Nato a Salto, in Uruguay, nel gennaio 1987, Luis Suarez è davvero un bell’attaccante. Ha il vizio del morso. Mica del morso sul collo, dato con leggerezza, sensualmente, con attenzione, della fidanzata. No. Sul collo degli avversari. Così, in giro, dopo l’ultima dentata affondata, non troppo ma tanto da far male sulla pelle dell’italiano Giorgio Chiellini in una partita dei Mondiali di calcio, si sprecano le sue immagini, sul web, con la maschera del Hannibal Lecter. Sì, proprio lui, l’antieroe cannibale del cinema per eccellenza.
Nel filmato che alleghiamo, 5 momenti folli, morsi compresi, di Luis Suarez.
Il morso /2
Il morso /1
Suarez morde. Ne sa qualcosa anche Giorgio Chiellini, al quale tanto piacere i denti dell’uruguayano non hanno donato. Eppure, non drammatizziamo. Ok. La star del calcio del Paese sudamericano ha il vizio, chiamiamolo così, di mordere. Lo ha tanto radicato che, in base a due episodi passati, il Liverpool lo spedì diretto dallo psicologo. Già, perché nel calcio il cazzotto nei denti e la gomitata sul naso possono andare ma il morso no. Chiaro. Gesti, tutti, da espulsione. Sempre che l’arbitro veda. Se non vede, largo all’inchiesta, come quella che ha aperto la Fifa, subito dopo aver visto le immagini e i segni sulla pelle del calciatore azzurro.
Mordere l’avversario non va. Proprio non va. Non andava bene ne è ammesso, benché la pratica sia ancora di sporadico uso, nel calcio storico, quello fiorentino. Anzi, lì, quando capita, i danni alla malcapitata preda si sono sovente rivelati più gravi.
Al morso di Suarez e all’eliminazione dell’Italia è comunque dedicato il video, che riportiamo, della Cnn. Sul sito dell’emittente non mancano i commenti. E il più carino, in fondo, dice che lo ha soltanto assaggiato, riservandosi il meglio per dopo.
Intimo, lingerie e bellezze: è Mare d'Amare
Sta per aprirsi alla Fortezza da Basso di Firenze con una regia made in Pistoia, la settima edizione di Mare d’Amare, in programma dal 26 al 28 luglio L’appuntamento è dedicato alla moda mare e accessori che vede protagoniste oltre duecento collezioni provenienti da tutta Europa per l’estate 2015.
Il salone a partire da quest’anno cambia pelle e diventa Immagine Italia & Co. by Mare D’Amare per un progetto ambizioso e rivoluzionario per il settore di internazionalizzazione in collaborazione con il salone dell’intimo e lingerie che si tiene a febbraio sempre in Fortezza da Basso. Questo proprio nell’ottica di esprimere sempre più “l’immagine di gruppo” in un’unica piattaforma qualificata che consenta alle aziende di intimo, lingerie e mare di avere un solo interlocutore capace di farsi promotore e collettore delle iniziative nel mercato domestico e internazionale: una sorta di ambasciata che permetta nuove forme di comunicazione in Italia e innovativi progetti di promozione e consolidamento nei mercati esteri più interessanti.
Immagine Italia & Co. quindi come marchio di qualità, organizzatore e promotore dei saloni mare e intimo in Italia con l’obiettivo di guardare fuori, principalmente alla Russia e alla Cina.
L’importanza di Immagine Italia e Mare d’Amare non è dovuta al solo fatto di essere le uniche fiere italiane del settore ma piuttosto di essere le uniche manifestazioni al mondo senza finalità di lucro, pensate e organizzate per fornire servizi avanzati alle imprese. Immagine Italia si avvia quindi a diventare un brand di eccellenza pensato per organizzare fiere in Italia e all’estero, attivare progetti di internazionalizzazione e posizionarsi come consulente strategico specializzato.
Tra le novità più interessanti della prossima edizione va segnalato il potenziamento del versante Digital, la costola virtuale del salone, che consente di fruire della fiera comodamente da un computer o da uno smartphone. Nella versione on-line di quest’anno, per coloro che si registreranno al sito digital.maredamare.eu, saranno presenti un maggior numero di informazioni utili per poter visionare le collezioni in anteprima unitamente alla App ufficiale che consentirà di passeggiare virtualmente tra gli stand e di assistere in streaming alle sfilate.
L'Inghilterra borghese verso la modernità
A Roma, l’Inghilterra borghese verso la modernità, in cento opere dai più rilevanti istituzioni internazionali e italiani, quali il British Museum, la Tate Gallery, il Victoria & Albert Museum, la Galleria degli Uffizi. Fino al 20 luglio, a Palazzo Sciarra.
La modernità, concetto difficile a inquadrarsi, che mai giunge a un assetto immutabile, perché continuo oggetto di ridefinizione sulla scorta del cambiamento del sentire della società, e dei sempre nuovi traguardi scientifici e tecnologici che essa raggiunge nel tempo. Volendo forzare il corso del pensiero, si potrebbe definire la modernità come illusione d’eternità.
Fondamentale momento di svolta, nel riassetto della società e nel cambiamento dei suoi valori, fu la nascita, a metà del XVIII Secolo, della borghesia urbana.
Prendendo a modello l’Inghilterra, la splendida Hogarth, Reynolds, Turner. Pittura inglese verso la modernità, indaga , attraverso la lente privilegiata della pittura. Curata da Carolina Brook e Valter Curzi, prima ancora che estetica la mostra è concettuale, e in circa cento opere ricostruisce l’evoluzione della società di allora, contestualizzandola nell’ambiente urbano, in quello familiare, e attraverso le tematiche richieste dalla nuova committenza borghese, ovvero il ritratto e il paesaggio.
Prima ancora della Francia con l’Illuminismo e la Rivoluzione repubblicana, l’Inghilterra del Settecento ha tracciato il sentiero di una modernità radicale, che sanciva le prime rotture con la bimillenaria civiltà rurale e artigiana, attraverso quella Rivoluzione Industriale costruita sul massiccio utilizzo della tecnologia, e che a sua volta portò alla nascita di un nuovo ceto, la borghesia urbana appunto. Era, questo, un primo punto della modernità, ovvero l’aggiornamento e la ridefinizione dei ceti più alti, che sinora erano stati rappresentati dalla sola nobiltà, terriera o militare che fosse. Il nuovo ceto si fa portavoce d’istanze, entusiasmi, e spregiudicatezze morali, estetiche, e anche finanziarie, che, di fatto, non subiranno troppe modifiche nemmeno nell’epoca degli yuppies di Wall Street. La modernità, quindi, è anche questione di atteggiamenti, e niente meglio dell’arte ne coglie acutamente l’intensità.
Londra fu il centro ideologico e morale di quella nuova modernità, ed è da quella che stava diventando una metropoli, che prende avvio la mostra romana, con una sezione dedicata alla città in trasformazione, interessata da numerosi cantieri che ne cambieranno il volto, e abitata da una nuova, numerosa folla variopinta ed elegante – per una volta lontana dalla plebe dannunziana -, che passeggia in St. James Park, oppure colta durante lo svago del pattinaggio sulla Serpentine, in Hyde Park. La vita cittadina si fa teatro.
Ad artisti quali Scott, Sandby e Marlow, i curatori hanno affiancate le vedute londinesi di Canaletto, che utilizzano dettagli architettonici quali ideali cornici, e immortalano la città con colori limpidi, quasi gli stessi che il pittore ha visti nella laguna natia. A rendere alla città la sua aura nebbiosa, ci pensarono Marlowe e soci; ma il punto, non è quello della tavolozza. Sia Canaletto sia i suoi colleghi inglesi, fissarono l’attenzione su una città che stava ridisegnando il suo assetto, sulla base di necessità logistiche dettate dal commercio: i ponti sul Tamigi, il nuovo mercato di Covent Garden, ne sono un esempio. La fascinazione per la mdoernità spicca nella bella tela L’ascesa della mongolfiera, di Ibbetson, che dispiega una minuziosa perizia nel ritrarre la folla in primo piano, folla della quale sembra quasi di sentire il grido di meraviglia che accompagna l’ascesa dell’aerostato.
Parallelamente a un’Inghilterra che sempre più andava assumendo una nuova identità, si avvertì il bisogno di una rappresentazione codificata delle sue radici storiche e letterarie, radici che quasi inconsciamente qualsiasi artista ricercava in Shakespeare, dando visibilità anche al mondo del teatro dell’epoca, come si evince dalla suggestive tele di Johan Zoffany David Garrick e Hannah Pritchard in “Macbeth”, e di Francis Hayman Spranger Barry e Mary Elmy nell’“Amleto”; in entrambe, spicca la sontuosità degli abiti femminili di scena, sintomo dell’attenzione per la moda cui la nuova borghesia non è certo insensibile; così come al fatto che il teatro è sì luogo dove vedere uno spettacolo, ma è anche platea dove farsi vedere. Ma è comunque evidente la necessità di un retaggio storico su cui fondare le radici spirituali.
Una direzione diversa contrassegna l’approccio dell’elvetico Füssli (poi inglese di “adozione”), che interpreta Shakespeare rifacendosi alle atmosfere psicologiche dei suoi testi, creando di fatto una pittura sospesa fra dimensione onirica e storica.
