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Le Europee del 1979, il popolare è impopolare

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Europee del 1979. Ancora un impegno, ancora riunioni, ancora comizi. La forza della passione muove le membra, sollecita l’intelletto. Strasburgo chiama, è la prima volta, e il segretario risponde all’appello, ma niente è più come prima. L’arida, mortale primavera dell’anno addietro si è mostrata peggio della decima piaga, e ora il deserto impera, penetrando nel profondo della sua memoria e della sua coscienza. È un nuovo maggio, ma si presenta come un nuovo inverno.
Il medico di Faenza, “l’onesto Zac”, dichiara stanco al partito le sue intenzioni: dopo le politiche e le europee del 1979 non si ricandiderà alla guida della DC. Aveva cominciato, appena eletto, commemorando Don Mazzolari, richiamandosi ai valori cristiani, alla sua Romagna rurale e sensibile alla povertà, e aveva parlato per primo, come Enrico Berlinguer, della “questione morale”. Nel suo cammino si era unito ad Aldo Moro: prima, nell’analisi e nell’attenzione al movimentismo del 1968, poi nella proposta del “confronto” verso il PCI. Confronto, dialogo, ma non oltre, ovviamente: «Come siamo irriducibilmente contrari al compromesso storico, in tutte le sue varianti centrali e periferiche, e alle diverse forme di assemblearismo, così mi pare sia nostro dovere rifiutare contrapposizioni che annullino ogni possibilità di dialogo».
Ricordi: il tempo passa maledettamente in fretta. La stagione della “solidarietà nazionale” viene archiviata pochi mesi dopo l’assassinio di Moro, e gli oppositori interni, che lo accusavano di volere far comunella con i comunisti, possono riaffilare le armi. L’ex segretario di Pieve Santo Stefano con la solita boria pedagogica riprende a tessere la tela in vista del Congresso. In Toscana tenta la riunificazione dei suoi dispersi, a partire da Ivo Butini, e va a colloquio con i parlamentari e consiglieri regionali toscani dell’area vicina: Stegagnini, Pezzati, Caiazza, Santi, Matteini, Bausi, Signorini, Vera Dragoni. A livello nazionale va alla ricerca delle convergenze sul “no” ad un PCI governativo, tema caro alle destre di De Carolis, Segni, Mazzotta e Ciccardini, e terreno fertile per semine dorotee e forzenuoviste.
Lo spostamento a destra dell’asse DC è così evidente che si parla dappertutto di un dilemma: “partito popolare o partito conservatore”? Zaccagnini non ha dubbi, e la sua ultima battaglia viene combattuta su questo fronte: la DC non deve ridursi a «cartello elettorale», «la nostra stessa natura di partito popolare e le nostre tradizioni di cattolici democratici ci hanno impedito e ci impediscono di compiere una scelta conservatrice o confessionale e ci spingono invece a ricercare e a fondare continuamente una collaborazione tra le forze reali più vive, emergenti dalla storia del paese». Lo ripete, come ha fatto dal 1975, fino al febbraio del 1980, fino al suo ultimo discorso da segretario.
Ma fuori è un fuoco di fila: Berlinguer, Reichlin, Chiarante, chiedono alla DC di scegliere tra la via che la tiene legata alle masse come «partito popolare interclassista», e l’altra che la lega alla borghesia dello Stato e della finanza, che la vede sempre più «polo conservatore».
Fosse solo la critica dei comunisti, sarebbe nell’ordine delle cose, ma ci si mettono pure i gesuiti di “Civiltà Cattolica” e Gianni Baget Bozzo! Quest’ultimo descrive una DC ormai scarnificata dal suo ruolo di partito dei cattolici, e priva di progetti politici dopo la morte di Moro: senza la questione dell’egemonia politica e culturale posta da Moro, alla DC resta puntare sui numeri della maggioranza e sull’anticomunismo. Ma non sono così forse tutti i partiti conservatori europei? Caduto lo «specifico cristiano» – dice in sostanza Bozzo – la DC è un partito «laico di destra». Le urne delle europee rafforzano questa tendenza: avanzano CDUe CSU in Germania, avanzano i moderati giscardiani dell’UDF in Francia, vincono i conservatori thatcheriani in Inghilterra.
La polemica, che resta nel sottofondo, viene sovrastata da un’altra notizia più importante: il consenso del PCI è in discesa, sia alle politiche, sia alle europee di quell’anno. Nella città governata da Landini il dato fa un certo effetto, i rossi scendono sotto il 50% e alle europee perdono oltre 5000 elettori rispetto alle politiche del 1976. In via Frascati il segretario Rodolfo Rinfreschi resta convinto, «manteniamo un saldissimo legame con la classe operaia», e le notizie che giungono dai seggi carmignanesi lo rincuorano un po’: il Comune del Montalbano torna alla maggioranza PCI-PSI. In piazza S. Domenico, ebbri del risultato nazionale, si inzuppano i cantuccini nel vinsanto, in un desco mezzo indigesto: i dorotei di Lamberto Gestri brindano alla fine della «soffocante egemonia del PCI», ma non va giù il boccone della vittoria di Bisagno alle politiche, che surclassa Pontello per preferenze. Segni premonitori: nella DC pratese vince il candidato andreottiano di minoranza, e perde il candidato doroteo di maggioranza, con il Congresso imminente (e Bambagioni al varco). Sull’altra sponda il PCI non è più interessante agli occhi dei giovani, la delusione per le aspettative non assecondate si ritrova nelle urne, e monta un malessere nella base e nella FGCI che va a sommarsi alla crisi di giunta e al rapporto con il PSI.
Segni premonitori, anche a livello nazionale: sta salendo l’astensione, e inizia la crisi del sistema dei partiti. Sta tramontando anche un vecchio modo di fare politica: sempre meno comizi, sempre più tv. Le “strane e tristi” figure dei leaders poco appariscenti, sobri, riflessivi, non vanno più. Gli anni Ottanta chiederanno altro. Mentre Zac ripropone dal palco congressuale la questione morale e della gestione della cosa pubblica, di una DC che non avrebbe bisogno di «artificiosi diaframmi, di improprie mediazioni, di inestricabili conflitti di potere», i giochi di potere sono fatti: il “preambolo Donat-Cattin” mette d’accordo il centro-destra interno, che diviene maggioranza. Il pentapartito è dietro l’angolo, il “popolare” è ormai “impopolare”, ormai fuori moda.

Riccardo Cammelli

La scultura filosofica di Federico Severino

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La scultura filosofica di Federico Severino. Fino al 28 giugno, a ingresso libero, nelle sale rinascimentali dello studio Marcello Tommasi di Via della Pergola. Dal martedì al sabato, in orario 15-20.

In un’epoca in cui il mondo dell’arte è ormai preda del caos mediatico, della vetrina per la vetrina, di patetici teatrini a sfondo personale, è piacevole imbattersi talvolta in un pensiero artistico sommesso, portato avanti con modestia e coerenza, e incuneando stili e concezioni artistico-filosofiche del passato nel sentire contemporaneo. Creare con le proprie mani, ignorando i programmi di grafica informatica e gli apparecchi video, rimanda a una concezione artistica genuinamente primitiva, legata alla filosofia presocratica dei quattro elementi. E invero il bronzo, con la sua primitiva scurezza quasi vulcanica, è materia artistica per eccellenza. È quanto emerge dall’opera scultorea di Federico Severino, attualmente visibile con Stravaganze poetanti con divertimento ma non troppo, piccola ma raffinata mostra che si fa scrigno prezioso di nove sculture inedite in bronzo policromo con patina a fuoco realizzate per l’occasione, da cui emerge il sincretismo figurativo tra estetica occidentale e orientale, fra pensiero classico greco e la danza ascetica dell’India dei Veda, fra il cupo edonismo etrusco e il senso esoterico della femminilità simboleggiato nella testa di Medusa.
Nove sculture bronzee che esprimono un’aspra, arcaica bellezza, quella stessa bellezza dei versi poetici di Anassila e Mimnermo. Si avverte, in queste sculture, il senso del tempo che scorre, apparentemente fermato nella materia bronzea, ma che invece ci appare nei volti intensi, quasi tutti femminili. Un tempo che scorre dolcemente tiranno, sensualmente saturnino.
In quel suo guardare alla Grecia Antica attraverso le sue sculture, Severino ne riecheggia anche il pensiero filosofico, ma lo fa con quella leggere eleganza che fa il paio con la plasticità delle sue forme bronzee. Non sentendosi un intellettuale, ma un artista che fa semplicemente il suo mestiere, non cerca d’imitare i pensatori, pur essendo un filosofo lui stesso. Poiché, volendo parafrasare Oscar Wilde, l’arte è qualcosa di seriamente inutile, Severino si accosta a Parmenide che non cerca l’archè, ma si occupa dell’essere, e all’idea aristotelica secondo la quale la partecipazione spiega l’essere e il predicato, con una giocosa ironia mediata da una componente affettiva verso il soggetto rappresentato. Il riferimento all’essere è legato all’interesse per il contenuto, a prescindere dal predicato, che, secondo Aristotele, può costituirne o meno la definizione. Le sculture di Severino non sono legate all’essere assoluto, ma a quello relativo dell’individuo, raffigurato ora con la grazia della Grecia o dell’Etruria Antica, ora con la pensosità di Rodin
Un particolare colpisce in questi volti scolpiti: il loro sorriso fuori dal tempo e dalla storia, umano e divino insieme, che è anche un saper guardare all’aldilà con la sensibilità epicurea. Proprio per la voluta mancanza di una dimensione assoluta, queste opere esprimono con garbo l’idea della finitezza umana, ma lo fanno ricordandoci comunque i piaceri terrestri, ch siano quelli dell’amore di coppia, della danza, dell’abbandono mistico.
Particolarmente suggestiva, la scultura di ambiente indiano che ritrae una danzatrice del Gandara (nella foto), una regione che fu, dal I al V secolo dopo Cristo, un centro politico, culturale e soprattutto religioso di grande importanza, di cui si conservano pregevoli testimonianze artistiche, espressione di alta ispirazione religiosa. Nella sua plastica posa con le braccia al cielo, e il piccolo maestro alato al suo fianco, la danzatrice racchiude gusto ellenistico e gusto orientale, personaggio metaforico e reale insieme.
Un’arte, quella di Severino, dell’uomo per l’uomo, legata alla tradizione del figurativo arcaico, che si fa portatrice dell’antica sapienza del Mito, e che muove a guardare le stelle.

