Settecento, all’indomani della spedizione egiziana di Napoleone, durante la quale Champollion riportò alla luce quella Stele di Rosetta che svelò il mistero della decifrazione dei geroglifici. La corrente si sviluppò nei decenni successivi, a seguito anche  dell’estendersi del colonialismo europeo nell’Africa Settentrionale e in Medio Oriente.
A uno degli esponenti più illustri di questa corrente pittorica, rende omaggio la Fondazione Accorsi – Ometto, con la splendida L’Oriente di Alberto Pasini, che raccoglie sessanta tele accanto a una selezione inedita di fotografie e disegni eseguiti dallo stesso Pasini.
Formatosi all’Accademia di Belle Arti di Parma, iniziò come incisore la sua carriera d’artista, per passare alla pittura orientalista alla metà degli anni Cinquanta del secolo, su impulso di Théodore Chassériau, conosciuto durante un soggiorno a Parigi. Fu per interessamento di questi, che nel marzo del 1855, Pasini, ottenne di essere aggregato come disegnatore a una missione diplomatica del governo francese in Persia, Turchia, Siria, Arabia ed Egitto. dove ebbe occasione di dipingere numerosi paesaggi e scene di vita quotidiana, che furono il primo nucleo di quel del genere verista di stampo esotico, che lo portò alla fama prima in Francia e poi in Italia. Pasini fu tra i pochi pittori orientalisti ad aver visitati i luoghi delle sue tele, mentre la maggior parte dei suoi colleghi si limitava a dipingere convenzionali scene di genere, riprese da stampe o fotografie. Dopo la missione francese, tornò più volte in Oriente, fra il 1859 e il 1873, recandosi poi in Spagna, in Andalusia, regione a forte impronta araba.
L’assolata vivacità delle antiche cittadine arabe, con il loro mondo di mercati, moschee, giardini lussureggianti, affascinarono il pittore emiliano, che artisticamente si ispirava allo stile della Scuola di Barbizon, conosciuta a Parigi nel 1851. Ma trattandosi di paesaggi Orientali Pasini vi traspone una calda luminosità che sembra lasciare sulla pelle l’effetto del sole onnipresente in quell’immenso Impero Ottomano, che dalla Tuschia si estendeva fino in Siria, Egitto, Libia, Palestina. Un Impero e un popolo che Pasini ci restituisce attraverso i suoi paesaggi naturali, quelle distese di sabbia o di prateria che rievocano le scorrerie di Tamerlano o Alessandro il Grande, e attraverso le scene quotidiane di un popolo sostanzialmente dedito al commercio; Lo scribano, Forno a Istanbul, Il maniscalco, Caravanserraglio, Dal venditore di tè, testimoniano la laboriosità di un popolo, che faceva del commercio non un semplice mezzo di sussistenza, ma anche un’occasione di consocenza dell’altro, di confronto e discussione, che nasceva davanti all’inevitabile contrattazione accompagnata dal tè e dal narghilè. Un commercio che aveva un ritmo più lento, meditativo, filosofico, al passo, quasi, con i ritmi del sole e della luna.
Più ancora di Ingres o Fromentin, Pasini cattura quella luce orientale che imbeve il paesaggio e gli individui, con i suoi cieli azzurri velati dalla calura. Per contrasto, la bellezza delle facciate degli eidifici, dipinte con dovizia di particolari, spinge a immaginare la frescura delle stanze e dei cortili interni, case e palazzi che son rifugi di pace, e scrigni segreti che nascondono quanto la morale musulmana giudica sconveniente. Rare sono le donne, tra le folle orientali di Pasini, che esprimono una società rigorosamente patriarcale.
Attento ritrattista della natura, Pasini non lo è meno nei confronti dell’architettura, riproducendo sulla tela le splendide e colorate facciate di palazzi, moschee, semplici abitazioni, soffermandosi sui particolari dei mosaici e degli intarsi. Accanto ai colorati mercati e alle strade cittadine, spicca lo stretto e ancestrale rapporto fra l’uomo e la natura circostante, fatto di tradizioni quali la vita all’aria aperta, un costante uso del cavallo, la caccia con i falconi, una vita circondata da una natura tanto selvaggia quanto affascinante, con assolati deserti, oasi spazzate dal vento, montagne rocciose perse in lontananza.
Pasini trovò corrispondenze del mondo orientale anche a Venezia e Granada, città delle quali ritrasse rispettivamente alcune vedute della laguna, e il superbo palazzo dell’Alhambra.
Dalle splendide tele esposte, emerge un’Oriente arcaico, affascinante, ma soprattutto pacifico, che dopo la colonizzazione occidentale perderà quell’equilibrio fra popoli e culture diverse, su cui si era fondata l’unità ottomana. Immagini che però restano nell’immaginario collettivo, e non è infrequente, ammirando un caravanserraglio o un cavaliere turco, ripensare alle pagine di Andric, mirabile cantore dei Balcani islamizzati.
Tutte le informazioni su orari e biglietti, al sito www.fondazioneaccorsi-ometto.it.