Tuttavia, al di là dell’amore per il teatro, della solidità economica e dell’intraprendenza del nuovo ceto, questo nasconde lati meno virtuosi, come se la modernità fosse anche, in qualche misura, portatrice di decadenza; e senza dubbio decadono i vecchi valori. Un acuto osservatore quale fu William Hogarth, realizzò la serie di tele Il matrimonio alla moda, che costituisce una delle chiavi della modernità, valida ancora oggi per la carica innovativa che esprime; quasi fosse un corto cinematografico – vengono in mente Buster Keaton e il primo Chaplin -, Hogarth dà vita a una serie di agili scenette tratte dalla vita quotidiana di una qualsiasi coppia borghese, fra pretese d’eleganza e sciatteria che nasconde l’ipocrisia. La modernità dell’artista sta nel rendere in modo caricaturale i personaggi del gran teatro del mondo, e saranno proprio questi characters, due secoli più tardi, a fare scuola ai cineasti più avveduti. Si codifica, attraverso di essi, un modo di rappresentare la realtà, con le sue sfumature e i suoi compromessi.
A segnare la modernità della pittura inglese, fu anche il genere della ritrattistica, in un ambiente puritano che rifiuta la pittura religiosa. Pertanto, la borghesia si prestò a questo tipo di committenza, vedendovi anche la possibilità della promozione di sé, del lasciare ai posteri le tracce del proprio passaggio sulla Terra.
Hogarth e Zoffany si specializzano nel ritratto di gruppo, che riporta sulla tela usi e costumi della società dell’epoca. Del primo, colpisce Ritratto di gruppo con Lord John Hervey, dove l’ammirazione dei presenti per il progetto di una nuova villa campestre, probabilmente quella dello stesso Hervey, pone l’attenzione sulla prima architettura georgiana – ispirata al Palladio -, che si va affermando in Inghilterra, mentre Zoffany con La Famiglia Sharp, realizza un teatrale affresco familiare, che celebra la passione per la musica e lo svago all’aria aperta.
Reynolds ammanta invece di magnificenza i suoi soggetti: in Lady Bampfylde, l’accuratezza dell’elaborata acconciatura, che sembra uscire da un fotogramma di Barry Lindon, esalta l’incarnato pallido, appena arrossato sulle guance, e la sobria eleganza della veste bianca. La nobildonna diviene quasi un’eroina shakespeariana fra bianchi iris, allusione alla purezza di Ofelia o Desdemona. Sullo sfondo, una natura rousseauiana. Mentre L’attore Garrick con la moglie Eva Maria Violette, quasi ricordano una coppia reale austriaca.
Il ritratto naturalistico fu invece appannaggio di Allan Ramsay e Thomas Gainsborough. La maestria di Ramsay è al suo massimo nel ritratto di Julia Hasell, dove delicatezza dell’abito di raso rosa con nastri azzurri, e la nera capigliatura che spicca sull’incarnato pallido, producono un realismo venato di poesia vicino allo stile del francese Chardin.
Gainsborough ci tramanda invece lo spirito raffinato di William Wollaston – deputato per la città di Ipswich che condivideva con il pittore la passione per la musica -, esaltato dall’eleganza della redingote in velluto rosso e dalla fedeltà nel riprodurre il flauto e lo spartito.
Chiude la mostra, la sezione dedicata alla pittura di paesaggio, un genere molto amato dalla committenza inglese, che sancì anche la definitiva affermazione della tecnica dell’acquarello, sebbene fosse nota in Germania sin dal XV Secolo. Cozens, Towne e Sandby ne furono apprezzati esponenti, ispirandosi ai paesaggi italiani del Grand Tour. Gli innovatori del genere furono però Gainsborough e Wright of Derby; quest’ultimo predilesse ancora il paesaggio italiano, creando le sue tele sulla base del giusto equilibrio fra percezione ed emozione, raggiunto dopo lunghi esperimenti sugli effetti del lume naturale. Il paesaggio è emozione, e coscienza di essere un minuscolo punto di fronte al cosmo infinito. Gainsborough, da parte sua, preferì dedicarsi all’operosa campagna inglese, intrisa di etica protestante della Grazia che si conquista con il duro lavoro.
Eredi di questa tradizione del paesaggio, saranno Constable e Turner; nei paesaggi del primo, c’è un forte attaccamento alla resa del dato naturale; Turner, invece, non lascia mai la sperimentazione e il rimaneggiamento della tela, per raggiungere la resa perfetta di emozioni e sensazioni, che fa di lui un precursore del Romanticismo
Prendendo l’Inghilterra come pretesto, la mostra parla in realtà a livello universale, e ferma l’attenzione sul dibattuto concetto della modernità, cadendo in un momento in cui anche la Biennale d’Architettura di Venezia s’interroga sulle sue ragioni.
Una mostra da vedere, profondamente attuale, come nello stile dei grandi capolavori.
Niccolò Lucarelli
La luce? Accesa e spenta nello stesso momento!
I ricercatori dell’Istituto nazionale di ottica del Cnr di Firenze hanno realizzato per la prima volta in laboratorio un nuovo stato della luce in cui due impulsi luminosi sono indissolubilmente legati, equivalente ottico del paradosso noto come ‘gatto di Schrödinger’. La ricerca, pubblicata su Nature Photonics, consentirà di capire meglio il confine tra fisica classica e quantistica, e apre a una futura rete di comunicazioni e computer dalle prestazioni inimmaginabili.
Perché alcune delle strane proprietà che valgono nell’infinitamente piccolo, quale la possibilità che una particella si trovi contemporaneamente in più stati diversi (ad esempio, avendo allo stesso tempo due colori o due posizioni distinte), non si ritrovano anche negli oggetti macroscopici di tutti i giorni? Un esperimento realizzato dall’Istituto nazionale di ottica del Consiglio nazionale delle ricerche (Ino-Cnr) di Firenze e del Laboratorio europeo di spettroscopia non lineare dell’Università di Firenze (Lens) ha dimostrato per la prima volta sperimentalmente la produzione di uno stato di luce ibrido in cui un fotone, la particella fondamentale della luce, è sia presente che assente e un debole impulso laser ha contemporaneamente due fasi opposte. Lo studio, guidato da Marco Bellini e Alessandro Zavatta, col supporto di colleghi teorici coreani e australiani delle Università di Seoul e del Queensland, è descritto su ‘Nature Photonics’.
“In realtà, la meccanica quantistica non vieta tali possibilità, ed Erwin Schrödinger illustrò le paradossali implicazioni della teoria con la storia di un gatto chiuso in un contenitore ermetico assieme a un atomo radioattivo e a una fialetta di veleno”, racconta Marco Bellini dell’Ino-Cnr. “Con una probabilità del 50%, l’atomo potrebbe decadere, emettendo una particella radioattiva che romperebbe la fiala ed ucciderebbe il gatto. Secondo le regole della fisica quantistica, l’atomo potrebbe però trovarsi anche in una situazione intermedia, in cui è contemporaneamente decaduto e no, la fiala di veleno è sia rotta che intera, e il povero gatto in uno strano stato sospeso, vivo e morto allo stesso tempo”.
Gli amanti dei felini possono comunque stare tranquilli: nessuno si è mai neanche avvicinato a una situazione del genere. “Quello che per la prima volta abbiamo dimostrato sperimentalmente è la produzione di un cosiddetto stato di luce ‘entangled’ ibrido classico-quantistico, analogo ottico della condizione ‘intrecciata’ dell’atomo ‘quantistico’ e del gatto ‘classico’ nella scatola”, conclude Bellini. “Nel nostro caso, il ruolo dell’atomo è sostenuto da un singolo fotone, la particella fondamentale della luce, quello del gatto da un debole impulso di luce laser. Se il fotone è presente, l’impulso di luce ha una determinata fase, mentre se il fotone è assente, ha la fase opposta, cioè i ‘picchi’ e le ‘valli’ dell’oscillazione del suo campo elettromagnetico sono scambiati. Come nel paradosso del gatto, finché la ‘scatola’ non viene aperta, cioè finché non viene effettuata una misura che costringa il sistema a decidere, le due alternative sono entrambe vere allo stesso tempo: il fotone è sia presente che assente e, corrispondentemente, il debole impulso luminoso ha due fasi opposte, in uno stato ‘intrecciato’ analogo a quello descritto da Schrödinger”.
La ricerca permetterà di capire meglio perché è così difficile trovare oggetti macroscopici in questi ‘strani’ stati sovrapposti e a quale livello le previsioni della meccanica quantistica smettano quindi di funzionare. Inoltre, la prima realizzazione di uno stato di luce così particolare consentirà di mettere a punto i pezzi fondamentali (ripetitori, memorie e interfacce) di una futura rete di comunicazioni e computer quantistici, dalle prestazioni ancora inimmaginabili.
Da Andrea del Sarto a Jacopo da Empoli
Dipinti, sculture, disegni, della peculiare maniera fiorentina, da Andrea del Sarto a Jacopo da Empoli. Alla Galleria degli Uffizi, fino al 2 novembre 2014. Orari e biglietti su www.unannoadarte.it.
L’evoluzione del pensiero segue spesse volte via impervie e meno evidenti a un’osservazione superficiale abituata alle classificazioni accademiche. L’arte fiorentina fra XVI e XVII Secolo, nei suoi caratteri peculiari di purezza, semplicità e naturalezza, ripercorre oltre un secolo di storia europea, nel delicato periodo che vide lo scontro religioso e politico tra Riforma e Controriforma, e che inondò il continente di genialità e inquietudini.
Puro, semplice e naturale nell’arte a Firenze tra Cinque e Seicento, curata da Alessandra Giannotti e Claudio Pizzorusso, è la straordinaria parata di 72 opere fra dipinti, marmi e sculture policrome, che indaga le ragioni di quegli artisti che seppero innovare la tradizione, smentendo il luogo comune di un’arte votata solamente al passato.