Niccolò Lucarelli

Telepresenza: come incontrare chi è a migliaia di chilometri di distanza (l'articolo e il video dell'Ino-Cnr)

Un frame dal filmato sulla telepresenza
Un frame dal filmato sulla telepresenza
Una persona è a Roma. Un’altra è a Sidney. Adesso, oltre a vedersi, possono interagire, sfiorarsi, darsi un bacio. Altro che fantascienza. È tutto vero. Si chiama telepresenza. Quel che dà è la possibilità di incontrare una persona che si trova dall’altra parte del mondo e vederla come se fosse esattamente di fronte a noi.
Lo confermano i risultati del progetto “Telepresenza olografica”, realizzato dall’Istituto nazionale di ottica del Consiglio nazionale delle ricerche (Ino-Cnr) e dalla ditta Quintetto di Pont Saint Martin nell’ambito di un progetto co-finanziato dalla Regione Val d’Aosta.
Per la prima volta è stato realizzato un sistema a costi sostenibili che consente l’interazione tra due operatori, situati anche a grandi distanze, dando loro una reciproca definizione analoga a quella che avrebbero se fossero realmente presenti nello stesso ambiente, seduti allo stesso tavolo.
«L’elemento focale è rappresentato da un’immagine bidimensionale inserita in un contesto tridimensionale studiato ad hoc che genera una sensazione di tridimensionalità. La persona ha quindi la percezione di essere realmente seduta di fronte ad un interlocutore reale e non ad una sua rappresentazione», spiega Luca Mercatelli ricercatore Ino-Cnr. Una parte importante del progetto, infatti, ha riguardato oltre al sistema audio, proprio lo studio delle caratteristiche cromatiche e fotometriche dell’ambiente avvalendosi delle competenze nell’ambito dell’illuminotecnica e scienza della visione.
«Gli scenari aperti da questa nuova tecnologia toccano diversi campi nei quali è utile o necessario avere un’esperienza il più possibile reale – prosegue Paolo De Natale, direttore dell’Istituto – Pensiamo per esempio, nei servizi ai cittadini, alla difficoltà degli anziani a interagire con schermi impersonali, modalità touch e indicazioni meccaniche. Ma anche alle imprese, alle applicazioni dal settore bancario a quello commerciale o turistico, medico o della pubblica amministrazione».
«I sistemi olografici hanno già fatto la loro comparsa nel mondo degli eventi teatrali – rileva Giovanni Iamonte di Quintetto Srl, direttore scientifico del progetto – Tuttavia la loro diffusione è ancora molto limitata a causa dei costi elevati. Per la prima volta, con il nostro sistema di Telepresenza Olografica è possibile portare sul mercato – a costi sostenibili – una interazione fra due soggetti a distanza molto realistica; il tutto in modalità live, in un ambiente naturale, con elevati livelli di interazione e sfruttando la normale capacità di trasmissione Internet offerta dagli operatori di mercato».

Il ritorno (una storia vera)

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La guerra finì, ma molti tardarono a fare ritorno. Vi erano prigionieri di guerra italiani in Russia, in America, in molte parti dell’Africa e soprattutto in Germania. Gli alleati iniziarono velocemente le operazioni di rimpatrio dei soldati catturati e, in ogni caso, permettevano loro di scrivere a casa. Per coloro che erano in Germania non fu così.
Prima la costrizione in molti campi di sterminio nazisti, poi metà paese occupato dai Russi e metà dagli alleati occidentali. Il territorio e le città completamente distrutti. Chi si trovò prigioniero di guerra in quel territorio o nei paesi dell’est ritardò il rientro in patria: alcuni per molti mesi.
A Prato, come in tutte le città d’Italia, vi erano giovani partiti per il fronte all’inizio del conflitto dei quali si era perduta ogni traccia: nessuna notizia, nessun segno in 5 anni. Tutti pensavano che quei ragazzi non avrebbero rivisto mai la loro casa.
L’immenso teatro di guerra aveva visto nell’intera Europa più di trenta milioni di morti, venti dei quali solo cittadini e soldati dell’Unione Sovietica. La Germania, salvo il Sud del Baden Wuttemberg, interamente distrutta.
Nei primi mesi del ’46 chi era stato prigioniero di guerra degli Alleati aveva fatto ritorno a casa e la vita era ripresa con i problemi di sempre, aggravati dalle miserie causate dal conflitto. L’Italia cominciava piano piano a risollevarsi dalla tragedia e dalla fame nelle quali il fascismo l’aveva condotta ed i giovani avevano voglia di vivere dopo lunghi anni di patimenti e sofferenze.

Maria aveva visto il suo Roberto partire per l’Africa del Nord nord nel 1940. L’ultima lettera che aveva ricevuto era stata del 1942. Poi più niente.
Il dolore l’aveva avvolta , consapevole del significato di quel silenzio.
Ricordava gli sguardi furtivi per le vie del paese, quando si incontravano non ancora ventenni.
Ricordava i primi baci e le passeggiate, mano nella mano, lungo l’argine del torrente che scorreva vicino alle loro abitazioni. Si erano conosciuti alle elementari e la loro storia era simile a quella di tanti altri semplici ragazzi di campagna.
Lui era partito promettendo di tornare. Come tutti i soldati in cuor suo aveva una gran paura, ma al momento dei saluti si atteggiò ad uomo e stringendola, prima di salire sul camion che l’avrebbe condotto alla Caserma Settesoldi per l’arruolamento, le chiese di pregare e di stare tranquilla. Alla fine della guerra sarebbe tornato da lei.
Gli anni di solitudine furono lunghissimi per Maria. Il silenzio di Roberto pesava sulla sua vita richiamando alla mente tristi presagi.

Dopo un tempo interminabile, venne l’8 settembre 1943 e ci fu chi credette alla fine dell’incubo. Invece arrivò l’occupazione tedesca sostenuta dai fascisti, lo sbarco in Sicilia, il lento avanzare degli Alleati, che consideravano il fronte italiano esclusivamente un fronte di alleggerimento per tenere impegnate alcune divisioni tedesche, mentre il maggior sforzo bellico veniva prodotto a nord, con lo sbarco in Normandia e l’invasione della Francia, che consentiva di puntare dritti al cuore della Germania.
Tutti coloro che avevano pensato ad una veloce fine del conflitto dovettero ricredersi presto. Sofferenze e patimenti sembrarono non avere più fine.

Dopo l’8 settembre 1943 molti Ufficiali e soldati del Regio Esercito Italiano, non volendosi schierare con i fascisti ed i nazisti, furono passati per le armi. Numerosi altri fatti prigionieri e deportati in Germania. Una Monarchia imbelle insieme ad un Alto Comando dell’esercito di pari livello, non seppero dare ordini precisi nel momento dell’armistizio né seppero gestire una fase tanto traumatica. L’esercito italiano fu lasciato allo sbando: alcuni reparti si unirono agli alleati, altri ai partigiani, molti nell’incertezza o posti nell’impossibilità di combattere finirono prigionieri degli ex alleati tedeschi.
Il 1944 vide la Liberazione della Toscana. Lo sfondamento della Linea Gotica, nella primavera del ’45, portò gli eserciti alleati in pianura Padana e da lì presto sarebbero arrivati in Germania. Nel settembre del ’44 anche a Prato la guerra finalmente terminò, proseguendo al Nord di fronte all’irriducibile volontà nazista che rifiutava la oramai palese disfatta.

Fu in quei frangenti che Maria incontrò Gualtiero.
Dopo l’8 settembre si era dato alla macchia come molti suoi coetanei e non aveva risposto alle chiamate per l’arruolamento nella Rsi, tenuta in piedi dai nazisti.

Maria amava ancora Roberto, ma da più di tre anni non riceveva sue notizie. Gualtiero era un semplice amico. Non c’era alcun male a frequentarlo.