Niccolò Lucarelli

Pollock e Michelangelo

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Con Jackson Pollock. La figura della furia, la retrospettiva dedicata all’artista di Cody, Firenze gli rende omaggio, proponendo un confronto con Michelangelo Buonarroti, insospettabile maestro dell’iniziatore dell’informale. Con l’espressione la figura della furia, s’intende far riferimento all’impeto che Pollock metteva nel dipingere le sue grandi tele, e contemporaneamente richiamare la “furia della figura”, con cui a fine Cinquecento Giovanni Paolo Lomazzo descrisse la dinamica bellezza delle sculture di Michelangelo. Ad avvicinare i due artisti, è infatti l’urgenza creativa che assume una valenza esistenziale, seppure declinata secondo approcci diversi. La ricerca del mondo ideale, della perfezione trinitaria pagana e cristiana in Michelangelo, e la finitezza dell’uomo nella ruvida pennellata di Pollock. Un parallelo che è facile cogliere in Palazzo vecchio, dove il Salone dei Cinquecento accoglie diverse sculture di Michelangelo.
La mostra è articolata in una doppia sede: le Sale dei Gigli e della Cancelleria di Palazzo Vecchio, ospitano sedici opere di Pollock, fra cui sei disegni, e dipinti che vanno dagli anni Trenta ai primi anni Cinquanta, provenienti da musei e collezioni italiani e stranieri. Invece, la Sala della Musica del Complesso di San Firenzeoffre spazi interattivi, apparati didattici e multimediali che approfondiscono la figura di Jackson Pollock. Una scelta che apre la città a Pollock, e viceversa.
Una mostra tutta da scoprire, che porta alla luce il legame tra Firenze e l’arte contemporanea, un legame necessario perché la città continui a essere al centro del discorso culturale non soltanto italiano o europeo, bensì globale. Un legame che nasce senza troppa difficoltà, poiché l’arte contemporanea altro non è che l’esito momentaneamente finale di una tradizione che si fonda necessariamente sul passato, di cui Firenze è ricca.
Pollock liberava il segno, e con esso, tutta la rabbia di un America in difficoltà, quell’America profonda che non si era completamente scrollata di dosso le conseguenze della Grande Depressione, l’America che “tira la carretta”, narrata da John Steinbeck, e, più tardi, da Raymond Carver. Dipinti, quelli di Pollock, che in crogiuolo di linee e colori, danno voce a quella realtà eterogenea che è il Grande Ovest, dove l’esistenza quotidiana è fatta di grandi spazi, istinti anche violenti, e cittadine vissute ancora oggi come fossero avamposti di frontiera. Dal suo pennello disincantato, che non tende alla perfezione, emerge tutta la finitezza dell’essere umano, il caos anche mentale nel quale è coinvolto, (non dimentichiamo che Pollock era accanito lettore di Jung), attraverso quell’action painting lontana dalle patinature della Beat Generation prima, e della nscente Pop Art dopo, della scena newyorkese. Alla loro stregua, Pollock è cantore dell’anima primale americana, che lo scorrrere dei decenni non ha alterata nella sostanza, e nemmeno negli usi e nei costumi.
L’accostamento con Michelangelo, seppur a prima vista azzardato, nasce da quella che è stata la lunga “frequentazione” di Pollock con il Genio di Caprese, testimoniata dai sei splendidi disegni – provenienti dal Metropolitan Museum di New York e per la prima volta esposti in Italia -, che possono essere considerati altrettanti studi di Pollock sulla plasticità e la monumentalità michelangiolesche. Le figure riprodotte rimandano direttamente a quelle della Cappella Sistina e del Giudizio Universale, che Pollock ebbe modo di conoscere nel periodo del suo apprendistato presso Thomas hart Benton, pittore americano nonché ammiratore del Rinascimento italiano. Ma dietro la mostra, stanno anche considerazioni concettuali. Pollock liberava il segno, come si è detto di sopra. Parallelamente, con quattro secoli d’anticipo, Michelangelo liberò il marmo dalla tensione latente che vi leggeva, donandogli nuova vita sottoforma di statue che, ancora oggi, parlano all’uomo dell’uomo. Quel suo “non finito”, come afferma la Sorpintendente Acidini, è il primo esempio di quella dissoluzione della forma che sarà poi la cifra dell’informale, e già l’illustre critico Eugenio Battisti, definì Pollock un artista michelangiolesco. Ispirandosi all’ineffabile bellezza del gioco di pieni e di vuoti che caratterizza l’opera di Michelangelo, vi basò la struttura delle sue composizioni pittoriche, infondendovi una tensione creativa che aveva indubbi contatti con la tensione interiore dell’artista, e dell’uomo contemporaneo in genere.
Considerazioni del genere sono utili strumenti per guardare al patrimonio artistico fiorentino, prettamente legato ai secoli passati, con occhi nuovi, e soprattutto per comrpendere più approfonditamente l’influenza che Firenze, già definita da Vasari la “scuola del mondo”, ha avuto sull’arte mondiale, anche dei secoli successivi. Estendendo la riflessione, c’è della bellezza nell’osservare processi artistici che si ramificano nei secoli, dando vita a ideali dialoghi fra epoche diverse, e si scoprono aneliti e angosce che non hanno mai smesso di tormentare l’umanità, o almeno quella più illuminata.
Curata da Sergio Risaliti e Francesca Campana Comparini, la mostra è visitabile fino al 27 luglio. Ulteriori informazioni su orari e biglietti, al sito www.pollockfirenze.it.