Una mostra di carattere squisitamente intellettuale, come hanno spiegato Cristina Acidini e Antonio Natali, che richiede una particolare attenzione nel seguire il filo di un pensiero critico che muove dal Vasari e dal Baldinucci per ricostruire il cruciale passaggio dal Manierismo al Barocco, un passaggio che non si esaurisce nell’evoluzione dello stile artistico, bensì attiene anche all’evoluzione del pensiero europeo di cui Riforma e Controriforma si contendevano il primato.
Tre aggettivi, quelli del titolo, che rappresentano artisti della cosiddetta “Scuola fiorentina”, quali Andrea del Sarto, Jacopo da Empoli, Alessandro Allori – per citarne soltanto qualcuno -, accomunati da un sentire che rivela la necessità, tutta toscana, della chiarezza d’espressione, della semplicità di stile, che si ritrova specchiata nei caratteri del popolo toscano, a cominciare da quella urbanità di modi (com’ebbe a scrivere Malaparte in Maledetti toscani), che in nulla cede agl’inutili orpelli, per coinvolgere anche il discorso dell’approccio linguistico; non casualmente, proprio in quegli anni la fiorentina Accademia della Crusca apre il dibattito sulla purezza della lingua italiana, che la porterà a editare il primo vocabolario “nazionale” nel 1613, lessicalmente mutuato sulla lingua toscana. Si tratta di un percorso, quello dell’innovare la tradizione, restando fedeli alla semplicità, che tocca più ambiti, non ultimo appunto quello artistico.
Già in passato agli Uffizi si è parlato della natura del Manierismo, con L’Officina della Maniera, che già individuava le figure di riferimento in Andrea del Sarto, l’Empoli, Santi di Tito, per la loro adesione al dato naturale.
Questa mostra è strutturata in cinque sezioni cronologiche e quattro tematiche, e si apre sulla capitale “novità della tradizione”, vista attraverso le Annunciazioni di Andrea della Robbia, Andrea del Sarto, Santi di Tito e Jacopo da Empoli, sospese fra le suggestioni savonaroliane e il primo naturalismo seicentesco. Fra i seguaci del frate ferrarese e della sua “nobile chiarezza” ci furono, sul finire del XV Secolo, Lorenzo di Credi, Ghirlandaio, Fra’ Bartolomeo e Andrea Sansovino, che la mostra individua come i maestri ispiratori della semplicità e naturalezza fiorentina, che emerge nelle figure di Santi dai corpi plastici e le espressioni umanizzate. Un percorso che continua negli anni a venire, con il Franciabigio, il Bugiardini, il Sogliani, che inseriscono la pura bellezza del paesaggio e dell’architettura fiorentina nelle loro opere – già cinquecentesche ma capaci di guardare al Quattrocento -, delle quali colpisce il linguaggio narrativo semplice e vivo, vicino al sentire religioso popolare, come ben esemplifica il Noli me tangere del Franciabigio, che rivela l’influenza compositiva di Andrea del Sarto. Quel “puro senza ornato” come scrisse l’umanista Cristoforo Landino è la cifra che appunto dal Quattrocento caratterizza l’arte toscana. A rafforzare la vena di purificazione della forma dei pittori fiorentini, intervennero anche due Sinodi controriformisti, indetti dall’allora arcivescovo Altoviti, che prescrivevano l’immediata chiarezza illustrativa dei quadri a tema religioso. Ecco allora che Bronzino, Carlo Portelli, Giovanni Bandini e Alessandro Allori si rifanno a una squisita eleganza della forma – dove spicca la grazia muliebre espressa dall’Allori -, aprendo però la strada alla “maniera moderna”. Una maniera che, nel XVII Secolo, andrà in direzione contraria al caravaggismo, seguitando a ispirarsi alla lezione di Ghirlandaio, Sogliani o del Sarto. Santi di Tito, Jacopo da Empoli, Antonio Novelli, Andrea Boscoli, e altri artisti contemporanei, si tengono ben lontani dalla tensione drammatica che trasuda dalle tele e dai corpi di Caravaggio e dei pittori a lui affini.
La purezza e la semplicità di forma della “Scuola fiorentina”, trova specchio in quel poetico teatro degli affetti che nell’arco dei decenni gli artisti non hanno mai perso di vista, e fatto di accoglienti interni domestici, gesti di tenerezza fra genitori e figli, operosità artigiana, sguardi solleciti, mai enfatizzati e resi perciò innaturali.
Completa la mostra una selezione di disegni proveniente dalla collezione del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, importante perché la naturalezza artistica fiorentina si fonda in larga parte su questa tecnica; gli artisti si cimentarono con prove grafiche di eleganza analitica, a precedere i dipinti su tela.
Attraverso le 72 opere in mostra, si ha modo di approfondire l’analisi del linguaggio di un percorso artistico parallelo al rinnovamento suggerito dalla Crusca, un linguaggio che “libera” dalle etichette un cenacolo di artisti che seppero esprimersi guardando alla tradizione locale e innovandola con garbata intelligenza, permettendo di apprezzare al meglio, senza strade pretracciate, una corrente artistica che è portatrice della civiltà toscana, con i suoi valori e la sua sobria eleganza. Inoltre, la mostra cade in contemporanea con l’altra allestita a Palazzo Strozzi e dedicata a Pontormo e Rosso Fiorentino – probabilmente i massimi esponenti della maniera toscana -, e pertanto ne completa la comprensione, fornendone l’inquadramento generale.
Una mostra che si discosta dalla “facilità” di altre, allestite un po’ in tutta Italia, e che rifugge il gran nome, per interrogarsi sull’evoluzione di uno stile artistico, che però è anche immagine dei caratteri di un popolo e del suo sentire, a dimostrazione che l’arte è lo specchio della vita.
Niccolò Lucarelli
10 horrifying parasites
La presentazione non è incoraggiante. Ma l’hanno visto, su Youtube, in 2 milioni e mezzo. Che cos’è? Il video, per altro con didascalie in inglese, che mostra i 10 parassiti più brutti, orribili che vivono nel corpo umano, da vermi ad amebe che possono causare, dicono gli autori nella spiegazione sul sito di filmati, danni gravi, gravissimi che possono scatenarsi in ogni momento. Certo, non è detto che i peggiori parassiti siano per forza con noi. Il titolo è chiaro: dice che potrebbero vivere dentro di noi.
L'Autoritratto di Leonardo diventa un giallo
L’Autoritratto di Leonardo da Vinci – conservato nella Biblioteca Reale di Torino – è un celeberrimo disegno su carta databile intorno al 1516. Un’indagine sugli spettri ottici dell’opera, eseguita con una metodologia sperimentale sviluppata dall’Istituto dei sistemi complessi del Consiglio nazionale delle ricerche (Isc-Cnr), in collaborazione con le Università di Roma Tor Vergata e di Cracovia, ha rilevato in modo oggettivo l’ossidazione del disegno, dovuta all’ambiente umido e chiuso in cui è stato conservato. I risultati sono pubblicati su Applied Physics Letters.
«Per ovviare alle disomogeneità del sottile strato di foglio dell’Autoritratto, circa 220 micron, ossia 0.22 millimetri, con vuoti dovuti alla presenza di aria – spiega Mauro Missori dell’Isc-Cnr – i dati sperimentali, ottenuti mediante una tecnica spettroscopica basata su radiazioni non invasive di bassa intensità, sono stati analizzati sviluppando una specifica estensione del modello di trasferimento radiativo detto di Kubelka-Munk».
La carta, un tempo fabbricata mediante estrazione della cellulosa da stracci sottoposti a idratazione e pressatura, degrada per alcune reazioni indotte in particolare dal vapor acqueo: l’idrolisi acida o alcalina indebolisce la struttura e l’interazione fra ossigeno atmosferico e cellulosa attiva l’ossidazione, che causa danni ottici. «L’ossidazione crea alcuni gruppi detti cromofori che assorbono la luce principalmente nelle regioni del blu-violetto dello spettro visibile e nell’ultravioletto, dando alla carta il caratteristico colore giallognolo – prosegue il ricercatore – Per dare una definizione misurabile e oggettiva dell’ingiallimento si ricorre a una tecnica spettroscopica non invasiva in cui le radiazioni riflesse dal campione su alcuni punti critici sul recto e sul verso sono raccolte da una sfera integratrice e misurate da un rivelatore multi-canale».
I dati ottenuti dalla misura, eseguita dall’Isc-Cnr all’Istituto centrale per il restauro e la conservazione del patrimonio archivistico e librario di Roma, «sono stati confrontati con quelli teorici ottenuti da una simulazione al calcolatore dal gruppo dell’Università di Tor Vergata, identificando e quantificando i cromofori responsabili dell’ingiallimento dell’Autoritratto», conclude Missori. «Il confronto di questi dati con quelli ottenuti analizzando campioni di carta della stessa epoca e campioni di carta moderna invecchiati artificialmente in condizioni ambientali controllate ha messo in luce una forte somiglianza del tipo di cromofori presenti nell’Autoritratto con quelli trovati in campioni conservati in ambienti chiusi e ad elevata umidità. La metodologia, se applicata nel futuro all’Autoritratto, consentirà di valutare la velocità di degradazione visiva che è una informazione fondamentale per la programmazione degli interventi di restauro e conservazione».
Inoltre lo stesso approccio diagnostico sarà applicato ad altri disegni di Leonardo da Vinci e ad altri beni culturali per garantire una corretta conservazione e come supporto diagnostico per gli eventuali restauri.