Passò anche il 1944 ed il 1945 vide l’entrata dell’Armata Rossa a Berlino e la decapitazione del Giappone per mezzo di due bombe atomiche.
Iniziò quindi la ricostruzione. Anche quella degli affetti. Nel paese non vi era famiglia che non fosse stata toccata dalla guerra: figli, nipoti, cugini, amici morti o feriti.
Si ricominciò a parlare liberamente, a discutere, ad accapigliarsi. C’erano Coppi e Bartali, i democristiani e i comunisti, la Russia e l’America. Era la frenesia di voler vivere dopo un ventennio cupo, dove la parola fiducia era stata sostituita dal motto “credere, obbedire, combattere” ed in tutti i locali pubblici era stato affisso il cartello: “Qui non si parla di politica”. Ora si voleva vivere e parlare di politica, amare e arrabbiarsi, criticare e sposare le cause più diverse, dichiarare il proprio pensiero e ricostruirsi un futuro.

Per tutto il 1946 Gualtiero cercò di incontrare Maria e lo fece nelle occasioni più diverse.
Alla Messa della domenica prendeva posto nelle panche vicine a lei, cercava di frequentare gli stessi amici, alle feste le era sempre nelle vicinanze. Lei aveva capito che a lui piaceva molto e dapprima era confusa. Ma di Roberto nessuna notizia e tutti dicevano che molti ragazzi di cui non si sapeva niente erano sicuramente morti in guerra.
Fu così che accettò la corte discreta di Gualtiero, che pian piano si trasformò in affetto e, all’inizio del 1947, si celebrò il matrimonio. Nessuno ebbe da ridire: tutti erano convinti della morte di Roberto.

Nel Paese che risorgeva dalle macerie del conflitto, nuovi amori si intrecciavano, nuove famiglie si formavano e molti bimbi nascevano.
Nacque anche Caterina, bella mora e piena di riccioli, vera felicità per Maria e Gualtiero.
Passarono alcuni mesi, il Paese aveva ritrovato il suo ritmo di crescita. Acquedotto, ponti strade venivano incessantemente ricostruite.

Sulla facciata di una Casa del Popolo, in una domenica d’aprile, fu scoperta una lapide con i nomi dei caduti nella guerra partigiana e di tutti i militari scomparsi nel grande conflitto mondiale.

L’anno successivo, era il 1948, a fine primavera un treno arrivò alla stazione centrale di Prato. Scese un ragazzo alto, magro emaciato, vestito di pochi indumenti militari logori.
Si sedette su una delle panchine della piazza. L’edificio della Stazione era stato distrutto dai bombardamenti alleati ed alcuni operai stavano collocando dei ponteggi che facevano capire come presto si sarebbe posto mano alla ricostruzione.
La fontana al centro della piazza non funzionava, ma gli alberi assicuravano una buona frescura.
Pianse, Roberto, vedendo la sua città ferita. Ma dentro il suo cuore scoppiava di gioia, per la voglia di rivedere i suoi cari e soprattutto Maria.
Chiese un passaggio ad un barrocciaio, che con il proprio carro trainato da un robusto cavallo francese, trasportava rena del Bisenzio ad un cantiere non lontano dall’abitazione di Roberto.
L’ultimo tratto di strada lo fece a piedi, così come a piedi aveva percorso molte vie di quella che si apprestava a divenire la Germania dell’Est.
Era stato molto provato dalla prigionia. Dopo El Alamein, il suo battaglione era stato trasferito in Albania e lì era arrivato l’armistizio. Fatto prigioniero dai tedeschi era stato trasferito in una città della Pomerania, fino all’arrivo delle truppe sovietiche.
Non sapeva nemmeno lui come aveva fatto a sopravvivere nel campo di concentramento. Ma ce l’aveva fatta. Era tornato a casa vivo. Dalla sua Maria.

Gli abbracci, i pianti, le urla di gioia al suo apparire a casa, fecero rischiare l’infarto ai suoi genitori e al fratello maggiore. Subito la notizia si sparse per il paese. Nessuno aveva più creduto al suo ritorno e questo fatto appariva come un miracolo agli occhi di molti.

Maria si mise a tremare quando qualche conoscente la informò che Roberto era tornato a casa sano e salvo e strinse a sé la piccola Caterina.

Dopo l’euforia iniziale anche per Roberto ricominciò la vita. Trascorse molti giorni tristi quando lo informarono che Maria era la moglie di un altro e che aveva anche una figlia. Non riusciva a darsi pace. Voleva parlare con lei per capire almeno cosa fosse successo. Maria cercava di uscire di casa il meno possibile: temeva di incontrarlo e Gualtiero presto notò il nervosismo di sua moglie.

Passarono alcune settimane, Roberto aveva ripreso a lavorare nell’azienda del padre, dopo un periodo di riposo. La sua famiglia era abbastanza abbiente e presto avrebbe avviato un’azienda tessile destinata a far molta fortuna.
Una mattina fece ritardo nell’andare al lavoro. Pensò bene di fermarsi al bar vicino casa a prendere un caffè. Uscito dal bar inforcò la sua Bianchi e cominciò a pedalare, ma, fatti pochi metri, frenò di colpo.

Maria camminava sul marciapiede alla sua destra tenendo in braccio la piccola Caterina.
Appena lo vide divenne paonazza ma lui non indietreggiò.

“Perché?” le chiese con le lacrime agli occhi.
“Credevo fossi morto”, rispose.

Si abbracciarono piangendo entrambi e si incamminarono mano nella mano fino a casa di lui.
Lo scandalo colpì forte. Il paese non era ancora pronto a simili eventi.
Si trattava di fatto della prima separazione con abbandono del tetto coniugale del dopoguerra.

Tutti si aspettavano una denuncia da parte di Gualtiero nei confronti di Maria. Ma lui non fece mai questo passo. Anche il nuovo parroco fu intelligente. Tacque, senza gridare allo scandalo e senza creare un caso che avrebbe ben potuto superare i confini della città.

Gualtiero non si risposò.
Maria e Roberto si unirono in matrimonio quando fu approvata la legge sul divorzio.

Marco Nieri

Droghe e giovani alchimisti fai da te

La cannabis continua ad essere la sostanza illegale più utilizzata, seguita da cocaina e droghe sintetiche, l’eroina torna di moda fra i giovani. L’uso di alcol è molto diffuso, anche se i nostri studenti bevono meglio dei coetanei europei, sia per minori quantità di alcol puro ingerite, sia per una meno diffusa tendenza al binge drinking e alle ubriacature.
Sono alcuni tra i molti dati contenuti nel volume “Consumi d’azzardo: alchimie, normalità e fragilità”, a cura di Sabrina Molinaro, Roberta Potente e Arianna Cutilli della Sezione di epidemiologia e ricerca sui servizi sanitari dell’Istituto di fisiologia clinica del Consiglio nazionale delle ricerche (Ifc-Cnr) di Pisa, che illustra i principali risultati dello studio Espad®Italia 2013.
Il libro sarà presentato lunedì 19 maggio dalle 11,30, in collaborazione con l’Asl Mi2, all’Istituto tecnico statale Argentia (Via Adda, 2) di Gorgorzola (Milano), al convegno “I comportamenti a rischio negli adolescenti: realtà, bisogni ed intervento territoriale”. I dati verranno illustrati anche il 20 maggio a Roma, nell’ambito dell’evento “A chi compete la raccolta, l’interpretazione dei dati e lo studio della parte sommersa del fenomeno droga?”, organizzato dal Centro interdipartimentale di biostatistica e bioinformatica (Cibb) dell’Università di Roma Tor Vergata, nella sede centrale del Cnr (P.le Aldo Moro 7) e il 22 maggio durante “Il fenomeno delle dipendenze in Toscana” organizzato dall’Ars a Firenze.

«Tre studenti su quattro hanno fatto, almeno una volta nella vita, uso di droghe e/o abuso di alcol, psicofarmaci o gioco d’azzardo – spiega Sabrina Molinaro dell’Ifc-Cnr – Fra questi, il 17% ha già un comportamento a rischio di dipendenza: una quota in crescita. Ma a destare preoccupazione non è solo l’incremento, bensì anche la tendenza a improvvisarsi “alchimisti”, mescolando sostanze e principi psicoattivi con effetti sconosciuti, stimolanti, allucinogeni, smart drugs, cannabis, eroina, cocaina, e altro».
Una buona parte degli studenti utilizza prevalentemente cannabis ma i poli-utilizzatori sono sempre di più. «Dei quasi 600 mila studenti italiani che nel 2013 hanno utilizzato sostanze psicoattive illegali, pari a un quarto di tutti gli studenti, l’83% ne ha usata una sola: nel corso dello scorso anno, quindi, i cosiddetti poli-consumatori sono stati circa 100mila, pari al 4,3% dell’intera popolazione studentesca. E un terzo di questi ne fa un uso consistente, moltiplicando i rischi associati all’assunzione».