Niccolò Lucarelli

Memorie digitali: un'efficienza mai raggiunta prima

Un nuovo meccanismo capace di scrivere l’informazione nelle memorie digitali con un’efficienza mai raggiunta prima. È stato ottenuto presso il centro di ricerca Elettra Sincrotrone Trieste di Area Science Park da un gruppo internazionale di ricercatori, in primis Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) e Politecnico di Milano. L’esperimento, illustrato su ‘Nature Communications’, si basa sulla magnetizzazione di un materiale tramite un impulso elettrico e apre la strada a una nuova generazione di dispositivi super efficienti, con un consumo energetico che potrebbe ridursi di oltre mille volte rispetto a quello consentito dalle tecnologie attuali.
“L’immagazzinamento dell’informazione nei sistemi di memoria, come i dischi rigidi dei computer – spiega Piero Torelli, fisico dell’Istituto officina dei materiali del Cnr di Trieste e fra gli autori del paper – viene ancor oggi effettuata tramite un piccolo elettromagnete che magnetizza la superficie del disco: un processo lungo, energeticamente costoso e che non permette elevata miniaturizzazione. Indurre questa magnetizzazione attraverso un campo elettrico darebbe enormi vantaggi, permettendo di superare le attuali limitazioni, diminuendo il consumo energetico di un fattore mille e realizzando uno dei sogni della comunità scientifica e di chi cerca nuove soluzioni tecnologiche per l’elettronica moderna”.