Ammazzò il suo cane: condannato
Ammazzò il suo cane, abbandonandolo sul greto del fiume. Così, ha stabilito il tribunale di Prato, condannando un uomo di 49 anni a 4 mesi di reclusione, con la sospensione della pena. Il proprietario dell’animale si è difeso sostenendo la tesi della morte naturale dell’animale e spiegando che si era limitato ad abbandonare il cane che, sempre a suo avviso, sarebbe poi rimasto vittima di altri animali. Una spiegazione simile l’aveva data alle forze dell’ordine, spiegando per altro l’abbandono lungo il corso d’acqua con la presunta complessità dello smaltimento della carcassa.
Il giudice, in ogni caso, non gli ha però creduto, stante anche la giustificazione circa l’abbandono sul fiume Bisenzio, dove l’animale venne ritrovato morto. Il cane, un meticcio, era però iscritto all’anagrafe canina e, grazie al microchip impiantato sotto la sua pelle, gli investigatori riuscirono a risalire al proprietario, per altro dopo aver notato una ferita, non distante dalla coda, che poco si conciliava con una morte naturale, dopo un abbandono o durante una passeggiata.
La vicenda risale al febbraio dello scorso anno. Un passante notò il cane e avvertì le forze dell’ordine. La carcassa dell’animale venne presa in consegna dalla polizia provinciale che, attraverso il microchip, risalì presto, per non dir subito, al proprietario.
Senza credergli, tanto gli agenti quanto, poi, il pubblico ministero hanno proceduto per uccisione di animali. Testi sposata dal giudice.
Da notare che la stessa persona era già stata condannata per maltrattamenti verso gli animali: nel caso specifico, lo stesso, povero meticcio.
La pittura religiosa del Trecento in Casentino [immagini]
Pittura religiosa del Trecento in Casentino. Al Teatro degli Antei, di Pratovecchio Stia, fino al 19 ottobre 2014.
Italia di Santi e d’eroi, pregna d’anelito mistico quanto di guerriera conquista, macchiata di sangue fratricida e di pietà. L’essenza del Medioevo, che sopravvive nei mille campanili che ancora oggi “dividono” la Toscana, così come nel carattere fiero e riottoso delle sue genti, lo si ritrova in buona parte in quel Casentino aspro e selvaggio, dove ogni gola o dirupo conservano l’eco dei versi della Divina Commedia, delle laudi di Santi ed eremiti, o delle prose novecentesche d’Idilio Dell’Era, -ancora circondato dalla bellezza della natura e da ritmi di vita lontani dal caos metropolitano.
Una terra, questa, a torto poco considerata dal grande pubblico degli amanti dell’arte, ma che custodisce insospettati e preziosi tesori, opera di artisti meno noti, o di altri che magari conosciamo per averli ammirati agli Uffizi, ma dei quali ignoriamo l’attività fuori Firenze.
Jacopo del Casentino e la pittura a Pratovecchio nel secolo di Giotto, a cura di Daniela Parenti e Sara Ragazzini, fa luce sulla figura ammantata di leggenda di questo artista per molti versi ancora oggi misterioso, che Giorgio Vasari identificava con quel Jacopo Landini, contemporaneo di Giotto, di cui la Galleria degli Uffizi possiede l’unica opera firmata, il piccolo trittico donato da Guido Cagnola al museo nel 1947. Attivo tra Firenze e Arezzo, fu, con Taddeo Gaddi, attorno al 1350, tra i fondatori della fiorentina Compagnia di San Luca, il primo nucleo della futura Accademia delle Arti e del Disegno. Suo figlio Francesco, detto “degli Organi”, fu uno dei più grandi organisti e compositori di musiche del Medioevo, mentre il nipote Cristoforo fu un valente umanista.
Attorno alla sua figura, ruota una piccola ma raffinata e suggestiva mostra di tavole di pittura tardogotica riconducibili a maestri affascinanti e sofisticati come il Maestro della Madonna Straus, il Maestro di Borgo alla Collina – recentemente identificato con Scolaio di Giovanni -, la cui attività in Casentino testimonia gli stretti legami tra questa terra e Firenze, costituiti anche da una committenza artistica molto vivace, e dove spicca la famiglia dei Conti Guidi, feudataria della zona.
Le dodici tavole in mostra, oltre a un affresco staccato e un graduale miniato, ripercorrono quel secolo “saggio e beato”, come scrisse Malaparte in Maledetti Toscani, ovvero il Trecento fatto di devozione di popolo, ardimento guerriero, senso d’infinito e arguzia. A Firenze fu il secolo di Giotto, mentre Siena conosceva la “corrente” dei primitivi, e al contempo le due città conoscevano un importante sviluppo economico e finanziario. Il Casentino, da sempre terra di aspre lotte fra Guelfi e Ghibellini, rimase lontano, anche per ragioni di conformazione del territorio, da questo tipo di sviluppo, chiuso nella sua dimensione ancora medievale, ma esprimendo una scena artistica comunque vivace, con opere che, pur non possedendo la grazia della maniera secca di Lippi e Donatello, affascinano per la solennità spirituale dei fondi oro, dei volti che trasudano carità, misericordia, speranza, severità, che rievocano la sublime asprezza di certi canti della Divina Commedia, o l’eco delle prediche di San Bernardino da Siena.
Apre la mostra la Madonna col Bambino del Maestro di Varlungo – una tavola del primissimo Trecento, proveniente dall’oratorio del castello Guidi -, che rivela l’influenza del primo periodo giottesco, negli incarnati rotondi e nei passaggi del chiaroscuro. Il “trittico Cagnola”, l’opera di riferimento della mostra eseguita da Jacopo del Casentino, immortala episodi e figure fondamentali per la cristianità medievale, a partire dalla stigmate di San Francesco ricevute nel vicino convento della Verna, e, dal alto opposto, la Crocifissione. Nella tavola centrale, a fianco della Vergine, sta Bernardo di Chiaravalle, personaggio di rilievo per l’attività di riforma del monachesimo da lui propugnata sul finire del XII Secolo.
Suggestivo il trittico del Maestro di Barberino (1357), attivo nella seconda metà del Trecento, e che tenne presente la tarda lezione di Bernardo Daddi, che qui emerge nella raffinata attenzione ai dettagli decorativi. Un artista non di primo piano, ma che seppe farsi apprezzare soprattutto nel contado, anche se a Firenze collaborò con l’Orcagna in Santa Maria Novella e in Ognissanti.
Chiude la mostra l’Annunciazione (1430) di Giovanni dal Ponte, autore già quattrocentesco, punto di contatto fra l’ultima stagione del gotico internazionale e il primo Rinascimento. Un sobrio tripudio di colori avvolge la scena, mentre la composizione centrale lascia intravedere i primi rudimenti di prospettiva, sull’esempio di Donatello. La tavola è stata riquadrata attorno al XVI Secolo, con l’aggiunta dei cherubini dipinti da Agnolo di Donnino.
Simbolica la data di quest’opera, scelta per chiudere la mostra: di lì a un decennio, con la battaglia d’Anghiari, il Casentino entra definitivamente nell’orbita politica fiorentina, e l’afflato mistico medievale che aveva data forza alla scena artistica si spegnerà per lasciar luogo a una dignitosa e appartata dimensione provinciale. Nella sua raffinatezza, attraverso la lente dell’arte figurativa, questa mostra si fa approfondimento storico di una terra atavica che ancora oggi rappresenta l’essenza della Toscana.
Buona parte delle tavole in mostra provengono da pievi e castelli casentinesi, fra cui il Castello Guidi di Poppi, la chiesa di Santa Maria Assunta di Stia, la chiesa del Santissimo Nome di Gesù di Pratovecchio. Per cui, una volta ammirata la loro squisita fattura che unisce arte e devozione, è consigliabile visitare questi luoghi di cui sopra, per meglio inquadrare le opere in questione, e conoscere un territorio ricco di storia.
Dalla Galleria dell’Accademia proviene invece la Madonna col Bambino di Taddeo Gaddi e Niccolò di Pietro Gerini, mentre il “trittico Cagnola” arriva dagli Uffizi. Ecco che la mostra “esporta” fuori Firenze il prestigio della Galleria, puntando l’attenzione su un territorio meno conosciuto ma che merita invece la giusta considerazione, contribuendo così alla sua promozione, e facendo degli Uffizi una sorta di museo diffuso.
Il cosiddetto “museo diffuso”, è sovente, in Italia, concetto di mera facciata, dove entrano polemiche e pseudo-intellettuali, dettate da conoscenze poco approfondite della questione. Considerando la scarsa propensione all’investimento culturale dimostrata fino ad oggi dalla politica italiana, è impresa impossibile aprire e gestire nuovi musei. Pertanto, è forse meglio concentrarsi sulla tutela e valorizzazione di quelli già esistenti, promuovendo il legame con il territorio, e esponendo al pubblico quelle opere, pur pregevoli, che non sempre trovano posto nella collezione permanente. È questo lo spirito con cui Antonio Natali, direttore della galleria degli Uffizi, ha ideata la collana Le città degli Uffizi, un ciclo di mostre capillarmente distribuite in quella Toscana “minore”, e volto alla diffusione della conoscenza di artisti, territori, episodi storici ad essi legati, su cui, a ben guardare, poggiano le radici dell’essere e del sentire contemporaneo.
Niccolò Lucarelli
El Alamein: una necessità politica
A 70 anni di distanza, la battaglia di El Alamein appare più un inutile spargimento di sangue, necessario a placare più le necessità politiche di Churchill, che a sovvertire l’andamento del conflitto.