La cannabis, come accennato, resta la sostanza illegale più utilizzata dagli studenti: sono 580mila quelli che nel 2013 l’hanno assunta almeno una volta, fra questi più di 75mila la consumano quasi quotidianamente mentre oltre il 60% ne ha fatto uso meno di 10 volte durante l’anno.
Per la cocaina, si registra un incremento dei consumi nell’Italia centrale e meridionale, mentre al nord sono stabili dal 2005. Fra i 65.000 studenti che l’hanno utilizzata nell’anno sono circa 20.000 i frequent users, tra i quali però si registra un progressivo aumento, dallo 0,3% negli anni 2000-2006 allo 0,8% dell’ultima rilevazione. A farne maggior uso sono i ragazzi, anche se le ragazze mostrano una precoce curiosità per questa sostanza, tanto che un terzo di chi l’ha provata tra le femmine aveva tra i 14-15enni, contro il 20% dei maschi. L’eroina, pur restando una delle sostanze meno utilizzate fra i giovanissimi, sembra tornata in auge: nel 2013 ne hanno fatto uso 28mila studenti, l’1,2% e 16.000 sono frequent users. È tra questi ultimi che si evidenzia un aumento negli anni: da 0,2% del 2002 a 0,7 del 2013.
Nel 2013, infine, oltre 65mila studenti (2,8%) hanno fatto uso di stimolanti e 60mila (2,5%) di allucinogeni. Quasi 20mila (0,8%) più di 10 volte al mese, con un andamento in costante crescita, specialmente per gli stimolanti, da 0,1% del 2004 a 0,8%. La facilità di reperimento on-line caratterizza le principali novità di uso tra i ragazzi: 27mila (1,2%) studenti hanno fatto uso nel corso del 2013 di smart drugs, le droghe furbe, così chiamate proprio perché commercializzate come prodotti naturali, al confine tra legalità ed illegalità pur avendo effetti simili alle sostanze psicoattive illecite.

Inversione di tendenza per il gioco d’azzardo, ancora diffuso tra i minorenni nonostante i divieti. Nel 2013, oltre un milione di 15-19enni (44%) ha giocato somme di denaro e tra questi 152mila lo hanno fatto almeno 20 volte nell’anno. Anche qui l’online facilita le cose: il 9% degli studenti ha puntato tramite computer (67%) o smartphone (24%).

«Dopo un andamento di crescita fino al 2008, negli ultimi 5 anni si è registrato un calo di interesse, segno che campagne informative e interventi di prevenzione hanno sortito i loro effetti – conclude la ricercatrice Ifc-Cnr. A conferma della necessità di politiche di educazione e sensibilizzazione, capaci di parlare ai giovani delle sempre nuove tendenze, dando loro consapevolezza dei rischi ad esse connessi».

Astro, il robot badante

È un prototipo. È il primo robot che può assistere una persona aziana. Un badante di un futuro non troppo lontano che richiama, non certo nelle apparenze e men che mai nelle ragioni di chi ha voluto la sua esistenza, il film “Io e Caterina” con Alberto Sordi. Non di cinema ma di robot, sensori e webcam per la qualità della vita degli anziani nella propria casa. E’ questo l’obiettivo del progetto che offre nuove opportunità attraverso la sperimentazione, a Prato, di un sistema robotico per l’assistenza domiciliare.
Se ne è parlato a palazzo Buonamici nel corso del convegno “Tecnologie e reti sociali per invecchiare a casa propria”, promosso dalla presidenza del Consiglio provinciale insieme a Abitcoop e ad “Abitare e Anziani” e aperto dal presidente della Provincia.
Al convegno hanno preso parte imprenditori, cooperative sociali e terzo settore.
Cofinanziato dall’Unione Europea e dalla Regione Toscana, “Omniarobocare” è un progetto di ricerca partito il 9 aprile 2013, che si propone di realizzare un sistema tecnologico in grado di supportare anziani e disabili a casa, tramite l’utilizzo di diversi strumenti, sensori ambientali e dei parametri vitali, webcam, ecc, preferibilmente collocate su un robot (esiste già un prototipo che si chiama Astro) oppure dislocate nell’ambiente o indossate dalla persona. Oltre alle funzionalità di assistenza e monitoraggio in casa, sarà fornita agli utenti la possibilità di usufruire in maniera diretta di servizi per la cura della persona e dell’ambiente in cui si vive, favorendo il raggiungimento del maggior grado di comfort ed autonomia possibile.
Al progetto, coordinato da Life Result, partecipano Abitcoop di Prato, cooperativa di abitazione che metterà a disposizione le case per la sperimentazione del sistema, eRESULT e la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, che si occuperanno della progettazione tecnologica. Per Prato la sperimentazione significa anche una nuova opportunità per la rete di aziende ad alto contenuto tecnologico presenti sul territorio, che in questo settore potrebbero inserirsi a pieno titolo. Al progetto collaborano AeA – Abitare e Anziani e l’Auser, che forniranno il supporto per l’individuazione delle esigenze e la validazione del sistema.

Il velocissimo braccio robotico

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Tra i video più visti su Youtube, questa settimana, figura quello – ufficiale – sul braccio robotico che velocissimo afferra al volo gli oggetti che gli vengono lanciati. Pubblicato il 12 maggio, il filmato è stato realizzato per il canale Epfl, ente di ricerca che ha realizzato il robot, e pubblicato sul suo canale. Il braccio è capace di riconoscere e far proprie forme diverse, anche complesse, su differenti traiettorie, in meno di 5 centesimi di secondo.

Vota Paolo Brosio e lui annuncia querela

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Tra lo stupore dei più, tra gli spazi elettorali più vuoti che pieni, Prato si è risvegliata con un nuovo candidato sindaco. Vota Paolo Brosio è la scritta, accanto al volto sorridente dell’improbabile candidato sindaco. Che fosse una burla – ma di chi e perché? – si è capito presto. Troppo tardi per candidarsi. Troppo tardi per un decimo candidato sindaco. E poi, anche nome del movimento politico e slogan qualche dubbio l’hanno destato. A Prato, Brosio si sarebbe infatti candidato per il Movimento Medjugorje, con lo slogan E ancora: “Esiste un undicesimo comandamento: vota Brosio”. “Patria, Famiglia e Spirito Santo”. Manca solo l’Amen.
Amen che non chiuderà, con ogni probabilità e come ha confermato il legale di Brosio, la vicenda. Sarà presentata denuncia per tutelare l’immagine del personaggio e il suo “cammino di fede”. Il diretto interessato, poi, se l’è presa di brutto, anche per ragioni professionali.
Eppure, a loro dire, quelli che hanno affisso i manifesti elettorali falsi puntavano, col clamore, a criticare quella che ritengono la pochezza di contenuti e di programmi dei veri, son 9 in tutto, candidati alla carica di sindaco di Prato. Del resto, perché candidarsi proprio nella città toscana, con le tante al voto?
Il clamore c’è stato. Eccome. E quando le campagne elettorali non sono in effetti delle più belle, possono bastare meno di 6 manifesti burla a suscitarlo.

Trasformazione: da ragazzo a ragazza

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Da ragazzo a ragazza, da boy to girl per dirla col titolo del filmato che parla di trasformazione del corpo. A dire il vero, cambia l’aspetto, grazie al trucco e con i tocchi finali di parrucca e abbigliamento. Niente di pornografico né di rivolto alla prostituzione o ad altro. Solo l’esperimento, che magari il giovane protagonista ha pure gradito, messo su Youtube. Al di là di tutto, a velocità aumentata, il video strappa sia un sorriso che un minimo di stupore. Non lo hanno visto in molti. Eppure, il protagonista ci teneva, con tanto di autoscatti, o selfie che dir si voglia, per immortalare la carinissima lei uscita fuori come risultato finale

Un coniglio ghiotto che diventa star

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È su Youtube da appena 3 giorni e ha ricevuto già 6 milioni e mezzo di visite. È un coniglio, non è una star del cinema o della musica. Non si chiama Roger Rabbit né Bugs Bunny e si limita a mangiare. Semplice, semplicissimo. Il video dura appena 30 secondi ma è ricevuto un successo planetario. Che fa il coniglio? Mangia lamponi. Tutto qui. Che dire di più? Guardiamolo all’opera.

I gappisti, senza tregua contro i nazifascisti

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Chi furono i gappisti? Potremmo dire che furono “commandos”. Ma questo non è esatto. Essi furono qualcosa di più e di diverso dei semplici commandos. Furono gruppi di patrioti che non diedero mai tregua al nemico: lo colpirono sempre, in ogni circostanza, di giorno e di notte, nelle strade delle città e nel cuore dei suoi fortilizi. Con la loro azione i gappisti sconvolsero più e più volte l’organizzazione nemica, giustiziando gli ufficiali nazisti, i repubblichini e le spie, attaccando convogli stradali, distruggendo interi parchi di locomotori, incendiando gli aerei sui campi di aviazione. Ma ancora non sappiamo chi erano i gappisti. Sono coloro che dopo l’8 settembre 1943 ruppero con l’attendismo e scesero nelle strade a dare battaglia, iniziarono una lotta spietata, senza tregua contro i nazisti che ci avevano portato la guerra in casa e contro i fascisti che avevano ceduto la sovranità all’invasore, per conservare qualche briciola di potere.
Così scriveva Giovanni Pesce, in “Senza tregua-La guerra dei Gap”, edito da Feltrinelli.