Camera sperimentale
Veduta interna di camera sperimentale per la produzione dei campioni (Foto Tommaso Pincelli)
Con questo esperimento il gruppo di ricerca ha ottenuto proprio un sistema in cui la magnetizzazione può essere spenta o accesa in risposta all’applicazione di un campo elettrico, in modo reversibile e a temperatura ambiente. “Il sistema che abbiamo studiato – continua Torelli – è costituito da due strati di materiale facilmente reperibile e poco costoso: uno di ferro e uno di ossido di bario e di titanio, che una volta sovrapposti reagiscono formando un sottilissimo ossido di ferro nella zona di interfaccia. Sottoponendo il campione a un’analisi spettroscopica con la luce di sincrotrone di Elettra siamo riusciti a seguire le proprietà di ciascuno strato, verificando come il grado di magnetizzazione all’interfaccia variasse in base al campo elettrico applicato sullo strato di ossido, in modo controllabile e reversibile”.
Il successo dell’esperimento conferma che l’abbinamento di materiali con proprietà ferroelettriche e ferromagnetiche in strati contigui rappresenta una via promettente verso il controllo elettrico della magnetizzazione e apre la strada a una nuova generazione di dispositivi di memoria. Un’elettronica moderna capace di riunire i vantaggi della ferroelettricità (basso costo di scrittura delle informazioni) e quelli del magnetismo (durata dell’informazione immagazzinata).

Spermatozoi in 3D

Per aumentare la probabilità di successo della fecondazione occorre avere informazioni relative alla velocità e alla morfologia degli spermatozoi. Grazie alla ricerca svolta da ricercatori del Consiglio nazionale delle ricerche – Istituto nazionale di ottica (Ino-Cnr) e Istituto per la microelettronica e microsistemi (Imm-Cnr) – in un futuro ormai prossimo i medici potranno disporre di un tracciamento per visualizzare morfologia e movimento degli spermatozoi all’interno di un volume. Il nuovo sistema video 3-D rappresenterà quindi un valido strumento per gli studi sulla infertilità maschile e per future prospettive sulla fecondazione assistita. La ricerca, condotta dal Cnr in collaborazione con Rowland Institute di Harvard di Cambridge (Massachusetts) e Centro di fecondazione assistita di Napoli, è pubblicata su Biomedical Optics Express.
“Gli attuali sistemi di analisi utilizzati per valutare la motilità degli spermatozoi”, spiega Giuseppe Coppola dell’Imm-Cnr di Napoli, “si basano su immagini bidimensionali e quindi non forniscono una informazione completa sul reale e naturale ambiente nel quale si muovono le cellule. La concentrazione e la mobilità degli spermatozoi sono lasciate a valutazioni visuali soggettive o a processi di analisi al computer sempre bidimensionali”.
“Grazie all’acquisizione di una serie progressiva di ologrammi”, aggiunge Giuseppe Di Caprio, anch’egli ricercatore Imm-Cnr attualmente presso il Rowland Institute, “è possibile osservare il movimento degli spermatozoi nello spazio tridimensionale e al contempo individuarne eventuali anomalie di forma o di struttura, consentendo quindi di studiare e comprendere meglio i problemi di infertilità. Gli ologrammi sono registrati con luce laser a potenze tali da evitare danni alle cellule e senza la necessità di marcarli con composti fluorescenti”.
“L’olografia digitale permette appunto la valutazione tridimensionale della morfologia di oggetti microscopici”, conclude Pietro Ferraro dell’Ino-Cnr. “I risultati ottenuti confermano che la tecnica di microscopia olografica tridimensionale è uno straordinario strumento diagnostico che sarà cruciale nel futuro per l’imaging e la diagnostica nel settore delle biotecnologie su piattaforme cosiddette di tipo Lab-on-a-Chip, ovvero laboratori miniaturizzati che nel prossimo futuro sostituiranno i laboratori tradizionali”.

Tra fotonica e robot

Il consolidamento e il rilancio del Distretto regionale per la fotonica, l’optoelettronica, la robotica, le telecomunicazioni, l’informatica e lo spazio (Fortis) è l’obiettivo che la Regione da tempo persegue con uno specifico Progetto integrato di sviluppo (Pis) che declina in chiave toscana la strategia europea della specializzazione intelligente, altrimenti nota come “smart specialisation”.