Il 3 novembre 1942 la battaglia poteva considerarsi conclusa con la disfatta di Rommel e degli Italiani ed il 7 novembre aveva inizio l’operazione Torch, che vide lo sbarco di centomila americani sulle coste del Marocco e dell’ Algeria. Risulta evidente, come affermato e sostenuto dallo storico inglese Correlli Barnett nella sua opera “I generali del deserto” che le forze dell’Asse si sarebbero comunque trovate strette nella morsa degli alleati anche senza quella prova di forza.
Barnett sostiene addirittura che “ la seconda battaglia di El Alamein sia stata sostanzialmente una battaglia inutile, fortemente voluta dal primo ministro Churchill e dall’elite imperiale britannica principalmente per motivi di prestigio. Si trattava in pratica dell’ultima possibilità per il Regno Unito di ottenere, con le sole forze imperiali, una vittoria esclusivamente britannica sulle forze armate tedesche, dopo due anni di sconfitte pressochè ininterrotte sul campo e prima che la superiorità militare ed economica statunitense ponesse inevitabilmente in sottordine, lo sforzo ed il ruolo britannici nella guerra.” (Correlli Barnett Op.Cit.)
Il 1942 fu l’anno delle ultime illusioni di vittoria delle forze dell’Asse. Il primo semestre vide ancora qualche loro successo, ma poi tre battaglie che decretarono inesorabilmente le sorti della guerra: la battaglia di Midway nel pacifico (3-5 giugno), Stalingrado (settembre 42 –gennaio 43), El Alamein (ottobre-novembre 42).
Rommel, dopo la presa di Tobruk (giugno), convinto che le forze britanniche si trovassero nel più completo caos, riuscì a portare Hitler sulle sue posizioni. Sospendere l’attacco a Malta, vera portaerei alleata nel centro del mediterraneo, e concentrare tutte le forze per lo sfondamento delle linee inglesi con la conseguente conquista di Alessandria e dell’Egitto.
Hitler acconsentì a sospendere l’Operazione C3 (attacco a Malta), ma si trovò impossibilitato ad inviare nuove truppe in appoggio a Rommel, dato l’andamento della guerra in Russia, decretando nei fatti la condanna all’annientamento dell’Asse in Nord Africa.
Sconfitti di nuovo gli inglesi a Marsa Matruh, sulla via di Alessandria restava solo la stazione desertica di El Alamein. Ma nonostante le vittorie parziali riportate, ormai Italiani e Tedeschi si trovavano troppo lontani dalle linee di partenza per aver assicurati rifornimenti adeguati e celeri, avendo percorso più di 650 km da Tobruk.
Il generale inglese Auchinlek, che dal luglio aveva preso il comando dell’VIII° armata britannica, aveva stabilito la linea di difesa tra El Alamein e la depressione di Quattara. Una linea di 60 km che non poteva essere aggirata per la tipologia sabbiosa della depressione stessa.
Per tutto il luglio e l’Agosto si susseguirono attacchi e contrattacchi che non portarono a soluzioni decisive.
Sarebbe interessante aprire una parentesi sull’atteggiamento di Churchill in questa fase della guerra, che pretendendo una vittoria sui tedeschi arrivò a sostituire due generali, comandanti in campo, poiché sostenevano che occorreva attendere il rafforzamento dell’armata inglese prima di ogni eventuale attacco.
Dal luglio a Settembre si combattè quindi una battaglia di posizione. Rommel ed Auchenlik si confrontarono in varie sortite che furono poco più di grosse scaramucce.
Churchill era in difficoltà ai Comuni, incalzato da molti deputati per l’andamento della guerra ed insisteva per un immediato contrattacco ma Auchenlik continuava ad opporsi, in attesa che truppe fresche e nuovi decisivi mezzi arrivassero ad El Alamein via Mar Rosso. All’ inizio di Agosto il primo ministro britannico sollevò così il Generale dal comando ed individuò in Montgomery l’uomo desideroso di proseguire verso la battaglia finale. Anch’egli tuttavia capì che occorreva rafforzarsi ancora facendo andare su tutte le furie Churchill.
La situazione non cambiava e così Rommel decise di riprendere l’iniziativa attaccando in forze la linea di El Alamein nella notte tra il 30 ed il 31 agosto. Con un finto attacco al nord, il generale tedesco portò il vero colpo al centro sud, verso Halam el Halfa. L’azione tuttavia mostrò subito i suoi limiti e il 7 settembre le forze dell’Asse dovettero riposizionarsi sulle posizioni precedenti. Ormai a Rommel non restava che fortificare la posizione in attesa di un attacco Britannico.
I campi minati furono una delle armi su cui i tedeschi contavano per smorzare l’avanzata inglese. Collocate a scacchiera furono posizionate migliaia di mine antiuomo e anticarro a formare una doppia S per una profondità di 5/7 km. L’altra arma fondamentale era il cannone anticarro 88 Flak. Debole invece la dotazione di carri poiché le linee dell’asse erano in carenza di rifornimenti.
Ad El Alamein l’armata Italiana era composta da tre corpi per complessive cinque divisioni di fanteria e due divisioni corazzate più una divisione motorizzata. I tedeschi poterono impiegare due divisioni corazzate, una motocorazzata leggera, una di fanteria, una brigata di paracadutisti più i reparti con i pezzi da 88 mm.
Le forze dell’asse erano supportate da 340 aerei, di cui 110 tedeschi.
In totale 105.000 uomini , con 530 carri armati, metà italiani, 750 pezzi di artiglieria e 522 pezzi anticarro.
L’armata britannica, rafforzata da truppe fresche e materiali nuovi poteva contare su 200.000 uomini, 1200 carri armati, 400 autoblindo, 950 pezzi di artiglieria, 1200 aerei da caccia e da bombardamento.
La proporzione era di uno a due sia come uomini che nei mezzi. L’analisi della qualità dei mezzi rafforza ancora di più la sproporzione delle forze. Solo 50 carri tedeschi F2 ed F erano in grado di perforare le corazze dei nuovi Sherman americani schierati, oltre ai cannoni da 88 mm. Si dimostrarono invece efficaci i semoventi italiani M41 ma il loro numero esiguo (34) non poteva certo incidere sulle sorti della battaglia.
A fine settembre Rommel si recò in Germania per curarsi una infezione nasale e per curarsi una persistente malattia al fegato. Fu durante il comando del Generale Stumme che l’attacco venne lanciato il 24 di novembre da Montgomery.
La strategia era semplice: poiché la profondità dei campi minati era notevole ed era presumibile che Le forze dell’asse attendessero i carri inglesi agli sbocchi dei corridoi sminati si decise di creare pochi corridoi sminati ma sufficientemente larghi per far operare agevolmente le forze corazzate che erano di gran lunga superiori. La strategia era valida ma le forze dell’Asse resistettero oltre il prevedibile. Il bombardamento iniziale, che si racconta fu terribile e continuo per diverse ore, sebbene causasse gravi perdite, non riuscì a scardinare il sistema dei fortilizi creato dagli Italiani e dai tedeschi.
Per dieci giorni le armate si fronteggiarono in continui attacchi e contrattacchi. Episodi di eroismo e il sacrificio di migliaia di giovani soldati non riuscivano a spostare il pendolo della vittoria da un lato o dall’altro dei contendenti.
Le truppe italiane, come al solito le meno armate e dotate di mezzi obsoleti, tranne la Folgore che era ben equipaggiata, mostrarono tutto il loro eroismo. Gli inglesi non riuscirono mai a sfondare laddove operarono le divisioni Ariete e Folgore.
Quest’ultima conobbe in quella battaglia il suo più grande momento di sacrificio e di valore.
Tra il 23 ottobre ed il 28, in 5 giorni, i soldati della Folgore resistettero all’attacco di tre divisioni britanniche senza mai cedere ma lasciando sul campo 39 Ufficiali e 560 tra sottufficiali graduati e paracadutisti. Su 12 comandanti presenti in linea 8 morirono e due furono feriti gravemente.
Negli scontri con la Folgore gli inglesi persero 70 carri, 600 uomini e 23 ufficiali.
Rommel fu costretto a fare immediato rientro dalla Germania e, appena arrivato, lanciò il famoso messaggio ai suoi combattenti: “Ho ripreso il comando della panzerarmee. Rommel”.
Il 1° novembre dopo 8 giorni di combattimenti cruentissimi le difese non erano ancora del tutto infrante. Montgomery decise allora di trattenere le riserve di Rommel sulla costa con continue azioni di disturbo e cannoneggiamenti mentre organizzò l’operazione “Supercharge”, che avrebbe visto l’attacco ad ovest con l’impiego massiccio della fanteria, proprio nel punto di congiunzione tra lo schieramento italiano e quello tedesco.
Sarebbe poi seguito l’intervento di 570 carri armati. A sostegno dell’azione un bombardamento effettuato da più di trecento cannoni.
A Rommel non rimanevano in quel momento che 170 carri di cui 65 italiani.
All’una di notte del 2 novembre dopo tre ore di terribile bombardamento sulle linee dell’asse, scattò l’attacco decisivo inglese. Le forze britanniche si incunearono tra italiani e tedeschi precedute da 130 carri neozelandesi che sparavano fumogeni. La fanteria ed il grosso dei carri Sherman vennero dietro e fecero il resto.
L’ultimo atto delle forze dell’Asse fu il tentativo del Generale Tedesco Von Thoma di lanciare un disperato contrattacco gettando nell’assalto tutti i carri a sua disposizione , insieme ai pochi carri italiani della “Littorio” e della “Trieste”, 120 mezzi corazzati in totale contro il grosso degli inglesi che disponevano, in quel settore, di 250 carri più moltissimi pezzi controcarro.