Bruno Fanciullacci
Bruno Fanciullacci

Mi è piaciuto iniziare questa nota sui gappisti e sul loro ruolo nella guerra di liberazione citando Pesce, forse il più grande, sicuramente il più valoroso gappista italiano, medaglia d’oro al valor militare, eroe della Resistenza.
I Gap, Gruppi d’Azione Patriottica, erano tecnicamente dei piccoli nuclei di partigiani, mai superiore a cinque, formati dal Comando Generale delle Brigate Garibaldi.
I Gap, protagonisti di spericolate azioni antinaziste e antifasciste nelle città del nord e del centro, dipendevano esclusivamente dal Partito Comunista e dalle Brigate Garibaldi.
All’indomani dell’armistizio dell’8 settembre, gli occupanti tedeschi e i fascisti della neocostituita Rsi dovettero controbattere, nelle grandi città, la loro fiera opposizione. Quella dei Gap fu una dura lotta che comportò grandi rischi e sacrifici, producendo anche divisioni all’interno del Cln; un’aperta sfida senza possibilità di mediazione e compromessi, condotta anche con gli stessi metodi dei nemici e lanciata da subito, per dimostrare l’illegalità della Rsi e la volontà di lotta del popolo italiano per conquistare la libertà e riconquistare l’indipendenza.
Convinti che ogni attendismo non avrebbe che prolungato l’occupazione nazifascista col suo carico di lutti e rovine, i Gap non si fecero intimorire dalle minacce di rappresaglia e cercarono di smuovere l’opinione pubblica per condurla sulla via della rivolta. Incisero notevolmente sull’efficacia dell’organizzazione le grandi esperienze maturate dai militanti comunisti nella guerra civile spagnola e nella resistenza francese.

I gappisti vivevano nella più rigida clandestinità; per ragioni di sicurezza ogni gruppo era sconosciuto agli altri; all’interno di ogni unità si trovavano addetti al rifornimento d’armi ed esplosivi, staffette ed artificieri.
Si trattava di un’organizzazione assai complessa e articolata in modo che, tranne i nuclei operativi che portavano a termine le azioni (composti da tre-cinque partigiani), ogni altro non conoscesse più di due appartenenti all’unità. Ogni unità godeva di ampia libertà di azione e aveva un comandante e un commissario politico.
Tra i comandanti più noti citiamo Ilio Barontini, Giovanni Pesce, Giorgio Amendola, Antonello Trombadori, Carlo Salinari, Walter Nerozzi, Aldo Petacchi.
Decisi a colpire militarmente e moralmente i nazifascisti, in ogni luogo ed in ogni momento, questi nuclei rivoluzionari compirono sabotaggi, operazioni militari, operazioni di salvataggio, attentati su obbiettivi specifici quali ufficiali nazisti, dirigenti del Partito Fascista, membri della Milizia, collaboratori e spie. Mai una guerra cieca ed indiscriminata, ma una guerriglia urbana mirata a colpire gli elementi più pericolosi e connotati ideologicamente; una violenza rivolta soltanto contro i torturatori, le spie, i collaborazionisti.
Una delle azioni più conosciute di una squadra Gap è l’evasione di Sandro Pertini e di Giuseppe Saragat dal carcere di Regina Coeli, dove erano detenuti dall’ottobre 1943 e sui quali pendeva una condanna a morte per attività partigiana. La fuga avviene nel gennaio del 1944 ed è organizzata da Giuliano Vassalli, che si trova impiegato presso il Tribunale Militare Italiano, con l’aiuto di diversi partigiani socialisti e comunisti.

Giovanni Pesce e Nori
Giovanni Pesce (Visone) e Nori Brambilla che, dopo la fine della guerra, sarà sua moglie

Il più famoso dei partigiani gappisti, Giovanni Pesce, forte della sua esperienza nella guerra di Spagna, riuscì ad organizzare talmente bene l’attività a Torino e nei primi mesi del 1944 le azioni di guerriglia furono così efficaci e numerose, che il Federale fascista telegrafò allarmato a Mussolini affinché gli mandasse ingenti rinforzi, stimando in almeno 5000 il numero dei gappisti operanti in città. In realtà, a Torino non operarono mai più di 50 gappisti, ma le azioni furono organizzate in modo tale da far credere al nemico di essere costantemente sotto attacco di diversi gruppi partigiani.
Nel capoluogo piemontese, furono effettuati attentati a diverse linee ferroviarie e tranviarie, furono eliminati alcuni torturatori fascisti, oltre al direttore della Gazzetta del Popolo che si era distinto per i ripetuti inviti alla deportazione. L’azione più importante fu la distruzione della stazione radio che disturbava le trasmissioni di Radio Londra. Dei quattro gappisti partecipanti all’attacco, due furono catturati e Dante di Nanni rimase ucciso. Il giovane operaio, circondato dai nazisti e dai fascisti, riuscì tuttavia a ucciderne a sua volta 10 e a ferirne 17, prima di gettarsi dal balcone di casa. Il sacrificio di Dante di Nanni costituisce una delle pagine più intense della resistenza italiana.
Pesce fu quindi inviato dal Comando delle Brigate Garibaldi, anche perché era ormai saltata ogni sua copertura, a riorganizzare i Gap di Milano che dopo ben 56 azioni di attacco militare ai nazifascisti avevano subito ingenti perdite e arresti. Egisto Rubini comandante della Terza Brigata Lombardia, sottoposto a pesantissima tortura, preferì uccidersi piuttosto che rivelare i nomi dei compagni).
L’arrivo di Pesce a Milano rigettò i nazifascisti nel terrore. L’azione di “Visone”, nome di battaglia di Pesce, entrata nella leggenda fu l’eliminazione di Cesare Cesarini, chiamato a Milano il “doberman” del Fascismo.
Responsabile di torture, fucilazioni e della deportazione di 63 operai della Caproni nel campo di sterminio di Mauthausen, Cesarini sembra imprendibile: gira sempre scortato da due miliziani armati di mitra e pistole. Ma il 16 marzo 1945 Cesarini e la sua scorta incontrano Visone. Il partigiano li affronta da solo, con due pistole, in via Mugello. I fascisti quasi non credono ai loro occhi, ma Visone spara, uccide il Doberman e ferisce le due guardie. Poi grida frasi di rivolta ai milanesi presenti che, vista la scena, dopo un primo momento di paura, si mettono ad applaudire. A quel punto Pesce, inforcata la bicicletta, si dilegua fra le vie della città. Nell’occasione, Visone si nasconde dalla madre della sua ragazza, Nori, che nei giorni precedenti è stata catturata e, dopo essere stata torturata, reclusa nel campo di Bolzano in attesa del trasferimento a Mauthausen.
A Firenze, i Gap, al comando di Alessandro Sinigaglia, sono suddivisi in quattro gruppi operativi, il gruppo B è guidato da Bruno Fanciullaci (Maurizio) che insieme al quindicenne Aldo Fagioli, Tebaldo Cambi e Luciano Suisola organizza sabotaggi di grande importanza strategica alle linee elettriche, ferroviarie e telefoniche. Degna di nota l’azione nella quale Maurizio, da solo, travestito da ufficiale fascista, entra nella sede del Partito in Via dei Servi, lascia un pacco bomba e si allontana tranquillamente. La sede fiorentina del fascio viene completamente devastata. Successivamente farà discutere l’azione che porterà il Fanciullacci alla eliminazione del ministro Giovanni Gentile.

Via Rasella
Un soldato tedesco dopo l’attentato di via Rasella

Così come a Roma farà discutere l’attentato di Via Rasella del 23 marzo ’44, che portò alla rappresaglia nazifascista con la strage delle Fosse Ardeatine.
Ogni critica, come ogni dissenso, vanno tuttavia inseriti nello spirito del tempo.
L’azione di Via Rasella compiuta dai gappisti al comando di Carlo Salinari (Spartaco) e Franco Calamandrei (Cola) è considerata un’azione di guerra. Altrettanto non si può dire della spregevole rappresaglia compiuta sulla popolazione inerme. Rappresaglia che non fermò comunque l’azione dei Gap romani: appena 10 giorni dopo compirono una attacco al Circo Massimo, distruggendo numerosi camion tedeschi e facendo perdere la vita a tre nazisti.
Per tutto il mese di aprile vi fu un susseguirsi di attentati alle forze di occupazione. Il 29 aprile i nazisti catturarono un partigiano addetto ai documenti, che, sotto tortura della Banda Koch, fece i nomi dei partigiani che conosceva. Furono così arrestati, Carlo Salinari, Franco Calamandrei, Raul Falcioni, Duilio Grigioni, Luigi Pintor, Silvio Serra. Calamandrei riuscì a fuggire dalla sede della Banda Fascista in modo rocambolesco, gli altri si salvarono poiché il 4 giugno arrivò la Liberazione di Roma.
Nel dopoguerra vi fu un processo contro alcuni partigiani per i fatti di Via Rasella. Il Tribunale sentenziò, in tutti e tre i gradi di giudizio, che ogni azione dei partigiani doveva considerarsi “atto di guerra”.
Successivamente, attaccati dal direttore de “Il Giornale” Vittorio Feltri, quali responsabili dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, i Gap romani nella persona di Rosario Bentivegna, sono stati riconosciuti combattenti per la libertà ed Il Giornale condannato a risarcire i gappisti.
A conclusione di queste brevi note pare giusto ricordare una frase di Giovanni Pesce che riteniamo sintetizzi molto bene lo spirito e gli ideali che animarono quei valorosi combattenti.
«Ricordo che un pomeriggio all’Anpi, stavamo bevendo un bicchiere di vino circondati da alcuni giovani compagni e amici, quando, d’un tratto, un signore tutto sorridente si è avvicinato e ha chiesto a Giovanni con fare festoso: “Allora, dicci, quanti ne hai fatti fuori di fascisti?”. Tutti si sono zittiti. Pesce ha risposto seccato: “Io non ho fatto fuori nessuno. Io ho combattuto perché la guerra finisse». Da Giovanni e Nori, di Daniele Biacchessi, Laterza, 2014.