Si tratta di una strategia che concentra le risorse sulle eccellenze che ciascun territorio esprime, secondo le proprie vocazioni e la propria indentità. Per raggiungere questo obiettivo il Pis Fortis utilizza, in maniera integrata, tutti gli strumenti presenti nella programmazione ordinaria della Regione e contenuti nel Piano regionale di sviluppo (Prs 2011-2015).
Grazie a questi strumenti, negli ultimi anni, sono state messe a disposizione del sistema produttivo del distretto supertecnologico Fortis, risorse per quasi 190 milioni di euro, che contribuiscono alla realizzazione di progetti per un costo complessivo di oltre 300 milioni. A questi, si possono aggiungere oltre 33 milioni concessi a garanzia di finanziamenti bancari, per investimenti, liquidità e a sostegno dell’imprenditoria giovanile e femminile.

Il punto sul distretto è stato fatto con una relazione che la giunta ha approvato ieri su proposta dell’assessore alle attività produttive, credito e lavoro.
L’idea chiave del piano sta nell’integrazione che, come ha spiegato l’assessore, consiste nell’utilizzazione di tutte le linee di intervento previste dagli strumenti normativi e di programmazione regionali convogliandoli sull’obiettivo di consolidamento del distretto. Lo strumento operativo sono i bandi che la Regione ha emanato e si appresta ad emanare e al cui interno sono state inserite priorità precise, riferite ai settori interessati.

In altre parole si tratta del sostegno alle attività di ricerca e sviluppo e innovazione, gli aiuti alla ricerca e all’innovazione del manifatturiero, l’acquisto di servizi qualificati, gli aiuti ai poli di innovazione e agli incubatori di impresa, il sostegno per la riqualificazione di aree produttive, gli aiuti per le infrastrutture e i centri servizi, il sostegno ai processi di integrazione fra imprese, l’attività di promozione economica, gli interventi formativi e sul capitale umano. Ma ecco un primo bilancio.

La voce più consistente è quella del sostegno all’innovazione e alla ricerca, che dal 2008 al 2013 ha visto interventi per oltre 140 milioni, che hanno attivato progetti per 270 milioni. Sono interventi che hanno interessato soprattutto i trasporti intelligenti (ad esempio il segnalamento ferroviario), il monitoraggio ambientale, le tecnologie in ambito sanitario, informatica, sistemi di sicurezza, infomobilitá e telecomunicazioni.
Consistente anche l’impegno per le infrastrutture finalizzate al trasferimento tecnologico: in particolare si può citare il Circuito integrato per la fotonica del Sant’Anna di Pisa, per un investimento di oltre 6 milioni a fronte di un contributo di circa 3 milioni.
Da ricordare anche gli interventi per favorire l’internazionalizzazione delle PMI: dal 2010 sono stati approvati 9 progetti, per 566 mila euro di contributi che hanno attivato investimenti pari a oltre 1 milione di euro. Sono invece 8 le imprese del settore Ict che hanno usufruito di oltre 500 mila euro di finanziamenti a sostegno di processi di aggregazione, che hanno prodotto investimenti per più di 1 milione e 200 mila euro.
Dal 2011 al 2013 sono stati ammessi incentivi pari a 620 mila euro per l’assunzione o la stabilizzazione di 124 lavoratori nel settore Ict. Fra gli interventi per il potenziamento del capitale umano, dal 2008 le attività del settore Ict hanno usufruito di 16 milioni di finanziamenti. Ad esempio, grazie al programma operativo Fse 2007-13, sono stati cofinanziati 83 assegni di ricerca, per percorsi di alta formazione, per un totale di 5 milioni di euro. Da ricordare anche i tirocini retribuiti, che in ambito Ict (software, elettronica) sono stati dal 2012 ad oggi 308.

L’innovazione del sistema produttivo regionale, ricorda l’assessore alle atttività produttive, è un passaggio obbligato per ridare competitività alle imprese. Per questo la Regione sta lavorando alla razionalizzazione, riorganizzazione e potenziamento del sistema regionale. Un lavoro sfociato fra l’altro nella creazione dei distretti, fra i quali anche quello per la fotonica. E’ anche grazie a questo impegno che punta sempre di più, per il futuro, a concentrare le risorse sulle realtà di eccellenza, operando una diversificazione in base alla vocazione dei territori, evitando sprechi ed ottimizzando le risorse. Risorse che, ha ricordato l’assessore, saranno ancora più ingenti nella nuova stagione di fondi europei: basti pensare che sarà destinato all’innovazione il 30% degli 800 milioni previsti per la Toscana dal Por Fesr 2014-2020.