A fine giornata Von Thoma riferì a Rommel che gli erano rimasti solo 15 carri, la Littorio era rimasta con solo due compagnie di bersaglieri e 20 carri, la Trieste aveva perso un intero reggimento di fanteria e tutto il battaglione carristi. Le forze di fanteria tedesche erano dimezzate e degli 88mm non ne restava che un pugno.
Nella notte Rommel ordinò il ripiegamento da El Alamein.
Proprio i resti della Littorio, insieme alla Ariete e alla 15° Panzer tedesca , vennero utilizzati per coprire la ritirata.
Il 4 novembre i carristi dell’Ariete si sacrificarono fino all’ultimo per ostacolare le truppe inglesi all’inseguimento delle forze dell’Asse. Come avrebbe scritto nelle sue memorie Rommel: “…..gli italiani combatterono con straordinario valore…uno dopo l’altro i carri esplodevano e si incendiavano ….La sera del 4 novembre il Corpo d’Armata corazzato Italiano era annientato. Con l’Ariete perdemmo i nostri più anziani camerati italiani, ai quali, bisogna riconoscerlo, avevamo sempre chiesto più di quello che erano in grado di fare con il loro cattivo armamento”.
La fine della Folgore avvenne durante il ripiegamento. I soldati italiani appiedati, vennero superati nel deserto dalle forze meccanizzate britanniche e resi inoffensivi non senza dover combattere a più riprese.
Finite le munizioni, i superstiti dei 5000 effettivi che avevano preso parte alla battaglia si arresero: 32 ufficiali e 272 paracadutisti ai quali fu reso l’onore delle armi.
Il comandate della Folgore Gen. Frattini venne quindi portato di fronte al Comandante della 44° divisione di fanteria britannica Gen. Hugues che lo salutò, esprimendo la propria soddisfazione per il fatto che si fosse salvato e sottolineò che nella sua lunga vita militare non aveva mai incontrato soldati come quelli della Folgore.
Al di la di ogni retorica, spesso anche sfruttata a sproposito dalle destre italiane, resta il fatto inoppugnabile che la BBC trasmise il seguente resoconto: “Gli Italiani si sono battuti molto bene ed in modo particolare la divisione Folgore, che ha resistito al di la di ogni possibile speranza”. (8 novembre 42).
Addirittura Churchill nel discorso alla Camera dei Comuni dopo la vittoria di El Alamein affermò: “Dobbiamo davvero inchinarci davanti ai resti di quelli che furono i leoni della Folgore”.
Il 7 novembre gli Americani sbarcarono in Marocco ed in Algeria: Churchill non avrebbe avuto più alcun problema politico al Parlamento inglese per tutta la durata del conflitto.
Marco Nieri
Istantanee in un giorno qualunque di Alessia Messina
È tutta una questione di bianco e nero a colori. Questo non è soltanto il titolo di una fotografia, ma anche la sintesi dello stile fotografico di “In un giorno qualunque” di Alessia Messina.
Le 31 fotografie, in mostra fino al 14 giugno nella libreria di moda Fashion Room di Firenze, si articolano in due diverse sezioni, una più ampia dedicata alla vita quotidiana e una più ristretta incentrata sul lavoro.
La quotidianità di cui parla Alessia Messina attraverso i suoi scatti è l’impressione di un momento, una serie infinita di attimi rubati al tempo, con cui raggiungere – per dirla alla Bresson – l’eternità.
Immagini di oggetti o di persone semplici e spesso sconosciute si alternano nella prima parte della mostra, sia che si tratti di street photography oppure di un interno.
Così come la fotografia consente di vedere la realtà attraverso infinite e possibili prospettive, così anche la fotografa coglie il suo reale attraverso diversi punti di vista. Punti di vista che diventano tematiche ricorrenti. Una su tutte il viaggio. Il viaggio è nella testa e c’è chi aspetta su una panchina oppure chi parte. Sempre.
Il viaggio di Alessia Messina parte dalle strade di campagna e dalle piazze cittadine in cui sono parcheggiate auto d’epoca in attesa della zingarata per approdare altrove. Il punto di arrivo è capire come si può vivere a New York. New York è la città in bianco nero, che odora di bianco e di nero e di vecchie pellicole, ha detto Woody Allen in Hollywood Ending
Life in New York è il finale della prima parte della mostra, dedicata più alle persone che alle cose, come la giocatrice di baseball nel parco o i giocatori di scacchi per strada.
Mentre la prima parte della mostra è tutta incentrata sul bianco e nero a colori, in cui l’unico colore dominante è il rosso – il rosso dei pomodori, del miele, dell’abito del sacerdote – nella seconda parte le fotografie sono sia in bianco e nero sia a colori. E tra i colori il rosso non è più l’unico e se lo è, allora diventa segno distintivo del lavoro manuale, operaio o sartoriale. Effetto ruggine sulle macchine da cucire o colorazione dei tessuti. Questi ultimi scatti sono la similitudine più chiara della concezione di Messina della fotografia: unire mano e cervello e sintetizzare con un solo clic l’emozione o l’idea di un momento.
Valentina Cirri
Dora Maar, la ragazza che amava il vento
Un viaggio affascinante nell’Europa bizzarra e zingaresca degli anni Trenta nelle oltre cento fotografie dell’artista, esposte a Venezia. A cura di Victoria Combalía, fino al 14 luglio, a Palazzo Fortuny.
“Non era bella in senso classico, ma era un tipo che non si dimenticava facilmente”. Lo scrisse James Lord, conquistato dalla grazia di Dora Maar, cittadina del mondo di origini franco-croate, fotografa sensibile di un’Europa che stava avviandosi sull’orlo della catastrofe. Una vita affascinante, quella di Henriette Theodora Marković (Parigi 1907-1997), che trascorse parte dell’infanzia in Argentina, a Buenos Aires, al seguito del padre architetto, dal 1915 al 1920. Un lungo soggiorno che contribuì a saldare in lei l’eleganza parigina, la severità mitteleuropea e la solarità zingaresca di una terra, l’Argentina appunto, ancora in fase di assetto istituzionale; un contatto ravvicinato con popoli e culture fra loro molto diversi, che istillò a Dora un profondo interesse per la multiforme fiesta della vita, che – in quegli anni Trenta nei quali dette il meglio di sé come artista -, ancora riservava un curioso mélange di quadretti ottocenteschi e una decisa impronta modernista. L’Avanguardia europea, che Dora conobbe nella sua Parigi, cercava del resto un punto d’incontro estetico e concettuale fra tradizione e modernità, rintracciabile, ad esempio, nell’arte tribale africana che Picasso assorbirà nel primo Cubismo. Anziché cercare un’analoga sintesi, Dora – che dal 1928 lavorava come fotografa di moda, dopo il diploma all’École de Photographie conseguito due anni prima -, s’inserì nel milieu della fotografia artistica, che in quegli anni conosceva un grande fermento creativo, grazie a figure quali Atget, Brassaï, Cartier-Bresson.
Eccola Dora Maar (questo il nome de plume da lei scelto), una Marlène sotto la pioggia, come ci appare nel ritratto realizzato da Man Ray: naso cesellato e sguardo pensoso, una bellezza mitteleuropea, come le sue origini croate dimostrano. Croata ma insieme cittadina del mondo, Dora viaggiatrice fra Europa e Sud America, spirito libero e attivista del gruppo rivoluzionario Masses con George Bataille, al quale fu legata fra il ’33 e il ’34.
La splendida cornice di Palazzo Fortuny ospita Dora Maar. Nonostante Picasso, raffinata mostra che presenta, suddivisa in sette sezioni – Ritratti dell’artista; Fotografie di strada; Il viaggio in Spagna; Lo sguardo surrealista; Gli amici; Moda, pubblicità, nudi; Picasso -, una produzione fotografica attenta alle frange marginali della società come mendicanti e vagabondi, alla vita quotidiana dei chiassosi mercatini, ai suoi aspetti più eccentrici, come il negozio di tatuaggi a Londra.
Un’atmosfera precaria, magica, cruda, tragica, che rivivrà diversi anni dopo nella pellicola di Fellini La strada, quella che Dora sceglie per le sue fotografie, scattate fra le bidonville della periferia, chiassosi mercatini e fiere, angoli eccentrici come un negozio di tatuaggi; luoghi circensi, ammantati di bizzarria. E quella stranezza che, con sguardo non scevro di affetto, Dora inseguiva nell’umanità, la cercò anche nella città, nelle sue atmosfere e architetture, stravolgendole con afflato surrealista.
Trovò terreno fertile per la sua ricerca nella Spagna repubblicana e zingaresca del 1933, a Barcellona, dove i mercati notturni e l’architettura modernista furono i suoi soggetti preferiti.
Esplorò anche il genere del nudo, ed è questa la sezione che meglio dialoga con l’allestimento di Palazzo Fortuny, in particolare con la serie delle Baigneuses, esposta a fianco dei nudi femminili di Mariano Fortuny.