Marco Nieri

Nella foto di copertina una staffetta ferita (sito Anpi di Brescia)

Murales del mondo

Si inaugura sabato 10 maggio alle 18 nel Cassero Medievale di Prato la mostra di Piero Berti, Murales del Mondo, organizzata dall’assessorato alla cultura del Comune. Il percorso espositivo della mostra è un viaggio nel magico universo della pittura murale con l’intento di dare il giusto risalto ad un’arte, il muralismo, che ha ampiamente il diritto di essere annoverata fra quelle espressioni artistiche che godono di universali e conclamati riconoscimenti.
Mosso da un personale interesse verso questa speciale espressione artistica, straordinaria per il suo impatto comunicativo, Berti ha condotto un’appassionata ed insistita ricerca dei più bei muri dipinti, fotografandoli nelle strade e nelle piazze di molte città del mondo: San Francisco, New York, Madrid, Dublino, Praga. Ha fotografato il muro a Berlino prima che fosse abbattuto e dopo, quando i 1300 metri superstiti sono diventati una vera e propria pinacoteca a cielo aperto. Il contatto con questa autentiche opere d’arte gli ha permesso di conoscere ed apprezzare i padri del muralismo internazionale: Diego Rivera, Clemente Orozco, Alfaro Siqueiros. In mostra alcuni scatti che ritraggono proprio le realizzazioni di questi grandi maestri che hanno immortalato nelle loro opere a cielo aperto importanti tematiche sociali quali il conflitto di classe, la corruzione, il bisogno di spiritualità, la sofferenza umana. Il percorso espositivo di Berti esalta la valenza comunicativa del muralismo e la forza dirompente del suo messaggio che riesce ad arrivare dritto agli occhi ed al cuore di chi osserva.
La mostra, ad ingresso gratuito, sarà visitabile fino al 15 giugno il venerdì, sabato e domenica dalle 16 alle 19. La mostra sarà temporaneamente sospesa nel fine settimana del 16, 17, 18 maggio in occasione di “Prato contemporanea”, per poi riprendere regolarmente nei week end successivi.

Le ville medicee nel patrimonio Unesco

Dopo quasi un anno dal riconoscimento internazionale le due ville del Montalbano entrano ufficialmente nel patrimonio Unesco. Il 23 giugno scorso, infatti, il Comitato per il Patrimonio dell’Umanità, esprimeva il proprio parere favorevole a Phnom Penh in Cambogia nei confronti delle dodici ville e dei due giardini medicei in Toscana, perché il forte mecenatismo culturale della famiglia dei Medici aveva finito per produrre importanti ripercussioni culturali in tutta Europa.

Nicola Piovani
Nicola Piovani

Il fine settimana sarà quindi all’insegna dei festeggiamenti. Ad iniziare, sabato 10 maggio, sarà la Villa Ambra di Poggio a Caiano, fortemente voluta da Lorenzo il Magnifico e situata in posizione strategica nella pianura che separava Firenze e Pistoia. La giornata del 10 maggio inizia alle 12.30 con l’inaugurazione della targa Unesco all’ingresso della Villa, dove saranno presenti le istituzioni locali e la Filarmonica G. Verdi di Poggio a Caiano. Alle 15 nel giardino della Villa sarà tagliata la torta offerta dal Consorzio Pasticceri Pratesi in collaborazione con la Camera di commercio di Prato, mentre alle 16 sarà verrà aperta in via straordinaria la fontana del Mascherone a cura della Pro Loco poggese. A concludere i festeggiamenti, alle 18, sarà il Gran Galà lirico, lo spettacolo dell’Orchestra Nazionale Artes diretta da Andrea Vitello. Per gli amanti della storia dell’arte, sarà inoltre possibile visitare il Salone di Leone X e il Museo della Natura Morta all’interno della Villa, effettuando visite gratuite solo su prenotazione, dalle 14 alle 22 e il Museo Soffici e del ‘900 italiano, che sarà aperto dalle 10 alle 23 in occasione dell’esposizione Giornate di paesaggio, omaggio ad Ardengo Soffici a cinquanta anni dalla sua morte.
Per tutta la giornata sarà inoltre possibile visitare il Mercatino dell’artigianato, organizzato per le vie del centro dalla Pro Loco poggese.

Domenica 11 maggio i festeggiamenti si spostano invece ad Artimino. La Villa Ferdinanda, commissionata dal Granduca Ferdinando I e nota anche come la villa dei cento camini, era nata come riserva di caccia e villa estiva.
La targa sarà apposta alle 11.30, mentre dalle 9.30 alle 14 sono previste, da programma visite guidate all’interno del Museo archeologico comunale e nella Villa medicea. Nel primo pomeriggio, alle 15, sarà invece presentato il volume “Villa medicea la Ferdinanda di Artimino” di Saida Matteini a cura di Nadia Bastogi e del sindaco Doriano Cirri.
Alle 16.30, invece, l’evento clou di tutta la manifestazione: negli spazi della Villa si esibirà infatti il premio Oscar Nicola Piovani. La sua lezione concerto, “La musica è pericolosa”, a ingresso gratuito, è altro che un racconto della sua carriera artistica, a partire dagli esordi con Silvano Agosti fino all’approdo al cinema di Bellocchio, di Monicelli, dei fratelli Taviani, di Moretti e Fellini.

Valentina Cirri

Prostituta seviziata: morta in pochi minuti

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È morta nel volgere di pochi minuti, a causa di un’emorragia esterna provocatole dal suo aguzzino. Andrea Cristina Zamfir, pur lamentandosi durante la breve agonia, non ha avuto tempo e modo di chiedere aiuto. Troppo debole il suo fisico e troppo pesante la mano del maniaco che l’ha violentata con un bastone, provocandole le mortali lesioni interne. La ragazza, 26 anni e qualche problema con la droga, si prostituiva in proprio e appariva debole, indifesa. Secondo gli inquirenti, il maniaco ha sempre abbordato, in almeno 7 casi, che potrebbero risultare ancora di più, donne con caratteristiche fisiche tali da renderle ancora più esposte e indifese, chiedendo loro di spogliarsi per un gioco erotico e, infine, legandole con il nastro adesivo. Proprio dalle tracce di Dna lasciate sul nastro, gli investigatori hanno appurato che lo stesso uomo ha colpito in almeno 3 dei casi precedenti. Quella che era l’ombra del maniaco è ormai, purtroppo, la certezza. Il profilo genetico e i sospetti su alcune persone potrebbero però permettere agli inquirenti, coordinati dal pm Paolo Canessa, di chiudere il cerchio intorno all’assassino. Il maniaco, tra l’altro, avrebbe colpito soltanto in due luoghi, a Ugnano, alla periferia di Firenze, dove è avvenuto il caso del 2013 e dove lunedì notte è morta la giovane rumena, e nel Pratese.

Prostituta crocifissa e torturata a morte: indagini e precedenti

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Legata a una sbarra, come crocifissa, per essere torturata a morte. È la fine della giovane prostituta rumena, Andrea Cristina Zamfir, trovata alla periferia di Firenze, ormai priva di vita, nella posizione in cui l’ha lasciata, dopo avere infierito su di lei, l’assassino. Un sadico. Un maniaco. Un potenziale (o effettivo) serial killer. Anche perché, già lo scorso anno, identico il luogo, un’altra prostituta era riuscita a sopravvivere. Le stesse circostanze, la stessa sbarra, la stessa crudeltà.
Non solo. Tra Prato e Firenze potrebbero essere addirittura 7 i casi analoghi. Su alcuni indaga proprio la Procura della Repubblica pratese, che dal 2009 a oggi ha raccolto elementi del tutto simili, su casi pressoché identici affidati alla polizia o, quando avvenuti nella zona di Calenzano, ai carabinieri della compagnia di Signa.
Altri due, a quanto pare, i casi fiorentini. Quello della donna torturata con un palo di legno ma sopravvissuta anche grazie alle sue urla. E quello di una ragazza, che ha detto di chiamarsi Martina e cha ha riferito all’agenzia Ansa di essere caduta nelle mani dell’aguzzino, allontanato in un caso con la forza della disperazione, dopo aver capito che l’avrebbe seviziata, massacrata forse con un paio di tenaglie. Un uomo incontrato di nuovo, a suo dire, d’età compresa tra i 50 e i 60 anni, alto.
Gli inquirenti suppongono che l’assassino, il maniaco non sia di statura considerevole.
S’indaga a tutto campo. Dell’omicidio della ragazza, 26 anni e madre di una bimba, si occupa il pm fiorentino Paolo Canessa. Valuterà anche gli atti pratesi, porrà tutta la sua esperienza, lui che ha indagato sui delitti del mostro di Firenze, al servizio dell’indagine. Le altre prostitute si sono salvate. La ragazza torturata e uccisa lunedì, in piena notte, no. Forse, un’emorragia interna e nessuno che abbia risposto ai suoi lamenti, e un corpo, si dice, indebolito dalla droga, non le hanno permesso di farcela. A ucciderla, però, è stato il maniaco. Da reperti raccolti in questa e in altre circostanze, grazie al Dna, polizia e magistrato capiranno se ha sempre agito la stessa mano o, addirittura, se si tratti dell’opera di più persone. Il che non è escluso a priori ma neppure, allo stato delle indagini, probabile.