Un lavoro fotografico, quello di Dora, che, idealmente, riecheggia la letteratura, e si situa a metà fra I canti di Maldoror (di Lautréamont precursore del Surrealismo) e Giorni tranquilli a Clichy, piccolo capolavoro sulle avventure europee della Lost Generation. E a leggere con attenzione il romanzo di Miller, ci s’imbatte in una figura femminile inquietante, tormentata, umiliata, che si dice amante di un pittore surrealista. Chissà che non fosse un velato riferimento a Dora, alla sua relazione con Picasso (che però non era surrealista), oppure una figura ispirata a lei e alla Loringhoven insieme, che, come amante di Man Ray, certo Dora dovette incontrare e conoscere. La Parigi degli anni Trenta visse una decadenza tutta particolare, fatta di angoli silenziosi e dimenticati, solitudini cenciose, incosciente spensieratezza.
Dora le racconta, senza però perdere di vista la vivace comunità intellettuale che si riuniva attorno all’Avanguardia. Ritrasse infatti Aube Breton, Georges Hugnet, Lise Deharme Paul Éluard, e la compagna Nusch. Osservando il suo ritratto, si comprende appieno il verso che il poeta le dedicò dopo la scomparsa “J’étais si prés de toi que j’ai froid prés les autres”. Dora coglie appieno l’enigmatica bellezza della Musa del poeta, ne immortala sulla pellicola la pensosa femminilità.
C’è empatia nelle sue fotografie, con gli ambienti e gli individui ritratti, quell’empatia che è tipica delle donne belle e fragili. Figura tormentata, Dora Maar – apparentabile a Marilyn Monroe, Zelda Fitzgerald, Elsa von Freytag-Loringhoven -, vissuta nello scomodo mito dell’amante vilipesa e abbandonata di Picasso (che come artista era un genio, come uomo un po’ meno), per il quale arriverà a soffrire di una sorta di Sindrome di Stoccolma. Iniziò quella burrascosa relazione nel ’36, in contemporanea con la guerra civile spagnola, e la subì fra alti e bassi fino al ’43. Subì il suo egocentrismo e le sue umiliazioni,
Come ben spiega il titolo della mostra, Dora riuscì ad essere una grande fotografa d’arte, nonostante questa difficile relazione, che la segnò profondamente a livello psicologico, riducendola alla completa solitudine per mezzo secolo, fino alla scomparsa nel 1997. Di quella tormentata stagione, oltre ai ritratti del compagno, Dora ha tramandate ai posteri le fasi di realizzazione di Guernica, opera campale dell’arte contemporanea europea e non solo.
Ultimi bagliori, prima di chiudersi in un silenzio appartato, con brevi apparizioni in società, a fianco degli amici artisti, e qualche mostra che la salverà dall’oblio.
Riscoprirla oggi, è un atto dovuto.
Ulteriori informazioni su orari e biglietti della mostra, al sito fortuny.visitmuve.it.
Niccolò Lucarelli
Si nasconde dietro alle auto in sosta
È un 20enne, notato in piena notte dalla polizia e infine fermato e trovato in possesso di vari oggetti atti all’offesa e allo scasso. Denunciato.
La prima spatola nata in Toscana
Un particolare “lieto evento” ha rallegrato ornitologi e bird-watchers affezionati al Padule di Fuchecchio: la nascita della prima spatola in Toscana. Una coppia di questi grossi uccelli acquatici, dal caratteristico becco a spatola, ha nidificato in una delle garzaie afferenti al bacino del Padule di Fucecchio.
La nascita del primo pulcino è avvenuta il primo giugno scorso, proprio durante uno dei sopralluoghi di monitoraggio del personale tecnico del Centro di Ricerca, Documentazione e Promozione del Padule di Fucecchio, che ha segnalato l’evento. La notizia si è rapidamente diffusa anche oltre i confini regionali, suscitando interesse nel mondo dei naturalisti.
Dopo il ritorno della cicogna nel 2005 e i primi insediamenti toscani dell’airone bianco maggiore e del cormorano, la prima nascita di spatole in Toscana è senz’altro un evento rilevante, che conferma l’importanza strategica del Padule di Fucecchio, come ambiente di riproduzione e diffusione di uccelli acquatici in fase di espansione del loro areale.
I due esemplari nidificanti sono entrambi inanellati; in questo caso non si tratta però di animali provenienti dalla cattività (come nel caso delle cicogne con anelli), ma di individui selvatici, inanellati al nido, ancora non volanti, con anelli colorati visibili a distanza. Gli anelli sono stati letti e sarà quindi possibile risalire alla loro provenienza, alla loro età e ai loro spostamenti.
Gli operatori del Centro RDP del Padule di Fucecchio non nascondono la soddisfazione per l’evento di indubbio rilievo scientifico, da accreditare anche ad attente pratiche di monitoraggio e conservazione degli habitat messe in atto nel bacino palustre, ed in particolare all’interno delle aree protette. Finora in Italia, dove si riproduce dal 1989, la Spatola ha nidificato solo in Emilia Romagna, Veneto, e Friuli, in totale poche decine di coppie.
Le Spatole, come gli ibis (di cui sono stretti parenti), con la loro sagoma singolare ed il loro fascino po’ esotico, rappresentano un’attrattiva straordinaria, andando ad aggiungersi alla già ampia comunità di specie selvatiche che popolano la grande palude.
Per informazioni su flora e fauna dell’area umida: Centro R.D.P. Padule di Fucecchio, tel. 0573/84540, email fucecchio@zoneumidetoscane.it, pagine web su www.paduledifucecchio.eu
Corrente elettrica dalla luce? Scoperto il perché
Come inizia il processo di trasformazione della luce del sole in corrente elettrica in una cella solare organica? La risposta arriva da gruppo di ricercatori del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) che ne ha realizzato un filmato in tempo reale, su una scala senza precedenti: milionesimi di miliardesimi di secondo. Lo studio, condotto dall’Istituto nanoscienze del Cnr a Modena (Nano-Cnr) e dall’Istituto di fotonica e nanotecnologie (Ifn-Cnr) a Milano, dimostra che i primissimi istanti della foto-conversione sono governati dalla natura quantistica di elettroni e nuclei, coinvolti in oscillazioni coerenti in tempi ultra-veloci. La ricerca, pubblicata sulla rivista ‘Science’, è condotta in collaborazione con Politecnico di Milano, Università di Modena e Reggio Emilia e con colleghi tedeschi, francesi e spagnoli.
Più economiche e versatili dei rigidi pannelli solari al silicio, le celle solari organiche vengono indicate tra le tecnologie chiave per la produzione sostenibile e pulita di energia rinnovabile. “Al loro interno sono presenti dei polimeri che assorbono la luce mettendo in movimento elettroni”, spiega Carlo Andrea Rozzi di Nano-Cnr, “e delle macro-molecole formate da 60 atomi di carbonio, note come Fullereni, che raccolgono carica elettrica. Ci siamo proposti di capire come si innesca tra le due molecole il trasferimento di elettroni che dà luogo alla corrente”. “Un fenomeno che avviene a velocità talmente sbalorditive da renderlo fino ad ora sperimentalmente inaccessibile”, aggiunge Giulio Cerullo del Politecnico di Milano e di Ifn-Cnr. “Ora, finalmente, siamo in grado di osservarlo e catturarne i singoli fotogrammi grazie a flash di luce laser ultraveloci, una tecnologia sviluppata presso il Dipartimento di fisica del Politecnico”.
Per studiare cosa accade in un tempo di poche decine di femtosecondi (milionesimi di miliardesimo di secondi!) i ricercatori hanno combinato gli esperimenti di spettroscopia laser ultraveloce, coordinati da Giulio Cerullo, con una serie di simulazioni al calcolatore, coordinate da Carlo Andrea Rozzi. “Abbiamo simulato la dinamica del trasferimento di elettroni tra polimero e fullerene tenendo conto della natura quantistica della materia”, spiega Elisa Molinari, fisica dell’Università di Modena e Reggio Emilia e direttrice del polo modenese di Nano-Cnr. “Il filmato che otteniamo è sorprendente. Calcoli ed esperimenti indicano che il big-bang dell’intero processo di fotoconversione avviene grazie all’oscillazione coordinata di elettroni e nuclei atomici, un comportamento che i fisici chiamano coerenza quantistica, senza il quale non si darebbe avvio al trasferimento di carica e non si otterrebbe nessuna corrente elettrica. Crediamo che questi risultati potranno guidare la costruzione di nuovi materiali artificiali capaci di convertire la luce solare in energia con la massima efficienza”.
Immagine. Fotogrammi della simulazione quantistica della conversione luce-corrente in una cella fotovoltaica organica – composta da catene di polimero e molecole di fullerene. La ‘nuvola’ chiara illustra le oscillazioni di un elettrone dopo che la luce solare è assorbita al tempo zero. Il trasferimento di carica dal polimero al fullerene avviene tramite oscillazioni che danno avvio al processo fotovoltaico. La scala dei tempi è quella dei femto-secondi (0.000000000000001 secondi), le dimensioni sono di circa due nanometri (0.000000001 metri).
Il rigore più brutto e bizzarro
È quello che ha superato in due giorni i 5 milioni di clic. È il rigore tra Afghanistan e Maldive, non certo la più notevole delle sfide calcistiche, nel quale il calciatore prendere la rincorsa, cade, si rialza e segna con un tiro non proprio imparabile. Più che leciti, ovviamente, i complimenti dei compagni e i sorrisi in panchina.
Per l’inferno solo andata: la battaglia di Stalingrado
La battaglia di Stalingrado è stata la più grande battaglia che sia mai stata combattuta. Si calcola che l’Unione Sovietica abbia perduto 480.000 uomini ed abbia avuto 650.000 feriti. Le forze dell’Asse perdettero in tutta la campagna circa un milione e cinquecentomila uomini di cui 400.000 prigionieri.