I delitti del mostro di Firenze tornano a mente. Non solo perché indaga un magistrato che ha dedicato anni di lavoro ai “compagni di merende” e ad altri delitti, irrisolti, che hanno talvolta visto prostitute e altre donne tra le vittime. Omicidi legati, secondo molte ipotesi, proprio al mostro di Firenze e a quello, o quelli, che sarebbero stati i suoi mandanti.

Tre ragazze uccise a Prato e a Pistoia, una quindicina d’anni fa, rappresentano un caso chiuso. Le uccise, nel volgere di due mesi, Maurizio Spinelli, ritenuto parzialmente capace di intendere e volere e condannato in primo grado a 23 anni. Il 20 luglio 2000 uccise, colpendola al cuore con un coltello, Ntalia Topala, Moldava, con la quale si era appartato a Galcetello. Il 2 agosto, nei pressi della stazione di Calenzano, la stessa sorte toccò a Rudina Xelo, albanese di 23 anni. Alla fine di settembre dello stesso anno, il coltello si accanì, alle porte di Pistoia, su Olga Frunze, moldava, con la quale l’assassino si era appartato nei vivai della zona di Chiazzano.

Incidente mortale è quello, stando alle indagini, nel quale trovò la morte Mara Blerina, a metà degli anni Novanta. Ventenne, albanese, fu vista cadere da un’auto che a folle velocità stava fuggendo dalla polizia. Si ipotizzò anche che la ragazza fosse stata gettata di forza dallo sportello del passeggero per fermare la corsa degli agenti. La verità, quella che si è potuta accertare, dice invece che avrebbe trovato la morte cercando di scendere, di fuggire dall’auto.

Il primo bacio non si scorda mai

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Ma poi che cos’è un bacio? Un giuramento fatto un poco più da presso, un più preciso patto o un apostrofo rosa tra le parole ti amo? Il problema non è tanto ricordarsi la giusta serie terminologica della definizione di bacio data da Cyrano de Bergerac. Il problema è un altro: provare a definire l’indefinibile, la poesia dietro la materia, l’infinito spazio tra due bocche che si sfiorano.
Fuor di metafora, ci hanno provato tutti. Poeti, scrittori, artisti, sceneggiatori. Persino un gruppo di ricercatori americani del College Lafayette in Pennsylvania ha tentato di dare una spiegazione plausibile alla reazione scatenata dal bacio, alla combinazione di ormoni e molecole maschili e femminili che genera quella che in gergo viene chiamata la scintilla. Ovviamente, la scienza si è limitata ad indagare soltanto una parte del fenomeno, gli effetti visibili, non ad occhio nudo, ma almeno ad un’analisi in profondità.
Sondare le cause del fenomeno sarebbe come camminare su un pavimento in pendenza, cercare di intrappolare in categorie concettuali e dunque razionali, ciò che per natura non lo è, né potrà mai esserlo.
Il bacio, infatti, non è fisica, non è attrazione di due poli opposti. È soprattutto chimica, che fin dalle origini nasce come arte magica e non come scienza esatta.
Il bacio dunque può essere soltanto magia e quindi, chiudendo il sillogismo aristotelico, torniamo al punto di partenza: non può essere spiegato.
A complicare ulteriormente la questione c’è il fatto che di baci ne esistono diversi tipi, nonché diverse tecniche di baciare. Ad esempio, gli Eschimesi si baciano naso-naso, i Francesi usano la lingua, mentre i Russi si danno tre baci consecutivi sulle guance. Anche se Dante Alighieri e William Shakespeare ci hanno insegnato –con buona pace di Paolo e Francesca e di Romeo e Giulietta- che l’amore, inteso come passione, inizia e finisce con un bacio, non obbligatoriamente l’equazione matematica è sempre e comunque soddisfatta. Bacio rappresenta anche un’altra forma di affetto, come il bacio della buonanotte, oppure segno di riconoscimento come il baciamano di altri tempi o il bacio accademico per gli studenti universitari, nonché di tradimento come il bacio di Giuda.
E mentre nell’arte i vari Hayez, Klimt, Munch, Bansky e Doisneau davano la loro versione del bacio, è arrivata lei, Tatia Pilieva, la regista che ha realizzato il cortometraggio First Kiss, divenuto poi la campagna pubblicitaria dell’azienda di abbigliamento Wren.
“Abbiamo chiesto a venti sconosciuti di baciarsi per la prima volta”, si legge in una delle prime schermate del video, ultimo fenomeno virale del web. Niente è stato detto alle dieci coppie che si sono trovate di fronte la macchina da presa, se non appunto darsi un bacio. Le reazioni delle persone sono state svariate, timidezza, intraprendenza, velocità d’esecuzione.
Il cortometraggio non ha nessun valore sociologico o pedagogico, non vuole spiegare il bacio. Vuole soltanto mostrare, con una buona dose di leggerezza -ogni tanto serve anche quella- che il bacio, soprattutto se è il primo, è un punto di partenza per coprirsi e per scoprirsi. Coprirsi di energia e scoprirsi in tutti i sensi. Buttando giù il muro della timidezza e scoprendo così se stessi e la persona che si ha di fronte, che sarà a sua volta coinvolta nello stesso processo.
Se potesse essere sempre così, sarebbe bello allora che il bacio fosse sempre il primo e che si potesse vivere sempre di inizi o citazioni da prima volta.

Valentina Cirri

Da donna normale a icona sexy

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Una donna al naturale, bella ma assai diversa dalle icone sexy di film e pubblicità, posa appunto per una foto pubblicitaria. L’intervento del parrucchiere e il trucco la trasformano. Non basta. Photoshop fa il resto e lei, alla fine, si trasforma in un’altra.
Il filmato, girato nel dicembre 2011, sta tornando alla ribalta in rete. È virale, come lo era già stato, e vale la pena di guardarlo.
Il video venne girato per mostrare come pubblicità e media manipolano l’immagine stessa che abbiamo di noi e degli altri. La realtà, la verità, l’essenza di una bellezza divengono altro.
Come indicano i titoli, il clip fu creato per GlobalDemocracy.com proprio per mostrare come show televisivi, riviste patinate e mentalità indotte cambiano la nostra percezione e non esitano a manipolare, sia pure su uno schermo, il corpo e l’aspetto di una persona.

Sherlock Holmes e l'enigma del cadavere scomparso

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Prendete il tema dell’emancipazione femminile e del diritto di voto alle donne, un politico antisuffragista, l’ombra dell’anarchia, il discutibile comportamento della polizia di Birmingham, un paio di cadaveri sotterrati in tutta fretta, una vecchia fotografia… e avrete gli ingredienti principali del nuovo romanzo apocrifo, il quarto, di Luca Martinelli dal titolo “Sherlock Holmes e l’enigma del cadavere scomparso”, edito dalla milanese Delosbooks.

La vicenda si svolge nel Maggio 1910. Dopo sei anni di onorata pensione, Sherlock Holmes, in compagnia dell’inseparabile amico dottor Watson, torna sulla scena per indagare su un misterioso caso di omicidio in cui sono coinvolte due suffragette. Le amiche della signorina Jowett sono trattenute in carcere a Birmingham, accusate di aver ucciso un libraio, editore di un foglio politico contrario all’emancipazione femminile, nel corso di una manifestazione per il diritto di voto. Il mistero che la cliente presenta a Sherlock Holmes, però, è singolare: la stampa non ha mai riferito notizie di un omicidio e il cadavere del libraio è scomparso.

Dietro la vicenda c’è aria di complotto politico e il comportamento poco pulito della polizia di Birmingham… Un’indagine ricca di colpi di scena che saprà incollare il lettore fino all’ultima pagina.

Il libro, già disponibile sui siti di vendita online sia nel tradizionale formato cartaceo sia in formato eBook, sarà in libreria da lunedì 5 maggio.

Pico e Leonardo, amici per la bellezza

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Quali furono i legami che intercorsero tra Leonardo da Vinci e Pico della Mirandola? Di certo i due protagonisti del Rinascimento italiano si conoscevano e si apprezzavano. Lo stabiliscono gli studi di Carlo Pedretti, massimo esperto mondiale di Leonardo, che sul rapporto che lega Pico a Leonardo indaga sin dal 2005 cercando di stabilire le relazioni intellettuali finora sconosciute che unirono i due giganti della cultura italiana.
Da queste ricerche nasce il volume “La bellezza secondo Leonardo e Pico” che esce per i tipi di CB Edizioni di Poggio a Caiano.
Tra i temi che furono cari sia a Leonardo che a Pico infatti, quello della bellezza fu probabilmente il “terreno” intellettuale sul quale i due si confrontarono scambiandosi esperienze.
Corbola, piccolo comune della provincia di Rovigo, è un altro punto nodale di questa ricerca. Qui infatti Pico della Mirandola trovò la sua ‘vita quieta’ e incontrò i suoi amici, tra cui Poliziano.
Si deve allo studioso Sergio Poletti la scoperta di documenti inediti che attestano la presenza dell’intellettuale mirandolese a Corbola tra il 1480 ed il 1494. E sono state proprio le ricerche di Poletti, confluite nel volume “Giovanni Pico della Mirandola a Corbola alla ricerca della ‘vita quieta’”, lo stimolo per approfondire i complessi legami intercorsi tra Pico e Leonardo da Vinci.
Il volume edito da CB Edizioni, introdotto dal sindaco di Corbola, Marina Bovolenta, oltre al saggio di Pedretti raccoglie una presentazione di Sergio Poletti e una appendice di iconografia pichiana di Sergio Sgarbanti.
La presentazione avrà luogo il prossimo 3 maggio alle ore 17.30 presso la Sala della Fondazione scolastica “C. Bocchi” di Adria (Rovigo).
Saranno presenti il sindaco Marina Bovolenta, che ha voluto che l’opera venisse pubblicata, e l’autore Carlo Pedretti.

Lorenzo Viani dalla Versilia a Prato

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L’opera di Lorenzo Viani approda a Prato. Attraverso 28 fra disegni, pitture, incisioni, una mostra ne ripercorre l’intera parabola artistica, dagli approcci giovanili con l’Avanguardia all’esperienza della Grande Guerra, dal mare della Versilia ai giorni amari in sanatorio. Organizzata dalle Associazioni cuturali Asterisco e ArtInPo, la mostra è visitabile fino al 25 maggio, a ingresso libero, dal mercoledì al venerdì (16,30 – 19), e il sabato e la domenica (10,30 – 13 e 16,30 – 19). Sala Valentini, via Ricasoli 6.

In Italia, l’inappartenenza ha sempre destati sospetti, se non addirittura cattiva impressione. Non essere riconoscibili per etichette, evitare le folle chiassose, sublimare il talento lungo sentieri poco frequentati dalle correnti ufficiali, espone fatalmente a lunghi soggiorni nel dimenticatoio, giustificati soltanto dall’ostinata grettezza dell’ignoranza. È il caso di Lorenzo Viani (1882 – 1936), pittore, incisore, scrittore, pensatore anarchico, orgogliosamente libero fra le sbarre di quella cage aux folles che l’Italia dei primi decenni del secolo scorso già cominciava a diventare.
A distanza di oltre sei lustri dalla grande antologica viareggina dell’agosto ’82, la piccola ma raffinata mostra I segni di Viani, apre nuovi scorci su uno degli artisti a torto meno celebrati del Novecento italiano, visto attraverso le opere inedite di una collezione privata pratese.
Viani fu artista orgogliosamente toscano, legato al territorio, che non tralasciò la nobile lezione dei Macchiaioli, (a Firenze fu allievo di Fattori), per narrare un popolo alla stregua, ad esempio, di Soffici e Martini, ma il tono elegiaco in lui scompare, per lasciare spazio a un’indagine sociale e introspettiva che trova pieno compimento negli schizzi a carboncino, a matita, a inchiostro, del Balena, dei mendicanti, della portatrice d’acqua, personaggi eroici per l’ostinazione con la quale affrontano le fatiche e le umiliazioni quotidiane. Carattere introverso e speculativo, sin dall’infanzia Viani fu attratto dalla natura aspra della Versilia, e non è arduo pensarlo come un novello Barone Rampante, intento a esplorare la darsena della natia Viareggio, le pinete e i boschi del retroterra, allora regno incontrastato e quasi fiabesco di quei personaggi ai margini che ispirarono la sua pittura esistenziale, mirabile strumento per indagare il mistero dell’uomo, con quella sofferenza che appare ineluttabile, sorte predestinata dal volere della Natura che lega l’uomo a un determinato territorio.
Artista dalla non estesa produzione pittorica – in questo vicino a Cristiano Banti, anche se per ragioni diverse -, Viani fu un inappartenente, non legato a un particolare stile pittorico, e infatti ne frequentò diversi, senza per questo assorbirne definitivamente uno. Una pittura per l’uomo e sull’uomo, uomo che raffigura con pochi sapienti tratti, ora vicini ai Macchiaioli, ora a Toulouse Lautrec, ora al Cubismo, ora al Simbolismo. Un tratto, il suo, che sa di pesce secco e aghi di pino, di sole e di libeccio, aspro come certe pagine di Pavese o Fenoglio, come lui profondamente legati alla loro terra natia, un tratto che evoca pensoso silenzio, più pesante del tuono, per citare Emilio Isgrò.
I suoi disegni e le sue tele ci parlano della Versilia, non quella vacanziera cui siamo abituati oggi, ma una qualsiasi striscia di terra dove il pane quotidiano costa sudore, fatica, amarezza e umiliazione. Un discorso artistico che affonda le proprie radici concettuali in Courbet e Millet, e lo fa cantore di un’Italia grossolanamente definita minore, marginale, reietta.
A Viareggio, allora stazione balneare di un certo prestigio culturale, ebbe modo di conoscere Leonida Bissolati, Andrea Costa, Menotti Garibaldi, Giacomo Puccini, Gabriele D’Annunzio, Plinio Nomellini, e tuttavia le sue frequentazioni abituali erano nell’ambiente anarchico-socialista, in quel Casone, ritrovo di vagabondi, ricercati e liberi pensatori. E non ancora diciottenne, profondamente colpito dalla forza della lotta di classe che interessò anche Viareggio, divenne membro del gruppo anarchico locale.
Anche nel corso dei suoi numerosi soggiorni a Parigi, Viani ebbe poco occhio per le luci dell’ormai agonizzante Belle Epoque, e continuò a guardare agli umili, mentre lo sfarzo dei Grand Boulevards appare in unico disegno a matita, che ritrae una coppia a passeggio elegantemente vestita, presa però di spalle. La verità del volto, quella che più interessa Viani, la ritroviamo nei vagabondi che incontrò al dormitorio La Ruche, microcosmo di miserie, afflizioni, impossibili sogni, e vagheggiate rivoluzioni, che ogni notte vi trovavano rifugio. Viani passò anche attraverso l’esperienza della Prima Guerra Mondiale, che lo segnò profondamente, e a differenza di Ardengo Soffici che rientrò dal fronte con nella mente la necessità di un ritorno all’ordine, avvertì l’urgenza di parlare del dramma che aveva scosse le coscienze d’Europa, in primo luogo quelle dei soldati che avevano vissuto l’orrore delle trincee. La mostra ce ne offre uno spaccato, attraverso una serie di caricature dalle quali, paradossalmente, emerge la verità dell’uomo, sospesa fra quell’arguzia che ricorda Agnolo Tricca, e la spigolosità di George Grosz. Opere quali Suonatore di piffero (di una banda militare), Soldato tedesco, Soldato inglese, si fanno ambasciatrici di un personalissimo espressionismo.
Invece, il suggestivo carboncino Il pazzo, (nella foto), ricorda gli stilemi del primo Picasso, mentre Verso la Darsena per l’imposatzione scenica è apparentabile al Cristiano Banti della maturità (Processione, Passeggiata al tramonto). E ancora, un richiamo all’arte toscana lo ritroviamo nel disegno a carboncino Incontro, dove appaiono tre figure umane, un vecchio, un ragazzino, e una donna. Se lo confrontiamo con una xilografia di Quinto Martini, dove spicca una famiglia contadina che comunica la profondità del rapporto fra i congiunti, l’onestà del proprio lavoro, e sembra evocare la benedizione dell’artista su quegli uomini di buona volontà, ci accorgiamo che in Viani, il titolo è solo un pretesto, uno schiaffo all’osservatore. Le figure sono su piani diversi, con il vecchio signore sullo sfondo che guarda a terra con occhi umiliati; la donna, in primo piano, guarda lontano non con speranza, ma con disillusione, e il ragazzino rivolge a lei, presumibilmente la madre, uno sguardo duro e accusatorio. Le figure sono su piani diversi, c’è distacco fra le generazioni, indifferenza fra gli individui.
Artista non etichettabile, attratto dai concetti più che dagli stili, fu anche scrittore (i romanzi Ritorno alla Patria, I Vageri, Il figlio del pastore, e Parigi, diario dell’esperinza francese), una prosa, la sua, che ricorda Lautréaumont e i Canti di Maldoror, per quella prosa visiva e spesso allucinata con la quale ritrae gli “ultimi”, ma che al contempo si trasforma in prosa elegiaca di un paesaggio e di una terra.
Viani si pone su quel sentiero narrativo della corrente intellettuale della solitudine, che annovera autori, in particolare scrittori, quali Pavese, Calvino, il Pratolini di Allegoria e Derisione, il Malaparte dei Racconti, e, in tempi più recenti, Pier Vittorio Tondelli, anche se trasposto in una dimensione urbana. Una corrente poco frequentata dall’Italietta borghese, guardata, se non proprio con sospetto, comunque con supponenza. Dalle tele, i disegni, le pagine di Viani, emerge una condizione di voluta emarginazione, alla ricerca del silenzio, di un ideale – anche spicciolo -, e una funzione sociale quasi mitologica, di anello mistico fra l’uomo, il mito, la natura. Personaggi, i suoi, che in parte ricordano gli strànnik del mondo contadino russo. E il già citato Pazzo, è testimonianza di vicinanza verso quel mondo della follia che nasconde però un carattere quasi profetico.
Una grave affezione polmonare pose fine ai suoi giorni, ma anche in ospedale trovò la forza di rappresentare i suoi compagni di sventura.
Viani ci parla di un’Italia che preferiamo ignorare, ma che pure è ancora sotto i nostri occhi, perché, non troppo diversamente da quanto accadeva per i tenaci e orgogliosi versiliesi del primo Novecento, anche oggi il pane quotidiano costa fatica e umiliazioni.

Niccolò Lucarelli