Mai sulla faccia della terra si era assistito ad uno scontro di tale grandezza. Se pensiamo che la grande battaglia di El Alamein vide durare i combattimenti per 11 giorni, i 220 giorni e le 220 notti di Stalingrado sembrano appartenere ad una realtà sconosciuta fino ad allora.
Non è un caso che si citino le notti, poiché se i tedeschi ogni giorno effettuavano un’offensiva, ogni notte i russi, soldati e cittadini, contrattaccavano fino al sacrificio supremo.
Tutto ebbe inizio perché Hitler considerava vitali il grano della Russia ed il suo petrolio. Le genti dell’Est potevano inoltre essere utilizzate come schiave della “Grande Germania”. Mentre i commissari politici dovevano, senza problemi, essere fucilati immediatamente.
L’ “operazione Barbarossa” iniziò il 22 giugno 1941: truppe tedesche appoggiate da truppe finlandesi, rumene ed ungheresi, per un totale di circa 3 milioni di uomini dotati di 10.000 carri armati e 3000 aerei invasero l’Unione sovietica. Il 26 giugno 42 Mussolini inviò, in appoggio alle forze dell’Asse, un corpo di spedizione (CSIR) composta da 60000 uomini e guidato dal gen. Messe. Il 9 luglio dello stesso anno divenne ARMIR (Armata Italiana in Russia), forte di 220.000 uomini al comando del Gen. Italo Gariboldi.
Il Gen. Messe si era dimesso per essersi opposto all’invio delle ulteriori 6 armate, male armate e male equipaggiate e, come ebbe a dichiarare, destinate “ad essere massacrate più dal freddo che dal nemico”.
L’Unione Sovietica, investita dalla potenza distruttiva tedesca, subì perdite notevoli. Si stimano in un milione e mezzo i soldati russi fatti prigionieri in questa prima fase. I tedeschi giunsero presto alle porte di Mosca.
Stalin tuttavia poteva contare su riserve militari cui nessuno aveva mai prestato credito e la tattica di far trovare intere città e zone industriali svuotate di macchinari e di persone, faceva spesso avanzare i germanici in un apparente deserto.
Tutta la produzione bellica fu infatti spostata al di la degli Urali , mentre si procedeva a riorganizzare le industrie ed a trasferire tutti i materiali che potevano essere necessari al nemico.
Nel frattempo il Gen. Sovietico Zuckov, mentre difendeva strenuamente Mosca, lavorava per riorganizzare l’esercito. Egli inserì nell’Armata Rossa un numero ingente di truppe fresche e ben equipaggiate, preparando una inaspettata controffensiva.
Il primo contrattacco, inaspettatamente, avvenne già nel dicembre del 41 e le truppe tedesche si trovarono costrette ad arretrare di ben 200 km.
Hitler a corto di carburante fu così spinto a spostare l’attacco su Stalingrado, attraverso il Don, nel tentativo di occupare quelle terre ricchissime di petrolio , in vista di una futura eventuale ricongiunzione con l’esercito Giapponese, che in quella fase era già arrivato in Thailandia e puntava all’India.
All’inizio del 42, i Sovietici, vista la tattica tedesca, iniziarono giganteschi lavori difensivi intorno a Stalingrado. Dagli archivi russi sono emersi dati impressionanti: furono utilizzati 200.000 uomini che costruirono 6500 fortini e 3300 trincee coperte, il tutto per una profondità di parecchi km attorno alla città.
Quando nel luglio del 42 la 6° armata tedesca cominciò l’attacco alla linea del Don (150 km ad ovest di Stalingrado) il cui sfondamento avrebbe permesso di arrivare dritti nel distretto petrolifero, si trovò improvvisamente di fronte il muro della 62° Armata russa forte di 6 divisioni corazzate e l’attacco fu arrestato.
Hitler irrigiditosi sulle sue posizioni inviò sul Don altri tre corpi di Armata ed i russi cominciarono ad indietreggiare, ma i tedeschi in un mese riuscirono ad avanzare di soli 60 km.
La Wermacht era comandata da un grande professionista, che non aveva nemmeno simpatie naziste, il Gen. Von Paulus che ebbe tuttavia la sfortuna di subire il pungolo ossessivo di Hitler e la genialità di Zuckov.
Fu allora che Stalin viste anche le difficoltà dei tedeschi ed in attesa dell’inverno, fece diffondere dal Commissario del Popolo l’ordine del giorno del 28 luglio che recitava tra l’altro: “…è giunto il momento di cessare la ritirata: non più un passo indietro! ….bisogna combattere tenacemente fino all’ultima goccia di sangue, aggrapparsi ad ogni zolla di terra sovietica e difenderla sino all’ultima possibilità.”
Nonostante l’effetto morale di quest’ordine, Von Paulus riuscì comunque, a prezzo di gravissime perdite, ad arrivare al Volga. Stalingrado era rimasta sola.
Dal Settembre, poi, i combattimenti si spostarono in città che era ormai trasformata in un fortino a maglie concentriche. I tedeschi non riuscivano ad avanzare nonostante i ripetuti attacchi. Più di 400 cecchini furono messi in campo dai sovietici, maestri di tiro terribili. Un solo soldato, si dice, riuscì ad uccidere 242 tedeschi. Vi fu tuttavia un momento in cui i tedeschi arrivarono a 500 metri dal Comando di Ciukov.
Ma non vi furono cedimenti. Ogni metro di città costava ai tedeschi perdite impensabili.
Furono due mesi terribili nei quali di giorno i tedeschi attaccavano e di notte i russi, rafforzati da circa 60.000 cittadini in armi, riconquistavano il terreno perduto.
Il 17 novembre cominciò a nevicare. Era quello che i Generali Zuckov e Ciukov attendevano. Nuovamente furono fatte affluire forze fresche provenienti dalle zone della Siberia. 17.000 nuovi cannoni furono schierati, insieme a 1200 nuovi carri armati e 1300 aerei.
Il 19 novembre fu dato l’ordine di attacco sul fronte sud orientale (Operazione Urano), nel tentativo di accerchiare l’esercito tedesco che a sua volta accerchiava Stalingrado. La manovra ebbe successo. Mentre i tedeschi ripiegavano su Stalingrado, venendo presi tra due fuochi, i rumeni cedettero a Kletskaia. L’aviazione russa effettuò in un mese circa 6000 missioni, con una media di 800 incursioni giornaliere sulle truppe nemiche, superando di almeno sei volte le incursioni tedesche.
La 6° e la 4° armata di Paulus si trovavano ora circondate da sette armate sovietiche e nonostante Hitler fosse contrario alla resa i generali germanici cominciarono a vacillare. L’8 gennaio 43 il comando russo propose la capitolazione al nemico, ma Hitler insisteva con i suoi per continuare a combattere.
Il 10 gennaio, così, i sovietici cominciarono a bombardare il nemico e con i carri sferrarono un pesante attacco. Iniziò quindi la resa in massa di Ufficiali e soldati. Il 31 gennaio Von Paulus venne fatto prigioniero e trattò la resa incondizionata delle armate circondate nella sacca di Stalingrado.
Per gli altri iniziò la dolorosa ritirata nella neve alta e spesso a piedi.
Durante questa battaglia gli invasori persero 32 divisioni e tre brigate, praticamente il nerbo dell’esercito tedesco. Nelle macerie di Stalingrado vi erano 30.000 cadaveri.
In uomini furono persi dai tedeschi 1.500.000 soldati oltre a 3500 carri armati, 12000 cannoni, 3000 aerei e 75000 veicoli.
Di fronte a questi dati appare tragica l’inconsistenza dell’armata italiana, che non adeguatamente armata e male equipaggiata, fu spazzata via all’alba dei primi attacchi sul Don, (operazione Saturno) insieme ai residui reparti rumeni, nonostante l’eroismo di tanti nostri soldati. Gli italiani furono mandati allo sbaraglio senza armi anticarro, con cannoni della prima guerra mondiale e soprattutto con divise estive. Aveva purtroppo visto giusto il Generale Messe. I sovietici riuscirono a bombardare perfino i rifornimenti invernali tedeschi impedendo alle armate dell’Asse di affrontare il gelo dell’inverno russo con vestiti idonei.
In quelle condizioni era impensabile una facile vittoria come Hitler, nella sua follia, aveva previsto.
D’altro canto i sovietici furono bravissimi nell’organizzazione dei propri rifornimenti e le immense risorse umane che facevano continuamente affluire dall’Asia mantenevano in efficienza le truppe di assalto.
Churchill, consapevole di tutto ciò, chiese a Stalin per ben due volte nel corso del 42 di accelerare l’attacco ai tedeschi, in modo da alleggerire il fronte occidentale. Ma i sovietici preferirono attendere l’arrivo della neve, e questo fu un fattore determinante.
Come alcuni storici hanno avuto modo di affermare: “Il massiccio sbarco degli anglo americani sulle spiagge della Normandia….avrebbe certamente avuto uno sviluppo differente, se Hitler non avesse spostato gran parte del suo esercito e quello dei suoi alleati a est. “
I sovietici, dopo Stalingrado, avendo mobilitato con un possente sforzo bellico oltre dieci milioni di uomini e un numero enorme di carri armati anche di concezione avanzata (i famosi T3, considerati i migliori carri della 2° guerra mondiale, i primi con la corazza superiore inclinata per deviare i colpi del nemico) e un numero impressionante di aerei, non avrebbero trovato altri ostacoli fino a Berlino.
La follia omicida di Hitler trovò a Stalingrado la barriera decisiva per il suo ridimensionamento e segnò l’inizio della disfatta militare germanica.
Marco Nieri